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Rifugio Sapienza

di Domenico Cogliandro

 

La cronaca racconta ciò che è avvenuto, quello che appartiene al tempo, quello che è patrimonio comune di un presente in divenire. Etna è un nome, che altri chiama ancora Mongibello. L'eruzione è un dato. Crateri, lava, soffioni, ingrottamenti, ceneri son termini e soggetti di questo teatro che attorno all'Etna si muove. In mente mi affiora, più di qualunque altra immagine, quella che Akira Kurosawa ha incorniciato in Sogni: il vulcano, il paesaggio, l'uomo. In questo momento la natura viscerale ha in scacco un intero fronte di altra natura che sulle pendici s'è aggrappata: organismi viventi e prodotti di essi, alberi e uomini, ombre e case. Altre parole. Alcune di esse, però, nonostante la loro temporaneità, emergono più di altre. 


Veduta dell'Etna, da Siracusa, in W.A. Paton, Sicilia pittoresca, Remo Sandron Editore, Milano-Palermo-Napoli 1901.

Ne ha scritto nel 1798 Domenico Adorno, così: "L'Etna, altr. Mongibello, perciocché Gibel chiamavano i Saraceni ogni Monte, e questo l'è per sua grandissima rinomanza, dove la natura sembra pompeggiarvi con una gran copia dei suoi ammirandi fenomeni. Avverasi in esso ciò che cantò Lucano: Nullum est sine nomine Saxum. Non è lieve impresa il farne una ben distinta descrizione, utilissima alla Storia Naturale ed a tutte le parti della Fisica; parecchi valentuomini la tentarono, ma si è recata essa a compimento?"

[03aug2001]
Alle pendici, non più tanto lontane, ormai, sta posto il Rifugio Sapienza. Avrà certo una sua motivazione il nome, che io disconosco, ma per questa breve digressione è di minor importanza. Il Rifugio Sapienza, nel momento in cui scrivo, sta per essere toccato dal fiume di lava eppure, nonostante qualunque cosa si possa pensare della distruttività della fase eruttiva del vulcano, alcuni esseri umani, della medesima specie di cui faccio parte, con chi legge, con chi sta dall'altra parte del monitor, ecco proprio loro, alcuni di loro lavorano indefessi, coi tempi disposti da un cantiere edile, quelle otto/nove ore al giorno, incuranti del pericolo incombente, alla ristrutturazione del Rifugio Sapienza. Perché, nonostante non vi siano più piste attraversabili dagli sciatori, nonostante gli impianti siano stati divelti dalla lava, nonostante intorno si stia creando una specie di vuoto pneumatico incrostato di magma raffreddato, c'è il desiderio di trasformare il Rifugio Sapienza in un hotel a quattro stelle. La lava fluisce, travolge le strutture, le case, gli alberi, ricopre e trasforma il paesaggio o, in termini più definitivi, la geografia di un luogo, e quei piccoli testardi uomini scavano una fondazione, intonacano una parete, posano delle piastrelle, passano cavi sottotraccia per gli impianti di condizionamento, fanno pausa pranzo, si fumano una sigaretta e poi scelgono gli arredi, organizzano il locale cucine, controllano i disegni esecutivi, correggono in corso d'opera la posizione di un tramezzo o la collocazione di un estintore antincendio. Quindi chiudono il cantiere, a sera, e tornano in orario la mattina successiva.

Tutto questo per il Rifugio Sapienza. E' possibile pensare, immaginarsi ancora la passione per le cose? Questa non è passione, si dirà, è piuttosto quella incosciente follia che prende quando non si sa più cosa fare. E' la paura di morire. O di non riuscire a pensare una cosa così terribile come la morte. Non lo so. Fatto sta che alcune settimane fa una persona che conosco bene, un salesiano che ha vissuto diversi anni intorno a Zafferana Etnea, mi ha detto con candore che al rifugio la lava non sarebbe arrivata, e anche se fosse l'avrebbe soltanto lambito. Ho sentito per radio il titolare dell'impresa che segue i lavori dire che "tanto l'Etna sa che noi stiamo lavorando". E il proprietario della struttura rivelare in televisione una fiducia sui generis sul fatto che i danni probabili possano essere con certezza meno degli evidenti vantaggi della ristrutturazione. Una fiducia sconsiderata nella natura, seppur negata dai fatti? Non so. Le persone che fanno queste dichiarazioni sono imprenditori che rischiano denaro. Non sono certo immuni, eppure in queste frasi c'è qualcosa di ancestrale che nessuna modernità può ostacolare. C'è il senso del tempo. La perfetta conoscenza del senso del tempo. Si sta ovviamente parlando di un simbolo, per chi su esso specula per verba. Ma il Rifugio Sapienza è lì, è concreto, almeno quanto le concrezioni del ventre della terra che gli stanno intorno.

Le ambite descrizioni di Adorno sarebbero state inutili. I luoghi cambiano perché gli uomini li trasformano, ne modificano il profilo visibile. Nicolosi stessa, la cittadina che si spinge oltre tutte verso il cratere, è stata più volte travolta e ricostruita. Contro ogni credo. In altri luoghi, in quasi tutti i luoghi che hanno visto strazianti trasformazioni o pericoli impellenti, i centri urbani sono stati trasferiti ad altro sito mantenendo inalterata la denominazione politica, e in alcuni casi la toponomastica urbana. Ha scritto W.A. Paton nel 1901 che a Nicolosi "tutte le case sono di costruzione leggiera e a un sol piano, molte con soffitto in legno, perché gli uomini che le abitano vivendo in continuo sospetto di terremoti, temono di rizzar muri più solidi, che possono essere buttati giù in un momento e schiacciare vivi le loro mogli e i figliuoli", e inoltre che "esso è stato distrutto spesse volte dal terremoto, e a quando a quando sepolto in parte sotto correnti di lava". C'è qualcosa, allora, che da secoli scorre nel sangue di quella gente che convive, bene o male, col vulcano. Qualcosa che ci fa apparire in qualche modo inutili o superflui i nostri sorrisi increduli davanti all'ineluttabile corso degli eventi. Qualcosa che dice: "non tutto si trasforma". Non so cosa accadrà al Rifugio Sapienza, non so cosa accadrà a Nicolosi, né alle persone che vivono con questo irrisolvibile nodo gordiano. Qualcosa mi dice, però, nonostante non le abbia viste, che quelle piastrelle non sono poi così male, come potrebbe apparire ai più.

Domenico Cogliandro

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