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Valorizzare

di Domenico Cogliandro

 

Aveva l'aspetto di un villino figlio di padre architetto sconosciuto, costruito un fine settimana dopo l'altro da qualche squadriglia di immigrati che avesse lavorato a cottimo per un piccolo borsanerista degli anni quaranta disposto a spendere i suoi troppi quattrini in una casa con l'orto distante, molto distante dalla città, in cui riposare un giorno dagli affanni di un duro dopoguerra. Lo ricevette alla porta un uomo quadrato e canuto, con vestaglia trapuntata e pantofole di camoscio foderate di pelo di coniglio. La casa odorava di besciamella. Risuonava di bambini piagnucolanti e di donne arrabbiate.
Manuel Vazquez Montalbàn




[30sep2001]

Stiamo per arrivare in fondo alla questione, che è una specie di cul de sac, una strada senza uscita, ecco, un vicolo cieco. Questione attorno alla quale il dibattito, chiuso da tempo per questioni di non belligeranza, deve pur svolgersi. E qualcuno deve tirarne le fila. Il tema è la valorizzazione dei territori, taluni oasi naturali di indescrivibile bellezza, dentro i quali si va per scoprire, ancora, le relazioni incontaminate tra gli elementi; oppure luoghi spersi attorno a cui, oltre le risorse naturali, in alcuni casi limite nude e crude, c'è veramente poco dell'intervento umano; o, per venire al dunque, spiagge e cale, torrenti e boschi, sentieri e picchi, monasteri e rifugi, grotte e canali, mulini e frantoi, borghi e vallate. Il patrimonio dei luoghi incontaminati. Affermazione con poco senso, se si pensa che le opere introdotte dall'uomo siano comunque deleterie. Ci sono luoghi fatti così, che il tempo ha respinto negli anfratti della memoria, e per cause incomprensibili sono rimasti immutati, come sacre icone, a testimoniare quel dato tempo, quelle circostanze, quelle persone che li hanno vissuti. Li stiamo riscoprendo. Ottimo. Sarà il vezzo della conservazione, sarà la passione per la storia dei luoghi, sarà la possibilità di ricevere denari utilizzando i luoghi a mò di pretesto, fatto sta che sta venendo alla luce un patrimonio antropologico e naturale di una storia trasversale, spesso non ufficiale, che, però, è sempre stato lì, sovente al pubblico ludibrio, dinanzi agli occhi di viandanti e residenti, ormai entrati in simbiosi con un certo stato delle cose. Bene. Queste "evidenze" stanno per essere valorizzate, stanno per rientrare nel virtuoso circuito del patrimonio culturale.




Assisteremo alle crociate, come la plebe stremata dai dazi che, in altri tempi, vide partire per luoghi santi il meglio di certa generazione d'uomini, inviate per impedire ad un popolo colto di diffondere una cultura diversa da quella cristiana. Già ci siamo dentro. Non è nemmeno tanto difficile farci caso. Bisogna valorizzare quei luoghi che sono abbandonati a se stessi, bisogna dare a quei luoghi un significato diverso (leggasi: bisogna stabilire quale significato dare ad una determinata cosa, importa poco che lo abbia, per poter accedere a certi bilanci anziché ad altri). Ora, è bene sostenere che molte volte l'attesa di chi abita un luogo sta nel desiderio della corretta utilizzazione del luogo stesso, anche a spese di una minore o maggiore fruibilità di esso. E questo fa parte della discrezionalità politica di assumersi responsabilità tali da porre un discrimine chiaro tra la rivalutazione di un luogo e la sua perdita d'identità. Ovviamente il risultato atteso risiede proprio nell'interesse da rivolgere ad un sito anziché ad un altro. Qui la questione si fa delicata, proprio perché i parametri di riferimento delle amministrazioni locali sono assolutamente variabili: cambiano da sindaco a sindaco, da giunta a giunta, da città a città; cambiano, in maniera sostanziale e, alcune volte, esponenziale, le qualità espresse attraverso le opere di "valorizzazione", le capacità professionali di leggere i dati, le sensibilità destinate alla programmazione degli eventi, e al coordinamento tra essi. Gli uomini sono permeabili ai luoghi, vi si appassionano, dedicano la vita a sostenerne le evidenti possibilità e poi, destinati ad amministrare gli stessi luoghi, diventano improvvisamente inani, perdono il dono della parola e nei casi più gravi, il raziocinio, per concedersi al più opportuno regista, altro da loro, che sottende in maniera più che accorta gli eventi.



Cosa significherà, poi, questa valorizzazione? Basta finanziare il maquillage (è una questione di moda, no?) di una piazza, proporre una illuminazione old style (visto che vanno tanto di moda i pubs fintoscozzese) che ravvivi una strada, consentire la piantumazione di 400 baobab (la natura fa ambiente mediterraneo) accanto alle scuole pubbliche, magari direttamente nel cemento. Se poi tutto questo sta su cataloghi preconfezionati, anche meglio. Si perde meno tempo a progettare, visto il declino di alcuni uffici tecnici, e il percento di scambio è chiaro. Bisogna far vedere quello che si fa. Più quello che si fa è evidente maggiore è il bacino di votanti alla prossima tornata elettorale. Questa è la regola. Ma le città, parlo di alcune città del sud, che più di altre hanno subito, senza assorbirlo, il colpo, le città sono organismi articolati che, private degli antidoti, non potranno più difendersi. Questa cosa è meno chiara ai valorizzatori. Agli amministratori. Un esempio, un caso. Ho ascoltato, in spiaggia, una gentile signora sproloquiare sulle evidenti qualità di certi siti bizantini in Calabria, la chiesa di là, il santuario dall'altra parte, luoghi straordinari, di una bellezza che lascia ancora incantati, con una natura attorno che toglie il respiro, in un certo senso originaria, come se l'uomo non ci sia mai stato, eppure la chiesa è là, eccetera eccetera. Sono luoghi che già conosco poco ma che, così descritti, mi hanno reso fiero di essere qui, in frontiera, a sostenere ipotesi di pretesa qualità. La signora così chiosava: però non sono valorizzati, attorno non c'era nemmeno un luogo dove riposarsi, una fontana, ad esempio, visto il gran caldo, un ristoro, delle panchine, un custode, una guida che potesse spiegarne la storia, aggiungo io, magari una pensione con annessa trattoria di prelibatezze locali, una bottega artigiana e magari un beauty-shop. Ci sarà un limite, mi dico, tra il valore che le cose hanno e quello che si intende aggiungere? E questo limite, viste le variabili succitate, chi lo stabilisce? Le Soprintendenze?


Alcuni giorni fa sono entrato in uno di questi uffici postali ristilizzati, certo meglio dei precedenti bunker da protezionisti del panda statale. Ho fatto un versamento, ho acquistato dei francobolli, ho chiesto dei moduli di conto corrente. Ecco, operazioni normali, ma il postale che avevo di fronte, esibendo un ridondante self control, mi ha risposto che adesso loro (le entità astrali) devono essere disponibili per contratto. E prima? Cosa c'era scritto, prima, sul contratto? La civiltà, questa pratica comune ad alcune democrazie, prima, dico, era un optional? Fatto sta che il dato è questo. Se la valorizzazione, quindi l'assunzione di determinate responsabilità nei confronti di cose e persone, deve passare anche attraverso le Soprintendenze, bisogna che qualcuno metta mano a quel contratto. Bisogna che qualcuno rimandi a scuola certa generazione di supervisori assolutamente fuori dal dibattito sulla qualità in architettura, sulla definizione del progetto, e quant'altro.

È pratica comune far attraversare dal giudizio degli uffici preposti i progetti dei tecnici abilitati. Ognuno per proprio conto esprime pareri, indica varianti, rimanda alle leggi statali o regionali. Si faccia allora una ricerca tra i progetti passati con pieni voti e quelli rimandati al mittente, si faccia quindi caso alle operazioni di valorizzazione, di restauro, di ristrutturazione, degli uffici di sovrintendenza ai beni architettonici. No, meglio. Si chieda al funzionario di turno qual'è l'ultimo libro che ha letto. Lì si annida lo sporco più sporco. E' anche chiaro che, non me ne vogliate, per dire determinate cose, bisogna enfatizzarle. Ma non lontana dalla via maestra è questa proiezione. Il bello non sta tutto da una parte, è da tenerlo in considerazione. Il bello, talvolta, è lo sporco più sporco, il resto è l'evidenza, la storia di tutti i giorni, la concrezione di corpi che non riescono più a staccarsi da terra. La periferia sud di Reggio Calabria, panorama che si può osservare con chiarezza dalla sua circonvallazione, raggiungendo, in un senso o nell'altro, l'aereoporto, è un affastellamento di case, più o meno abusive e/o condonate, poco importa, che hanno i piani superiori non finiti. A dare un'immagine poetica di questo stato di cose ci ha già pensato Gianni Amelio nel film Il ladro di bambini, ma è certo che il valore di questo patrimonio urbano è ancora nascosto negli anfratti della democrazia amministrativa. Luca Quarin in questi ferri irti e arrugginiti ha letto la speranza, la sagace speranza, di quelle famiglie, di quella gente, di vedere un giorno finite le loro case, la speranza in un futuro diverso, o l'eredità ad altri di quella stessa speranza. Marcello Sèstito, dalla sua privilegiata posizione di raffinato visionario, invece, è riuscito, a mio parere, mirabilmente, a leggere tra le righe di quella scrittura-struttura e ha dato, ad ogni tipologia di ferri affioranti, diversa per ogni gruppo semantico, si faccia caso, un nome, un significato, una diversa speranza, un destino. Quale muro vogliamo erigere, dunque, tra il bello e il brutto? Cosa si deve valorizzare?

Domenico Cogliandro

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