home

Files

Mohammed Atta e l'architettura della crisi

di
Giacinto Cerviere

 

All'Accademia di Brera, a Milano, nei primissimi anni del ‘900, Camillo Boito insegnava ai suoi studenti a fare ampio uso di modularità geometriche e di solidi semplici, generatori di un linguaggio “ricco di immaginazione e di precisione, poetico e scientifico”, ma saldamente ancorato alla storia.

Boito riteneva che l'architettura lombarda del ‘300 possedesse la flessibilità e l'onestà strutturale per poter essere innalzata a rappresentare il primo mattone di fondazione di un'architettura nazionale.

Gli intenti di Boito erano autenticamente politici: l'unificazione della Patria andava consolidata anche con il contributo dell'architettura che doveva sfoderare un indirizzo stilistico appropriato al particolare tempo storico. Boito arriva a prefigurare per l'architettura lombarda il ruolo di architettura della nuova Italia, come in certo qual modo è accaduto se consideriamo la lunga egemonia culturale nazionale di quella sorta di tradizione locale fortemente stereometrica, aperta al moderno, che va da Portaluppi, Muzio e De Finetti a Giuseppe Terragni, fino ad esaurirsi con l'opera di Gregotti e di Aldo Rossi, una egemonia che si riagganciava essenzialmente proprio alla tradizione architettonica lombarda.

Constatiamo che in Italia a distanza di un secolo si tende ancora a coltivare sotto nuove forme la stessa, oggi oramai insostenibile, idea: l'apertura della cultura architettonica italiana a manifestazioni estetiche e spaziali contemporanee comporta per molti un suo certo stritolamento causato dal potere dell'internazionalismo globalista. Ma noi oggi non possiamo solo notare che nel mondo in cui viviamo, post-coloniale, esiste il solo sforzo angloamericano di trasformare i linguaggi locali, e la loro essenza storicistica, in globali. Il sociologo della cultura lain Chambers direbbe che l'Occidente mentre cerca di sviluppare la sua cultura totalizzante perde paradossalmente il controllo dei propri linguaggi tanto da produrre, è il caso di aggiungere, istanze endogene oppositive ed a volte perfino destabilizzanti. 

Ognuno di noi oggi sente fortemente che dopo i fatti di New York dell'11 settembre 2001 anche nel mondo dell'architettura qualcosa è cambiato ed in modo drammatico, che la fine del Manhattanismo è stata posta in atto dalla figura terrificante di un giovane architetto egiziano trentatreenne, Mohammed Atta, figlio proprio di quella classe media araba filo occidentale e post-coloniale (il padre avvocato noto al Cairo, le sorelle ambedue docenti universitarie), che col suo gravissimo gesto ha annullato in un attimo una storia urbana, la presunta vigorosa volontà di potenza dello Stile Internazionale.

Dal giornale tedesco “Suddeutsche Zeitung” del 29/30 settembre, si scopre che Mohammed Atta, sospettato dall'FBI di essere il capobanda del gruppo terroristico che si è impossessato del “Volo 11” dell'American Airlines schiantatosi per primo sulla torre nord del World Trade Center, prima di introdursi negli Stati Uniti ha frequentato dal 1992 da studente modello la “Technische Universitat” di Amburgo laureandosi in architettura con una tesi in progettazione urbana dal titolo “Khareg Bab-en-Nasr: un quartiere in pericolo nella città vecchia ad Aleppo (Siria)”. Contemporaneamente, Atta frequenta lo studio di architettura “Plankontor” sempre ad Amburgo. Un'altra fonte quale il New York Times ha riportato il 19 settembre 2001 che Atta, prima di frequentare il Politecnico di Amburgo, si sarebbe diplomato in Architettura anche all'Università del Cairo in Egitto ed avrebbe fatto pratica in progettazione edile.

Nel 1993 esplodono per la prima volta i sotterranei del World Trade Center con sei quintali di esplosivo. Dopo aver iniziato la sua tesi nel 1995, Atta “scompare” per ben quattro anni, come testimonierà il suo relatore Machule, per poi rifarsi vivo nel 1999. In realtà Mohammed parte per il Cairo con una borsa di studio offertagli dalla Società Carl-Duisberg, ritornando in Germania a fine anno con un rapporto giudicato “brillante” che prende in esame la città vecchia del Cairo. Si è a conoscenza del fatto che in quel periodo Atta va come pellegrino alla Mecca, come conferma una cartolina da lui inviata agli amici dello studio Plankontor. Tornato a fine '95 ad Amburgo, Atta riaffina le sue posizioni teoriche e mette in mostra all'università una nuova immagine di se stesso in cui una curata barba islamica è l'elemento più significativo. Si sa che Atta inizia a prelevare in questo periodo grandi quantità di denaro da banche tedesche. 

Il professor Dittmar Machule, il quale è stato il relatore della tesi di Atta, conosce il giovane egiziano lo ricorda ancora vestito all'occidentale con jeans e capelli corti. Machule non riusciva a spiegarsi perché quel “caro ragazzo” tenesse così tanto a dedicare la citazione introduttiva della sua tesi ad Allah, a scrivere che la sua vita e la sua morte appartenevano al suo Dio padrone dell'universo, poiché il suo lavoro accademico non possedeva alcunchè di religioso. 

Atta si dimostra il terrificante esempio di come l'Occidente non detiene affatto un potere espansivo ed irrefrenabile che avrebbe prodotto, secondo taluni, un reale sistema di controllo globale della cultura e del mercato. La parola "globalizzazione" viene usata perlopiù per esprimere la tendenza di un sistema economico a distribuirsi su tutta la sfera terrestre. La globalizzazione non è un fenomeno compiuto o che sta per compiersi. Ne sono la riprova i recenti processi di arretramento, o quanto meno di enorme affaticamento, dell'economia mondiale che hanno rimesso in discussione simili prefigurazioni ancor prima dell'11 settembre. Il termine quindi si rivolge ad una tendenza in atto. L'attitudine globalista degli stili architettonici si è verificata spesso nella storia: dall'architettura romana a quella barocca fino al movimento moderno tale attitudine, addirittura dominante, ha evitato il più delle volte di cancellare del tutto i localismi stilistici ed ha piuttosto interagito con essi.

Ancora più del passato, il tempo presente sembra essere scandito dall'annientamento di qualsiasi "regola" dell'abitare candidata a proporsi come modello persistente. Il nuovo secolo ci spinge ad abbracciare una disciplina dotata di strumentazioni obsolete e sepolte da almeno tre cause fondamentali: la rammemorazione per i tanti che l'hanno dimenticato che l'architettura è anche prodotto artistico, la constatazione che le impressionanti trasformazioni tecnologiche ne ridefiniscono i contorni, l'accettazione che gli sterminati flussi migratori immettono problematiche nuove nella cultura dell'abitare ma soprattutto del transitare.

Allora, pensare dentro questo contesto ancora ad un'architettura che guarda alla "profondità della Storia", meditare con quali culture eseguire mescolanze che riducano quanto più i rischi della sparizione della propria identità, significa rifiutare di accettare che le ideologie e le idealità che ci hanno attraversato sono ora alterate e/o sbriciolate da altre culture e da altre identità continuamente fluttuanti e impossibili da arrestare. Significa solo volgere attenzione alle sue meraviglie metafisiche e lineari, senza confrontarsi con i "territori dell'atopia a della frammentazione" visto che sono i territori che abbiamo maggiormente ereditato. 

Abbiamo un urgente bisogno di un'architettura che dia delle risposte possibili alle contraddizioni, e alle imperfezioni, degli spazi reali che la modemità non è riuscita a disegnare o che ha ignorato, che porti le stimmate del mondo complesso e vitale delle svariate culture razziali che ospitiamo e che determinano la nascita di scenari urbani imprevedibili e perciò potenzialmente interessanti. In definitiva, si rende necessaria “un'architettura della crisi", e che da questa tragga le sue poetiche e i valori appartenenti alla forma temporale che la accoglie. 

Giacinto Cerviere
cerviere@tiscalinet.it
[18nov2001]

 

> FILES

 

 

laboratorio
informa
scaffale
servizi
in rete


 







copyright © DADA Architetti Associati