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Cassandra

Domenico Cogliandro

 

Cambio registro, cambio tempi, luoghi, ritmi, torno ai miei suoni familiari, perec, sollers, ma anche jarret e bjornstad, perché mi mancano le immagini degli anni silenziosi adesso che tutto si offusca, si fa caotico e non riesco a ritrovare più, affaticato ulisse, i luoghi che abito, né i rumori, i colori, le sensazioni che mi sono fin qua appartenute. Mi tiro fuori dalla baraonda. A chi può importare questo, dopotutto? A nessuno, tranne che a me, alla mia scrittura, ecco, sì, che si fa grave, imbrigliata tra le spire della realtà, delle cose che cambiano, dei giochi serrati alle spalle di tutto e di tutti, in cui tutto e tutti sono coinvolti, merce di scambio, numeri sommari, attori e gregari, ombre shakespeariane, trame, letture, intrighi di palazzo e non.

[17jan2002]

 

Stop. Faccio un passo indietro, ecco, mi allontano come un ammavato d’arrighiano braccia conserte davanti al mare di cannetello ad aspettare la fera feroce, o la morte, o il destino, o il signor cambrìa, o qualunque altra cosa che sta dietro, non dentro, la realtà reale, un folle, lo scemo, quello che non capisce e sta lontano dalla mente di dio, anche se gli appartiene perché innocente come un bambino, indifeso, col cuore sconfitto prima di menare le mani, che sa che la battaglia parte male, e con le membra stanche e una musica dentro che dice di rimanere, nonostante tutto, o andare via. A chi può importare tutto questo? Chi può decidere il brandello da prendere, prima di tirare a sorte le vesti vermiglie? Il sangue non è ancora rappreso, il morto deve risuscitare, qualcuno lo ha scritto, la terra non ha ancora tremato, ma tremerà.

Eppure adesso tutti, pare, tutti i tutti che rappresentano i tanti se stessi, alonsi chisciano e fedeli scudieri, che verranno portati in trionfo, osannati, derisi, abbindolati, ubriacati di parole, le mille insane parole che non raccontano nulla di nulla eppure convincono le masse, promesse, discorsi, dichiarazioni, intenti che occupano per intera la superficie delle cose necessarie, che stanno a galla, come gli escrementi, parole, solo parole, parole che puzzano, che non hanno sapore, che non comunicano il seme della vita attraverso il sangue, ma rintronano, malamente usate, per scopi non chiari, nel cervello, e si posano sull’epidermide, si mischiano agli odori del corpo, si confondono tra le cose note e s’insinuano nelle coscienze, ma non trovano mai la via che porta al cuore, ecco, quei tutti stanno qua, davanti agli occhi di tutti. Ma è come se qui, guardatevi bene attorno, non ci sia nessuno.

Per cui mi assento un attimo soltanto, si dice così. Cambio stanza. Preferisco stare distante. Preferisco non affogare nel grimaldello del mezzo sorriso e della mezza verità scrivendo del vuoto assoluto che ci circonda. Distante dal corpo fragile e potente della mia terra, che è storia memoria presentimento e luogo ideale. Chiamo un time out. Devo concedermi una riflessione. Faccio un favore all’avversario, al signor chiunque che potrà tirare un sospiro di sollievo e sentirsi in vantaggio. Rispetto a che, poi? Forse alla macchinazione che lo rende vivo, che mette in moto gli istinti, che toglie dal disagio, che prende il sopravvento rispetto all’esistenza stessa, sua e della alternativa virtuale che si va creando. Questo il nodo gordiano. Che andrebbe sciolto, magnifico alessandro, con la saggia lentezza dell’esperienza e la creatività del tempo della ragione. Nulla sarà mai amministrato in maniera corretta finché alla base di tutto si porranno gli interessi verso la propria posizione sul campo, questione di poltrone, inconsulti teoremi, ma io posso solo spendere parole, cassandra delle mie convinzioni, ne ho già desunte troppe, clonando il pasolini di j’accuse, nostalgico angioletto, povero bimbo che crede alla befana, questo, povero pazzo che sogna e non sa che è solo per una mera questione di denaro che si sta scalando la vetta, zitti zitti, né la gente, né la città, nemmeno le stesse parole, nulla importa, quelli sono ostacoli superabili, da domani andrà in scena il potere, questo sì, quello vero, il ritorno del grande feuilleton, un beautiful tutto per noi, parole su parole, parole parole tra noi, ognuno a contatto col proprio ridge e la propria brooke, il ritorno del buono e del cattivo, il disegno del mondo, la mappa dell’impero uno a uno, il prima e il dopo, ecco cosa ci aspetta tra qui e il ponte, insulto all'intelligenza e alla ragionevolezza, la messa in scena del bianco, et voilà, del bianco rosso, del bianco nero, del bianco vergine e del bianco riciclato, del bianco puro e del bianco sporco, del bianco lucido e del bianco opaco, del bianco che sta su tutto e del bianco che fa trend, la nostra angoscia quotidiana sarà spazzata via dalla promessa più ardita, dalla migliore proposta, dal progetto interessante, dalla questione irrisolta. Una messa in circolo degli schemi più sicuri, il popolo, la gente, a loro la parola, a noi, anche su questo tema (volete un referendum?), un terno al lotto, le lettere, le telefonate, gli incontri, i seminari (perché sì e perché no), i volantini, i manifesti, i bigliettini, le città investite da faccioni e nomi, vuoti entrambi, gli incontri benevolenti, i sorrisi a trecentosessanta gradi, gli abbracci fraterni e i lauti pranzi, i diavoli benedicenti e le puttane sante, tutto nel calderone, il vip di turno, il professionista navigato e il prossimo mecenate benefattore signore conte padrone nume tutelare e megapresidente fantozziano osannato dai belli e dai brutti, dagli amici, dagli amici degli amici e dall’opposizione, allegramente, diranno che è finita l’era del voto di scambio, bei tempi, adesso si porta il solito brodo, il carrozzone di teatranti e di maghi nostrani, ecco cosa ci aspetta attorno all'ennesimo studio progetto cantiere realizzazione, il cliché, la routine, il chiacchiericcio, il bla bla, tutto solo per la scheda, il voto, la cifra, l’acronimo, la croce, il naso tappato nella cabina la faccia schifata la scarsa convinzione e l’urna. Poi nulla più.

Io se fossi dio, ha cantato Gaber, poeta maldestro e impertinente, "la terra la vedrei piuttosto da lontano e forse non ce la farei ad accalorarmi in questo scontro quotidiano", ed io dico d’accordo, uguale, mi ci ritrovo, ho bisogno del silenzio imperativo del mio tempo di cose fragili e distanti, della banalità della differenza e dell’osservazione impotente, del gesto della mano che dice ciao salve buongiorno bentrovato au revoir, di questo, non della salsa melensa che ci si vuole propinare. Uno di meno. Me. Per far torto alla ragione, per quello che può accadere, per il gusto di non sentirsi parte di un gioco deficiente, le alleanze, le associazioni, gli incontri col gotha dell’azione molto prima d’avere un’idea, molto prima di sapere di cosa parlare, nel caso fosse necessario farlo, sapendolo fare, anche se ci credo poco, è cosa di pochi eletti, che non si incontreranno mai, troppo distanti da noi e dalle cose, troppo distanti, dagli interessi malcelati e dalle sottili insidie del tempo. Meno di pochi che non sapranno mai, per scelta, beati loro, delle occasioni perdute, delle scelte assurde, dei progetti insani eccetera. Né delle rose, e del tempo. Ricordate, bambini? Bambini scellerati, abbandonati, innocenti, sedotti, irati, sconvolti e sconfitti bambini. “Addio -disse la volpe- Ecco il mio segreto. È molto semplice: non si vede bene che col cuore. L’essenziale è invisibile agli occhi. (...) È il tempo che tu hai perduto per la tua rosa che ha fatto la tua rosa così importante”. “È il tempo che ho perduto per la mia rosa...-, sussurrò il piccolo principe per ricordarselo”.

Ecco. Ecco dove stare attenti, osservatori futuri, e a che cosa. Al tempo, non alla rosa. Al tempo. All’assiduità rivolta alle cose, alla continuità di intenti, alla correttezza, non alle cose. Non alle cose. Non alle cose. Troppo facile, troppo, sennò. In questo non ripongo alcun messaggio, tiro fuori il mio taccuino, vi disegno sopra dei luoghi, ghirriani, come ancora sono, adesso, faccio questo mestiere, dopotutto, e metto delle date, approssimo dei calcoli di moneta sonante, sorrido, penso al tempo, e alle rose che stanno per essere seminate, strappate, soppiantate, derise, perché rose, abbandonate, come molte altre cose. E penso alla innocente distrazione nei riguardi di queste altre cose, di altri luoghi, di altre normalità, penso alla gente che verrà, che saranno figli, che saranno amici e nomadi attenti. E rifletto ancora sul quel tempo, che non è mio, né mai lo sarà, né di altri, nonostante non li sfiori nemmeno il sospetto di ciò, e sul viaggio che al piccolo principe è concesso fare dall’autore poeta dio distante, e su quello che intorno a me rimane del tempo che mi ha sin qui cullato, e che il mio autore disattento sta portando via con sé, verso una certa indefinita eternità.

Domenico Cogliandro
cenide@citiesonline.it

 

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