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Universitas Studiorum
ovvero
Come se la spassano i chierici
(Pochade in un atto con epilogo morale)


di Ugo Rosa

 

Il sonno della ragione genera mostri. Il suo pisolino, professori.
Cornelius Lathbury

Mettete un ladro in un gruppo di galantuomini e finiranno per rubargli l'orologio.
Flann O'Brian




Tempo fa alcuni studenti d'architettura mi invitarono a partecipare ad una "giornata di studio" nella loro università. Non ne ho mai veramente compreso il motivo… può darsi che volessero fare ai professori uno scherzo che non fosse il solito ranocchio nel cassetto.

Se permettete, vorrei fornirvi un resoconto di quella esperienza. Chissà, magari potrebbe risultare utile a qualcuno. Immaginate allora quel che segue.

Un'aula stracolma di docenti e di studenti, questi ultimi attirati lì con l'inganno o dalle minacce reiterate dei loro professori o, infine, dalla speranza di farsi quattro risate (speranza fondata, come si vedrà).

In ordine sparso una ventina di dottorandi di ricerca rendono l'atmosfera adrenalinica; la loro presenza non è stata annunciata prima per evitare l'incetta di giubbotti antiproiettile. Uno dei relatori principali, però, ha ricevuto una soffiata e lo sapeva, così manda a dire (il furbastro) che lui non ci sarà.

 [23jan2002]

Siamo all'Università, perciò, à la guerre comme à la guerre: ora deve parlare il Preside.
C'è sempre un Preside da far parlare.

E il Preside parla: "L'architettura è come una bella donna...".
Sotto auspici migliori, si capisce, non si poteva cominciare.
Piangere non si può, ridere nemmeno. Si assume l'aria assorta dei beccamorti e già si comincia a prendere appunti. Una bella inquadratura dall'alto, con zummata a seguire, avrebbe mostrato un centinaio di penne e matite che freneticamente incidono sul blok-notes "L'architettura è come una bella donna…". La prolusione per fortuna dura poco, il Preside va via richiamato dall'eco di improrogabili impegni accademici.

Liberi per tutti? No: è il momento della proiezione di diapositive.

Il Professore che tiene la prima lezione è uno che sa il fatto suo; intima subito il silenzio "Oppure, dice, me ne vado". Dal fondo una voce cavernosa ribatte "E chi se ne frega", ma si fa finta di niente.

Finalmente cala il silenzio e un brivido attraversa l'aula. C'è da macinare Cultura Architettonica ed il ronzio dei proiettori ci ricorda che qui si fa sul serio. Peccato che dopo un poco smettano di funzionare. Saranno azionati a mano per il resto della serata, come lanterne magiche.
Dopo due ore i superstiti scorgono il termine della prima relazione con la stessa malcelata soddisfazione con cui, un tempo, le vedette avvistavano terra.

Del resto non poteva esserci lezione d'architettura migliore di questa. Siamo, infatti, venuti a conoscenza, con ricchezza di dettagli e opulenza di argomentazioni, di ciò che già sapevamo da sempre; ma è proprio da questo che si evince il mestiere impeccabile del relatore (mestiere di cui il sottoscritto è, purtroppo, drammaticamente privo). È sempre la gag più risaputa, si sa, a risultare la più efficace per gli architetti, i quali dimenticano volentieri di conoscerla a memoria per abbandonarsi agli automatismi, spassarsela un mondo e provare la soddisfazione aggiuntiva, tutta intellettuale, di riuscire a prevenire la battuta.

Adesso è la volta del "moderatore" che è stato preside anche lui e gestisce il microfono come se distribuisse le carte in una briscola in famiglia.

Tocca al sottoscritto.
Chi la sa lunga già sgomita con il vicino: ecco il fesso, ora si ride.

Sono circa a metà della relazione quando tra il pubblico scorgo come dei riccioli di spuma. Elementi capricciosi e irrequieti che, ondeggiando, preludono alla tempesta (scoprirò in seguito che si tratta dei dottorandi in incognito). Dalle prime file i professori già mi fissano con l'occhio vitreo e inespressivo dello squalo.

Da questi segnali capisco che ci siamo e m'avvinghio alla sedia per reggere l'urto.

Sulla mia destra un'altro gruppetto di professori e allievi del dottorato non sembra riuscire ad arginare l'entusiasmo, così ogni tanto tracimano complimenti: "pazzo, schizofrenico, maniaco sessuale". Un grillo parlante (attempata "giovane" promessa dell'architettura italiana, compagnuccio perenne della eterna parrocchietta che, se non brilla per talento, splende di sicuro per fedeltà alla linea ed intrinseca professoralità) ha le antennine sintonizzate a dovere. Capta subito le giuste frequenze, accorre immediatamente in aiuto del più forte e, siccome studia da ordinario, già comincia a mettere in pratica le sue acquisizioni teoriche a partire dalla signorilità nel comportamento: "…ma quand'è che la finisci?".

Il pubblico si sbellica dalle risate: è iniziato il tiro al piccione. E il piccione sono me. Ad ogni modo proseguo e, in qualche modo, arrivo alla fine.

Già il tavolo scricchiola, il relatore precedente si spinge a distanza di sicurezza mentre quello seguente (che, guarda caso, di lì a poco diventerà il nuovo Preside della facoltà…) comincia, con leggerezza di tocco e savoir faire a ricamare educate amenità sullo scimunito che pensava di poter parlare senza essere abilitato: "Stimato architetto De Rosso… questo tono, questa voglia di sorprendere è disdicevole… dobbiamo smetterla col giornalismo, caro architetto De Rosu- e nel frattempo fa il numero di Emilio Fede che s'impappina coi nomi- essere riflessivi e posati… l'architettura è, infatti, una disciplina seria, ottimo architetto Di Rose, e dovrebbe essere praticata in modo serio, egregio architetto Rosi…". Se questo apostolo del gessato grigio avesse parlato un'altra mezz'oretta sarebbe riuscito, probabilmente, ad individuare la persona alla quale si rivolgeva ed avrebbe di sicuro ottenuto un'ovazione, invece deve accontentarsi di un applauso di circostanza perché la platea è impegnata ad indagare sul destinatario della rampogna ("chi cazzo sono tutti ‘sti de rosi, di rosa e de rosu?" boh!).

Comunque incasso volentieri, se ci manteniamo così va benone.
In fondo m'aspettavo di peggio.
Illusione fatale, il peggio deve ancora venire.

Due famosi Professori del dottorato sono iscritti a parlare. Comincia il primo, che è una signora (moglie di un architetto addirittura celebre), e viaggiamo ancora sul velluto. Mi accusa, con un tipico escamotage femminile, di perbenismo e di non essere stato "sufficientemente provocatorio". Lo fa, tuttavia, con civiltà e ironia, perciò mi sento sollevato, magari mi salvo davvero.

Ma è in arrivo il pezzo forte della serata. S'avvicina il secondo Professore.

Lo vedo e già sudo freddo, ha un toscano tra le labbra e una meravigliosa giacchetta blu cobalto. Intuisco che per me è finita. Herr Professor comincia subito a suonare il tamburo e già si vede che è un virtuoso, Max Roach potrebbe giusto reggergli i piatti. Ad ogni rullata segue un break in controtempo e una terzina "Ciarpame, bassa letteratura, ffiuiettòn". Si riferisce, naturalmente, a quel che ho detto io. Gli sussurro, piano, che la parola feuilleton, veramente, non si pronuncerebbe così. Un semplice gesto di aiuto, un'azione disinteressata, un atto di solidarietà umana con il quale, lo confesso, tento di accattivarmelo. Ma l'effetto è inverso: mi fulmina con uno sguardo da tigrotto della Malesia e poi, sussiegoso e imbronciato fa "Ffiuiettòn, ffiuiettòn e ffiuiettòn! Ecco, lo dico altre cento volte!".

Complimenti, Professore, si accomodi e faccia attenzione a non bruciarsi la giacchetta col toscanello.
Si è arrabbiato.
E ora reclama la mia testa.

"Stia al suo posto!" mi dice e, rivolto al ex preside e al futuro preside " Qualcuno gli spieghi che deve stare al suo posto!- (fosse stato un ragioniere con il cavalierato avrebbe detto, più semplicemente, "leinonsacchissonoio!" ma essendo un ordinario punta diritto ai titoli accademici...) -Chi è? Che ci sta a fare qui? In un'Università degli Studi! Come si permette?!" Il moderatore (l'ex preside) ovviamente, lo modera con lievi pacchettine emollienti sulla coscetta nervosa ma lui ha l'asso nella manica e se lo gioca subito: "...eppoi è un ignorantone perché ha detto ossìmoro mentre tutti sanno che si dice ossimòro".

Effettivamente sono un testone.
Non ho valutato a dovere il fatto che l'amico fuma il toscano, e siccome riesce a ficcarselo nella boccuccia per il verso giusto senza consultare l'enciclopedia, è automatico che sia persuaso di appartenere all'accademia della Crusca.

Impegnatissimo a comperare giacchette blu da mezza sera, però, l'ometto non ha mai trovato il tempo di consultare neppure un semplice vocabolario per prendere atto che, appena fuori da Trastevere, un ossìmoro vale un ossimòro e, avendo le orecchie foderate di prosciutto (per via dei tamburi…) non può neppure percepire che la prima dizione è anche decisamente più musicale della seconda, ed è anche quella largamente più in uso. È così, infatti, che dicevano i Greci: "Oksýmoron" (con l'accento sulla y) da Oksýs che vuol dire "Acuto" e moròs che significa, per l'appunto, sciocco.

Però è, direi, giustissimo che solo sulle sciocchezze il Molto Ordinario Professore riesca a mettere l'accento.

Ad ogni modo mi rassegno e verifico ciò che ho sempre pensato: che la lingua italiana è l'unica in cui puoi sbagliare tranquillamente gli accenti, tanto non mancherà mai il cretino che te li corregge.

Sorrido, ma neanche questo va giù al Professore, che m'impallina senza tregua: "È inutile che ridacchi! Smettila!". Tutti, insomma, vogliono che la smetta. Io, questo qui, non l'ho mai visto né me l'hanno mai presentato, ma lui è passato al tu: di fronte a un tale onore obbedisco e smetto di sorridere. L'uomo in giacchetta blu, peraltro, ha tutta la mia sincera comprensione: se un Professore d'Architettura non dà lezioni a che serve? Finalmente conclude con una pedalata alla grancassa e uno slalom sui piatti: "Devi imparare ad attenerti allo Specifico Disciplinare". È il colpo di grazia.

Con uno che al giorno d'oggi ha ancora il sangue freddo di tirar fuori lo "Specifico" Disciplinare non c'è scampo. Davanti al cerusico ogni arma s'affloscia.

Scatta l'applauso del battaglione. L'allegria dei dottorandi non conosce limiti, oramai sono riconoscibilissimi perché si dondolano sulle sedie come Ray Charles dietro al pianoforte. Vorrei essere a casa a vedere il film in tv (stasera su raiuno davano, guarda caso, "Dead man Walking"), ma segue, implacabile, il famoso dibattito. Ci sono infatti un paio di aspiranti al dottorato che non vogliono perdere l'occasione di sparare anche loro un colpo al bersaglio grosso. Non riesco a seguire perfettamente quel sottile argomentare ma è chiaro che ciò che ho detto ha ferito la loro sensibilità di giovani studiosi e che trovano assai riprovevole la mia presenza in quei Santi Luoghi di Meditazione e di Studio. 

Finalmente la festa ha fine: ringrazio per la lezione ed assicuro la platea che un'altra volta non mancherò di adeguarmi all'occasione, metterò il cappellino a punta con i buchi per le orecchie e ci scriverò sopra qualsiasi cosa desiderino i Professori, quindi me ne vado con le pive nel sacco.

All'uscita l'organizzatore, giovane e simpatico, ma ingenuo almeno quanto me, mi sorride mestamente e dice "mi pare che sia andata benino, ti inviterò ancora". Gli sorrido a mia volta ma gli faccio capire che, per la verità, avrei già dato.
Se ne vanno tutti a cena insieme.

Conoscendo i Professori d'architettura ed avendo pascolato, anni addietro, assieme ai dottorandi so chi sarà la vittima sacrificale del convivio: sarò immolato sul desco e sbranato dalle Menadi. Si comincerà a dire che sono un perfetto idiota, poi qualcuno aggiungerà che mi puzzano i piedi e, al digestivo, si arriverà alla conclusione che stupro i minori. 



***


I personaggi di questo breve racconto (che pure è un resoconto, credetemi, veritiero fino alle virgole) sono, come quelli delle favole di Esopo, quasi esclusivamente bestie.
Ma non è detto che la storiella non possa servire agli umani. Essa contiene infatti una morale.

Vedete, il mio errore fu imperdonabile. Immaginai che, essendo stato, senza mia colpa, invitato a parlare in un'aula universitaria, forse avrei potuto provarmi a dire quello che mi pareva e soprattutto a dirlo, senza offendere nessuno, come mi pareva.

Credevo, da ingenuo quale sono, che, se anche avessi detto cretinate, sarebbe stato sempre più utile che dire banalità.

Ma non avevo compreso questo: mentre le banalità non interrompono il riposo mentale di cui evidentemente il Professore di Architettura ha estremo bisogno, perfino le cretinate implicano, per essere districate, un minimo di lavorìo mentale.

Quindi, nell'ambiente, è incomparabilmente più raccomandabile chi dice banalità o, meglio ancora, non dice niente. 

Eppure i Professori di architettura italiani sono organismi tutt'altro che banali.

Direi piuttosto che costituiscono un paradosso biologico. 

Respirano, si muovono, mangiano, bevono, suonano spesso la tromba e il tamburo, soprattutto parlano e scrivono. Tuttavia sono in letargo. Se qualcuno si muove si disturbano, sbuffano, scalpitano e infine mordono. Nessuno, mai, deve scalfire quel dolce riposo.

Così mi sembra anche di avere capito a che servono queste impagabili Giornate Universitarie di Studio: a studiare il modo per studiare il meno possibile.

Ugo Rosa
u.rosa@awn.it

 

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