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Io sono qui

di Domenico Cogliandro

 

Viene difficile trascrivere del corpo disossato di un luogo. Aggiungere parole al sentimento umano, per chi ancora lo è rimasto, allo strazio, all'indicibile orrore. Fuori dai luoghi comuni (per quanto ne siano rimasti ben pochi, di luoghi, riconoscibili, palesi, affettivi) rimane come sospeso tra la carotide e la bocca dello stomaco un boccone di vuoto, una sospensione che sa di nulla. L'inutilità di pensare a qualsiasi cosa, qualunque essa sia. Eppure cose come questa, non così immediatamente trasmesse (la tv ci ha proiettato là mentre la cosa accadeva) dai tempi del Vietnam a quelli della Bosnia, sono accadute. Non tra le coltri del tiepido occidente. Adesso siamo tutti, purtroppo, dentro uno scenario bellico. Adesso può accadere di tutto.

Può accadere di morire, per esempio. Può accadere che il tentativo di esistere venga divelto dall'appassionata idea di morte di altro essere umano (troppo umano?) che decide, preso dal sacro fuoco di parole scritte e recitate, come le molte che ognuno, nel suo personalissimo mondo di simboli e di idee, scrive e recita, di renderci partecipi della sua idea di luogo. Non mi appassiona per niente questa idea, ma adesso ci sono dentro. Dico di più: è come stare dentro un barattolo di vetro spesso e colorato. Quello che vedo fuori (New York, la reiterazione ossessiva delle immagini, un uomo con la barba, un uomo col megafono, le salme, gli ospedali, la polvere di cemento, la città sventrata) è tutto monocromatico, ha apparenze deformi e sta ad una distanza tale da non riuscire a spegnere questa ipervisione delle cose. Quello che colgo con l'udito è come fosse in sordina, ma è anche un succedersi di echi, uno sull'altro, una babele di voci che si accavallano e, in fondo, rimangono lì, nello scenario di immagini viste e riviste, come un rumore di fondo, lo ssssssh di un televisore rotto. Questo.



Il silenzio non cura le ferite, e non ci restituisce i morti. Eppure in questo aggrovigliarsi di sensazioni passa eloquente il messaggio che lo spettacolo della vita deve trovare motivi per continuare. Io non accetto, tendo a non farlo, che altri decidano per me cosa si debba e non si debba decidere, quanto e come si debba vivere, non accetto nemmeno, però, che vi siano altre vite immolate per una apoteosi ideologica. L'equilibrio tra cose è dato dalle cose, dall'esistenza delle cose (accettabili o meno che siano). Io sto tra le cose. Il mio personalissimo equilibrio sta nell'accettare alcune istanze, nel rifiutarne altre, nel distinguere tra compromesso e coinvolgimento, nel disporsi verso una sconfitta e nel curare una strategia di futuro. Io sono un dettaglio. Temo che ve ne siano altri cinquantamilioni di dettagli. Alcuni di essi hanno una visione più ampia delle cose da mettere in equilibrio, altri ne hanno una diversa per individuare altri equilibri. In questa ricerca la parola "guerra", così rimbalzata sulle pagine dei giornali, ha un senso, ma è un senso che non mi piace affatto. Preferisco altre parole, che non aiutano certo a venir fuori dalle grandi e piccole follie dentro le quali saremo costretti ad immergerci. Nessuno escluso.

[16sep2001]

Quello che è accaduto, nel momento in cui accadeva, mi ha cambiato. Non ho la velleità di dire che ci ha cambiato. Io sono costretto a mettere in discussione quello che sono stato fino ad una settimana fa. A dire di me come di un altro, e a parlare di quell'altro come, quasi, di un estraneo. Il 13 settembre, con Renata, ho incontrato Franco a Catania, ci siamo visti in un bar del centro. Lui ha parlato, io ho parlato, ci siamo scambiati alcune opinioni, la città tutt'intorno ricorreva nelle sue solite cose, i taxi passavano, il bar aveva gente che consumava dolcetti e granite, le ombre sulle facciate dei palazzi si rincorrevano come da secoli, noi ci dicevamo cose del nostro presente e degli incontri futuri, una coppia di sposi si faceva fotografare, un vigile faceva spostare auto in doppia fila, una mamma teneva per mano il piccolo figlio, un ragazzo disabile, lo sguardo rivolto al cielo, notava meglio di noi l'alternarsi di nuvole e sole. Tutto immerso in una irreale sordina. Giorno undici Manhattan era esattamente così. Tutto scorreva dentro l'imponderabile sordina delle cose che andavano fatte. Io sono qui.

Domenico Cogliandro

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