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Ponte sullo stretto

di Domenico Cogliandro

 

Intanto questo viaggio al sole è cominciato col freddo, col mare mosso, come fosse marzo invece che maggio: e su una navicella decrepita, veramente del tempo di Tripoli, bel suol d'amore.
Ma poi le cose si sono aggiustate. Non certo a Messina, dove vedo per la prima volta gli esecrabili piloni dell'alta tensione. Trabiccoli giganteschi e gretti, provvisori e friabili nella vastità del mare e sulle coste tonde e compatte come pani di creta. Tralicci sgarbati, a balze bianche e rosse. Quando ci sarà anche il ponte, l'inutile ponte, il costosissimo ponte, questo ingresso mitico e grandioso, con la Calabria alpestre, e la Sicilia come un cane accucciato, un cane di pelo corto, sarà ridotto alla volgarità della Golden Gate di San Francisco.
Cesare Brandi 




[16aug2001]
Ci vuole l'incipit giusto. L'incipit che mi schieri dalla parte dei disfattisti, dei romantici e dei contrari all'innovazione infrastrutturale. L'incipit che mi schieri dalla parte del torto. Di questo mistero sono avvolte le parole. Ne dici una e ti trovi al settimo cielo, ne dici un'altra e sprofondi nelle viscere della terra. Da una parte tu e dall'altra chi osserva la scena. Credi, speri, di essere attore della vicenda e ti trovi ad essere spettatore; conosci, perché è vero e lo sai, il dramma e la sua articolazione, il destino della storia, quale scena l'ultima, quale l'ultimo sipario, eppure non stai su quel palco ma da un'altra parte, a sentire scossi i fili del pinocchio che è in te. Olà, un melodramma? Questo è lo spettacolo. In Otello l'autore fa dire a Jago, con curiose parole: "non sono quel che sono" e Borges, dall'alto del suo illuminante aleph ha scritto, a proposito del tale autore che "dopo morto, si seppe di fronte a Dio e gli disse: Io, che tanti uomini son stato invano, voglio essere uno e io. La voce di Dio gli rispose da un turbine: Neanch'io sono; io sognai il mondo come tu sognasti la tua opera, mio Shakespeare, e tra le forme del mio sogno sei tu, che come me sei tanti e nessuno". Ecco qua.



Protagonisti sono altri, questo vorrei dire, in questa irreale diatriba sul ponte che attraverserà lo Stretto di Messina. Protagonista è una Italia che non sa cos'è il Sud, termine generico (lo capisco), ma lo analizza attraverso i numeri, perché sono quelli che consentono di leggere tra le righe le parole non dette. Giustifico questa visione che appartiene al nostro tempo. Ogni frammento della storia del novecento ha qualcosa di caratterizzante. Questo tempo ha la passione per i numeri, se così vogliamo dire. Si faccia caso. Nelle cose quotidiane. Faccio un esempio. Da quando è nata Bianca, mia moglie ed io ci siamo accorti di quanti passeggini popolassero le città, perché a nostra volta conduttori di mezzo a quattro ruote. Visione parziale. I passeggini ci sono sempre stati, cambiano i punti di vista. Ecco, il ponte è una allucinazione collettiva. Se ne parla dalla notte dei tempi, adesso tutti cominciano a vederlo. Ma lo si guarda dalla parte di chi deve attraversarlo. Come se fosse una enorme costruzione Lego, facile da realizzare, basta incrociare i mattoncini con il forellino corrispondente e il gioco è fatto. Facciamo un salto indietro allora, prima dell'invenzione dei mattoncini.

I primi progetti "fattivi" del ponte risalgono ad un'epoca in cui l'attraversamento era un vero problema. So che queste analisi sfioreranno appena le questioni fondamentali, ma so anche che rischiano di cadere nel dimenticatoio le domande a cui si sta cercando, dopo tanto tempo, di dare una risposta. Qual era la questione nodale? Evitare che per passare in Sicilia ci si mettesse una vita, come hanno ricordato Vittorini, D'Arrigo, Strati, fotografando con lucide parole un tempo che non ci appartiene più. Il collegamento, appena cinquant'anni fa, era dovuto alle sole navi in forza alle Ferrovie dello Stato. Si arrivava a Villa San Giovanni, nodo gordiano questo sì, o allora anche a Reggio Calabria, e da lì, tragitto obbligato, ci si doveva mettere in coda ed attendere il passaggio dall'altra parte. La flotta era costituita da poche navi, imbarcare il treno era una operazione a dir poco farraginosa tanto che anche Marinetti, su altre imbarcazioni, nel 1908, inizia il poema futurista Zang zang tumb tuum, articolando il titolo proprio sul fracasso che il treno faceva per entrare nel "ventre-balena" delle navi dell'epoca. Tra i Cinquanta e i Sessanta, presi dal boom economico e motoristico, che avrebbe roso il fegato al più esagitato futurista, il popolo diventa particolarmente nomade. Ma di un nomadismo che si blocca al collo della bottiglia, lo Stretto di Messina. Il ponte si rende necessario, più che necessario. Torniamo a noi, allora.

La domanda è corretta. Una opera infrastrutturale stradale e ferroviaria, a naturale completamento dell'Autostrada del Sole, pensato come uno svincolo per la Sicilia anziché un'opera di spropositate dimensioni, era da mettere nel conto dell'Italia moderna. "Bisogna fare il ponte sullo Stretto", questo lo slogan. La questione era corretta, era giusto il tempo, meno facili le soluzioni. Esiste in tal senso una ampia letteratura di progetti e metodologie di attraversamento che i cultori andranno a cercarsi. Fatto sta che non appena l'idea del ponte si ferma davanti a opposizioni tecniche del tipo "le soluzioni sono molto complesse, vanno trovate e vagliate tutte le ipotesi", la stessa idea diventa un'arma politica. Dopo mezzo secolo si sta rispondendo ad una domanda che, almeno in parte e in maniera non più disarticolata, ha trovato, negli anni, una serie di soluzioni, tutte lecite, tutte meno dispendiose, tutte ampiamente sostenibili. Molte di queste, peraltro, economicamente vantaggiose, potendo utilizzare le risorse in esubero, eventualmente investite per l'opera maxima, per garantire soluzioni di vivibilità proprio alle aree maggiormente toccate dal transito, sia a Villa San Giovanni che a Messina.

Sto cercando di sostenere, dal punto di vista dei deboli e dei romantici, la tesi che la risposta che si sta dando alla domanda di cinquant'anni fa è più o meno obsoleta, perché in parte la domanda è stata scomposta e le risposte, a cui il territorio s'è adeguato, sono state date. Sicché andrebbe fatta una domanda diversa per avere una risposta consona ai nostri tempi. E, grazie all'accelerazione del sapere scientifico e alle tecnologie a nostra disposizione, probabilmente non dovremo aspettare altri cinquant'anni, anche perché tutte le premesse sono state lette, corrette e riscritte diverse volte. Si corre il rischio, cioè, di realizzare una piazza (pratica ormai di moda) dove già una piazza esiste e i vantaggi per il centro urbano non si possono computare, proprio in virtù del fatto che le traiettorie e le aggregazioni di chi vive la piazza si sono consolidati nel tempo: si sovrapporranno ad una pelle diversa, tutto qua. Sicché le strade che si aprono non sono molte, forse non più di due. Una è stata accennata: facciamoci una domanda diversa, mantenendo inalterato l'obbiettivo. Una domanda, che sono molte domande, che altri hanno già avanzato, come ipotesi alternative all'opera. Perciò una domanda che, in un certo senso, si conosce già. Il trasferimento e potenziamento delle flotte, pubblica e privata, per esempio, con la possibilità di impiegare direttamente i disoccupati dell'area interessata alle opere senza entrare nei balletti dei subappalti intorno all'infrastruttura. Eccetera.

Una seconda, invece accomodante, almeno nutre una speranza. E recita così: se proprio volete costruire il ponte, se proprio vi preme farlo, se non riuscite più a fermare la macchina da guerra degli investitori e dei finanziamenti pubblici, se proprio non riuscite a pensare ad altro, almeno fate un ponte bellissimo. Non ci frega assolutamente niente che il ponte serva a risolvere un problema, perché tanto non è vero. La crisi da coda delle vacanze (perché di questo si tratta, non del traffico ordinario), a Villa San Giovanni, è solo otto volte all'anno, più o meno quanto capita ai valichi di frontiera, meno di quanto capiti ai caselli di Bologna e di Roma, simile a quel che accade a Civitavecchia oppure a Brindisi, o a Milano, a Trieste, a Napoli. 



È una piccola follia collettiva. È soltanto il volere fregiarsi di una soddisfazione morale. È l'obbiettivo primario di ogni amministrazione politica. Allora facciamo in modo che questa soddisfazione sia veramente collettiva e diamo l'incarico del ponte a Santiago Calatrava, non potendo più disporre di Eiffel, di Maillart o di Morandi. Il maestro valenciano realizza opere di grande efficacia tecnica e di esattezza stutturale, che sono, al tempo stesso, definizioni di un linguaggio, articolazioni di un sapere che non si ferma alle quantità dimensionali. Ha scritto Sergio Polano che "nell'universo fortemente strutturale e di meticoloso dettaglio materico di Calatrava si esprime una ideale preminenza di valori cinetici nel costruire, antitetici rispetto alla tradizionale statica delle masse, prefigurando una architettura tanto tecnologica ma non banalmente tecnica, quanto figurale ma non meramente formale, fondata sulle potenzialità del movimento, della trasformazione, dell'adattabilità, paradigma delle profonde modificazioni in corso nell'arte di costruire". Commenti di parte, è vero.

Ma se proprio ci scappa di dover fare il ponte, allora facciamo realizzare il ponte al poeta Calatrava. È la persona giusta, laureato in architettura e in ingegneria, riassume ed equilibra le figure dei tecnici rinascimentali; ha progettato ponti di piccola e media dimensione che sono, e continuano ad essere, definizioni formali di un metodo molto chiaro, riconoscibile, costante: si vedano le opere realizzate a Barcellona, Valencia, Siviglia, Merida; si vedano i progetti di ponti redatti per Parigi, Bordeaux, Londra, Manchester e Copenhagen. Sfidiamolo, ponendogli il problema più grande che possa mai risolvere. L'ipotesi di un ponte in uno scenario straordinario, già mitico di per sé, con il quale stabilire rapporti di opposizione o di mimesi. L'ipotesi del più lungo ponte a campata unica del mondo. L'ipotesi di un ponte a reazione poetica. E che sia un ponte splendido, ne godremo tutti, anche i riottosi, tanto i problemi, questo si sa, si possono risolvere in altro modo. 

Domenico Cogliandro

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