Files

Intervista a Tobia Scarpa

di Francesca Pagnoncelli

 

L'appuntamento per l'intervista è fissato in Campo S. Giorgio, vicino al ponte dell'Accademia. In realtà ci incrociamo per strada perché l'architetto mi sta venendo incontro. Venezia è la sua città, non vi è alcun dubbio: è la sua casa, una casa grande con calli, ponti, campi e rii, un rifugio sull'acqua. La nostra conversazione si svolge ad un tavolino di un bar affacciato sul canale della Giudecca, dal lato che prende il sole tutto il giorno.





[09aug2001]
FRANCESCA PAGNONCELLI: Durante la passeggiata mi ha raccontato della consulenza che la Sovrintendenza di Venezia le ha chiesto per la sistemazione interna del Museo dell'Accademia, che si estenderà agli spazi destinati ancora oggi alla Scuola d'Arte. A parte questo intervento, che si confronterà direttamente con gli interni sistemati da suo padre, quali sono gli ultimi progetti in corso?

TOBIA SCARPA: In questo ultimo periodo l'attività progettuale si è trasformata per me quasi in un hobby: da qualche tempo mi considero in pensione e partecipo a concorsi per assecondare un amico ingegnere che mi spinge ad iscrivermi a tutte le competizioni. Stiamo portando avanti alcune opere: un palazzetto dello sport a Lommel in Belgio, il palazzetto dello sport di Salerno assegnatoci per concorso e di cui stiamo elaborando i disegni esecutivi; se la politica non fa scherzi si dovrebbe realizzare. Stiamo poi elaborando i disegni per la destinazione museale del palazzo scaligero a Verona, museo che non ha ancora una destinazione precisa. E' uno spazio espositivo importante per una città come Verona che si vuole proporre come centro leader dell'area nord-est, di cui è un esempio il concorso per il museo di storia naturale vinto da Chipperfield. La città sta giocando la sua chance storica per diventare polo culturale di riferimento italiano per l'intera area nord-est e ha fatto tutte queste operazioni per creare un polo dove si faranno delle grandi mostre. E' un'operazione in linea con gli eventi e i successi ospitati a Venezia da Palazzo Grassi, a Bilbao dal Guggenheim di Frank Gehry: si muovono tanti fenomeni latenti, si crea turismo, si rivitalizzano parti di città, si danno nuove energie e cambiano le dinamiche sociali ed economiche consolidate. Non entro nel merito se sia giusto o sbagliato, mi limito ad analizzare e ad evidenziare il fenomeno.

Lei è forse il primo architetto che afferma tranquillamente di essere in pensione. Il suo lavoro sta continuando in un certo senso in modo non ufficiale. Quali ragioni ci sono dietro questa uscita dall'estabilishment della disciplina?

Non mi ritengo uno specialista, non appartengo a nessuna struttura, a nessuna fazione culturale e disciplinare, quindi sono libero nel mio lavoro. Scelgo e risolvo problemi di diverse natura: dai grandi progetti di concorso ad interventi come, ad esempio, quello per l'arredo di un piccolo angolo al Palazzo Ducale di Venezia. Quest'ultimo è stato elaborato per la Sovrintendenza, che mi costa tanto tempo, ma mi procura anche grande soddisfazione: non devo preoccuparmi di standard dimensionali, economici, ecc. L'avere sempre rifiutato di avere una dimensione professionale ufficiale mi ha consentito di salvaguardare la mia libertà di pensiero e di progettista: sono un architetto senza dimensione, a-dimensionale, posso fare quello che voglio. 

Mi piace molto progettare, mettere ordine in una serie di problemi attraverso l'uso corretto delle idee. L'idea nella sostanza è il momento catartico di tutto un processo di accumulazione: impari, confronti, giudichi, perché, per quanto si voglia, non si è mai esenti dal giudizio. Si entra così nella sfera etico-morale, nelle azioni che poi farai, nelle decisioni che prenderai. Il progettare consente di formalizzare questa sommatoria potenziale di fattori in qualcosa di concreto. Si può parlare di intuizione. Quello che mi piace meno è l'aspetto professionale: organizzare la costruzione dell'opera, essere responsabile dei tempi. Non amo più nemmeno il cantiere perché ogni volta che apporti delle correzioni o delle innovazioni tecnologiche queste vengono afferrate dagli altri e banalizzate, volgarizzate, commercializzate e perdono il fascino straordinario che hanno le invenzioni. Adesso poi si fa molto più attenzione al denaro: si fanno preventivi, bilanci. Il denaro oggi è diventato un'entità astratta. Il denaro è interpretabile come potenziale energetico: ha un suo peso pratico nel momento in cui viene scambiato, teorico nelle fasi precedenti. Il denaro teorico può essere usato come strumento negativo, per ricattare, violentare la gente e i rapporti: oggi è spesso più importante del progetto e lo condiziona. Ritengo che l'azione, un'operazione, una volontà che si estrinseca mediante una serie di processi, tra cui il lavoro che è la sua concretizzazione, è un affare tra uomini. La relazione possibile con altri è un'enorme potenzialità creativa, da essa possono nascere cose straordinarie solo se la sai indirizzare positivamente. L'uso del denaro così equivoco, che riesce a trasformare e condizionare il mondo, è negativo a causa del valore e dell'uso che l'uomo ne fa. Il mio è, alla fine, un giudizio negativo sull'uomo di oggi e sulla sua scala di valori. L'anteporre il guadagno al progetto, all'azione, ne mina in partenza il risultato finale.

Nell'elaborazione del progetto il problema dei materiali, delle tecnologie, quando si pone?

L'aspetto materico ha un carattere contundente, è la prima cosa che ti colpisce di un oggetto, di un corpo, ne dichiara il carattere. Non è però l'unico elemento: sono tanti i fattori che convergono in ogni opera umana e che hanno la stessa importanza, anche se non la stessa valenza: la mano dell'operaio che ha eseguito una struttura è importante quanto il materiale che hai scelto. Oggi non c'è più il tempo di dialogare con gli operai, di mostrare loro la tua visione del progetto, che loro poi devono trasformare in materia e che diventa un loro patrimonio culturale e operativo. Non c'è tempo né modo di insegnare l'uso corretto dei materiali, e ciò comporta un depauperamento della qualità finale dell'opera. In realtà anche l'operaio è interessato a lavorare bene perché vuole essere orgoglioso del risultato della sua fatica, perché un lavoro di qualità lo nobilita. Nei grandi cantieri, che hanno scadenze segnate, budget definiti, burocrati che premono, le cose spesso si guastano. Si risparmia continuamente, si banalizza e si impoverisce tutto.

Come è possibile cercare di salvaguardare la qualità del progetto e dell'opera architettonica? Come può l'architettura rispondere alla contemporaneità, ai suoi problemi e alle sue necessità, coniugare, per collegarsi all'ultima Biennale di architettura, etica ed estetica?

L'ispirazione formale e la scelta delle modalità di tradurla fisicamente attraverso l'uso corretto di tecniche e materiali avviene in contemporanea: se i due momenti e le due soluzioni fossero distinte, e non affrontate contemporaneamente nel momento ideativo, bisognerebbe fare un lavoro di limatura, un affinamento successivo. Ci sono, è vero, architetti che preferiscono questo metodo operativo e che lo risolvono correttamente. Io preferisco il metodo intuitivo: un'idea che nasce spontanea e che accoglie tutti gli aspetti legati al progetto e alla sua realizzazione, anche se non li risolve puntualmente e totalmente subito. Tu sai e devi essere cosciente delle difficoltà esecutive, strutturali, economiche, tecnologiche, distributive. Sono difficoltà grosse che devono placarsi in una sola soluzione, che purtroppo, vivendo in un mondo non perfetto ma perfettibile, vanno perfezionate. 

La differenza tra i due atteggiamenti è che il metodo intuitivo richiede un'attenzione generale a tutti i valori della vita, della conoscenza: è un abbandono. Il tuo ego non si assenta e non pretende un'autonomia, un egoismo. Tu ti bruci e ti dissolvi nelle cose. Anche nel rapporto umano se non dai nulla non contribuisci a costruire il "sorriso del mondo". Se il mondo non sorride che cosa ci stiamo a fare? Ultimamente fatico ad essere in pace con il mondo perché si sta avvilendo, perché nessuno ci fa più sorridere. Le centrali del potere, operative e decisionali, sono concentrate in alcune parti del mondo: ciò sancisce la vittoria definitiva del pensiero occidentale su tutto ciò che è sensibilità, mistero, mito. Il pensiero occidentale, il pensiero analitico e platonico tipico del rinascimento, l'uomo al centro del cosmo, ha portato alla quantità degenerata. Per sopravvivere una struttura deve fare scelte che non possono essere solo sensibili ma anche quantitative. Bisogna prendere coscienza di queste cose.

Ognuno di noi può mantenere la sua autonomia e la sua energia di coesione anche all'interno di un universo in crisi come quello che ho descritto. Non c'è più un'energia così grande da contenere tutto; il mondo fatto di tanti con la promessa di una ricchezza distribuita non è mantenibile quindi si continua a viaggiare sull'ipocrisia che questa ricchezza, che i risultati, arriveranno, domani. E domani è un giorno senza data. Le promesse portano confusione, le parole perdono il loro senso preciso e il loro valore. C'è bisogno di franchezza, di sincerità, anche verso noi stessi perché la verità porta con se chiarezza. La verità consente di governare la propria esperienza rispetto alla realtà in modo ragionevole e permette di fare tesoro delle proprie esperienze, per sé e per gli altri. I media, il commercio, la globalizzazione, sono sistemi che si preoccupano solo di fare circolare energia senza curarsi della natura e della qualità che ha, né della sua destinazione, né del suo utilizzo. Si è perso un senso della comunità, quindi la responsabilità è del singolo, la scelta è individuale e, spesso, comporta soluzioni solitarie.
> FILES

 

 

laboratorio
informa
scaffale
servizi
in rete


 







copyright © DADA Architetti Associati