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Il Palais de Tokyo

di Roberto Zancan

 

. "…l'arte nel suo insieme non è altro che un'arte di sopravvivere, questo fatto non dobbiamo perderlo mai di vista, l'arte, insomma, è il tentativo reiterato, che commuove persino l'intelligenza, di sbrogliarsela in questo mondo e nelle sue avversità, cosa che, come sappiamo, è possibile solo facendo ripetutamente uso della menzogna e della falsità, dell'ipocrisia e dell'autoinganno". Anche senza giungere all'estremo di questa sentenza di Thomas Bernhardt, è forse il caso di chiedersi, nel momento in cui si presenta l'apertura del nuovo Palais de Tokyo a Parigi, se si debba semplicemente consegnare al pubblico la lieta novella, o non sia più giusto rendere conto delle ragioni per le quali si propone di accogliere con entusiasmo questa novità.

Tacito infatti è divenuto oramai l'accordo, tra chi scrive di una nuova iniziativa culturale e il lettore, sul restare nell'ambito dell'informazione. Se poi l'iniziativa rientra nel caso particolare dei successi francesi nel campo della cultura, in Italia riscontriamo puntualmente un atteggiamento di approvazione che fa da contrappunto alle critiche e alle polemiche che si verificano invece nel paese d'origine. Basta l'attualità di questi tempi per averne la prova. Le produzioni cinematografiche e discografiche francesi hanno raggiunto il sessanta percento nel mercato interno. Caso unico a livello mondiale tengono testa alla inesorabile penetrazione americana. Ecco subito levarsi la proposta di seguire il modello francese per rispondere all'omologazione culturale hollywoodiana. A noi è però sufficiente che Chirac passi la "più bella serata della sua vita" con Amelie Poulenc e che Alizée, Zazie e Bruel suonino sconosciuti fuori del paese natio, per farci supporre che si tratti della solita schizofrenica antitesi tra successo commerciale e qualità. A questo punto non serve perdere altro tempo nel decidere come proseguire: non resta che costruire un racconto, rintracciando miti, riferimenti, visioni, in una Parigi che è stanca, ma prova ancora una volta la "grande illusione" di un nuovo: Site de création contemporaine, al numero 2 di rue de la manutention, nel sedicesimo arrondissment di Parigi.



[24feb2002]

Beaubourg.
UN FANTASMA SI AGGIRA PER PARIGI. L'idea di un centro in cui le attività di creazione e di esposizione delle opere d'arte convivano e si contaminino reciprocamente viene da lontano. Una suggestione che si agita nel profondo dell'immaginario metropolitano parigino. Essa giace in quel luogo della coscienza collettiva dove si ipotizzò che le acquisizioni prodotte dalle avanguardie nel corso del XX secolo fossero portatrici di valori che meritavano di essere universalmente riconosciuti e perpetrati, perché sempre capaci di stimolare la creatività. Un sito nel quale si coltivava l'aspirazione a rendere riconoscibile e sempre attivo il ruolo artistico della capitale francese e dove ad esempio risiedeva il Valéry di Destin de Paris. È questa ambizione che ispirava in parte quel progetto per il museo dell'arte del XX secolo, voluto da Andrè Malraux, che Le Corbusier lascia sul tavolo dell'atelier de rue de Sevres alla propria morte. Un progetto che intrecciandosi con le suggestioni della rivoluzione culturale della fine degli anni Sessanta darà poi vita anche alla grande macchina del Centre Georges Pompidou. Con il passare del tempo però intenti espositivi e obiettivi pedagogici hanno faticato sempre più a stare assieme, rivolti ciascuno a percorrere strade diverse. Gli uni seguendo gli aggiornamenti museografici e la segmentazione specialistica, gli altri moltiplicandosi in itinerari formativi sempre più numerosi e disperdendosi poi nelle unitè-pedagogique volute dalle riforme universitarie post-sessantottine.


Palais de Tokyo.


Palais de Chaillot.
Nel frattempo la stessa capitale è stata attraversata dalla trasformazione delle cattedrali del programma culturale mitterandiano, con la moltiplicazione dei centri culturali (Musée d'Orsay, l'insieme della Villette, Opera-Bastille, Institut du Monde Arabe, Bibliotheque Nationale) e la riqualificazione di quelli esistenti (Grand Louvre, Musée National d'Historie Naturelle, l'insieme del Art et Métiers), ispirate alla "democratizzazione culturale" (1). La controcultura e la produzione informale, alternativa e bohemien, alla base della forza creativa della città, ha invece continuato come sempre a migrare alla ricerca di quartieri marginali e accessibili. Ha cambiando connotati facendosi multietnica, sparendo nella banlieue e nella rete, mentre i distretti creativi della moda, della produzione audiovisiva e i mercati dell'arte hanno consolidavano i loro presidi centrali, oppure si sono dissolti in errate politiche di decongestionamento. Così nemmeno il Beauborg è poi diventato quel che si voleva. Trasformato dal suo successo in un luogo di incontro, condensatore sociale per studenti e turisti, articolato sulla grande biblioteca pubblica, le mediateche, le sale cinematografiche, il museo d'arte moderna, ha progressivamente avuto poco a che fare con le attività direttamente creative. L'edificazione del Institut de Recherche et Coordination Acoustique/Musique (IRCAM) e dell'Atelier Brancusi sull'antistante parvis prima, e il recente positivo restauro dopo, non hanno fatto altro che consolidare questa sua connotazione. In questo quadro anche le attività connesse al Musée National d'Art Moderne hanno teso sempre più a proporsi come luogo di esposizione di grandi retrospettive sugli artisti e le correnti dell'arte XX secolo, piuttosto che dei fenomeni d'attualità.

NOTE

(1) Una politica di cui è stata indicata in più occasioni l'affinità con il programma delle Maison de la culture e le iniziative di "decentralizzazoone" culturale avviate sin dall'inizio della Quinta Repubblica.
Quel lontano desiderio di mostrare la vivacità artistica della città e le nuove pratiche di produzione sembra rimanere quindi inespresso. A questa modificazione degli obiettivi iniziali del Beaubourg ha fatto fronte, sul finire del secolo scorso, la drammatica assenza in tutta Parigi di un luogo d'esposizione consacrato alla creazione "vivente" (2) e la constatazione della perdita di visibilità internazionale della Francia sulla scena dell'arte contemporanea. Qualcosa di troppo insopportabile per lo sciovinismo politico nazionale e preoccupante per i mercanti di uno dei principali centri del mercato internazionale delle opere.



(2) Il Jeu de pomme, cui questo compito fu destinato una volta persi gli impressionisti emigrati al Musée d'Orsay, non è in realtà mai riuscito ad assumerlo pienamente, a causa della sua immagine di edificio anciènt regime e di una programmazione espositiva che si è voluta sempre molto prudente.

Foto d’epoca (struttura).
UN PALAZZO. Si sa, è ai palazzi disabitati e in rovina, agli edifici in disuso, o ubicati in luoghi strani, che si dà dimora ai fantasmi. E ciò non di meno per un'immagine indefinita e ambiziosa come quella che abbiamo ora riconosciuto. Ritorna così più volte, nei tentativi di dare spazio a una sede culturale per l'arte contemporanea che nel corso del tempo si sono susseguiti sulla scena della metropoli francese, un luogo eccentrico rispetto agli itinerari del turismo parigino. Un edifico imponente, e perciò adeguato a sogni di rinnovata grandeur, ma introverso e sgraziato. Un complesso che volgendo le spalle al proprio tranquillo e elitario quartiere, se ne sta come seduto sulla collina di Chaillot, facendo fronte a un'inaccessibile curva della Senna, insignificante pausa tra gli spazi delle due esplanade. Un asse monumentale che organizzandosi su una villa pseudorinascimentale, (3) dispone un colonnato e una corte con piscine, in una sequenza di terrazze verso il fiume, il gradevole orientamento verso sud delle quali, è però vanificato dal persistente spazzare del vento. È questo il Palais de Tokyo.


Palais de Tokyo.

Un edificio neoclassico del quale Bruno Zevi ricordava, già nelle prime edizioni della sua Storia dell'architettura, il positivo elogio da parte delle riviste architettoniche delle Germania nazista, indicandolo quale simbolo del reazionario ritorno all'architettura monumentale dopo la fuga delle avanguardie moderniste davanti all'Europa conquistata dalle dittature. Che si pensi con frequenza a questo edificio quale sede per attività artistico-espositive è dovuto in larga parte alla sua stessa vicenda. La decisione della costruzione del Palays de Tokyo, quale Palais des Musées d'Art Moderne, risale al 1934, ed era connessa al programma di edifici volti ad ospitare l'Exposition internationale des arts et techniques de la vie moderne del 1937. L'ala orientale fu attribuita alla municipalità di Parigi, che dal 1937 vi collocherà il Musée d'art moderne de la Ville de Paris. Quella occidentale, assegnata allo Stato, sarà oggetto invece di una lunga serie di trasformazioni.


Pianta Palais de Tokyo.

Al piano terra dell'edificio è inizialmente collocato, a partire dal 1938, il Fonds National d'Art Contemporain (FNAC), deposito delle opere dei musei, ambasciate, istituzioni pubbliche e di quelle circolanti nelle esposizioni nazionali ed estere. Al piano superiore il turbolento periodo della guerra impedisce l'apertura totale del Musée national d'art moderne (MNAM) nel 1942, consentendola solo nel 1947. Fino alla fine degli anni sessanta il palazzo non subisce modificazioni funzionali, mantenendo l'identità di centro per le arti moderne. Un'identità che le trasformazioni sociali ed artistiche di quel decennio però metteranno in discussione, interpretandone negativamente l'immagine monumentale e individuando nella sua collezione un supporto decisivo per fondare quella nuova cattedrale, dedicata a restituire i mutamenti del tempo in una nuova idea di spazio espositivo, che sarà il Centre Georges Pompidou. È così che la collezione d'arte moderna del Palais de Tokyo, viene trasferita nel nuovo centro nel 1977, dove verrà poi sistemata da Gae Aulenti e Italo Rota.

Persi i suoi capolavori il vecchio palazzo verrà trascurato anche nella campagna di nuovi edifici culturali voluta prima da Giscard d'Estaing e poi da Mitterand. Diventerà un contenitore, ribattezzato nel frattempo Musée d'art et d'essai, in cui poter collocare le collezioni più eteroclite. Tra il 1977 e il 1984 coesisteranno al Palais de Tokyo: la pittura della seconda metà del XIX secolo, prefigurazione del Musée d'Orsay, le opere di Picasso destinate al suo museo parigino e le collezioni di donatori (Laurens, Rouault, Segonzac) che non preferiranno seguire il trasferimento al Beaubourg per restare nell'atmosfera di un museo tradizionale. L'edificio presenterà anche, a turno, delle opere appartenenti ai musei nazionali e più particolarmente al Louvre. Un nuovo capitolo inizia alla metà degli anni ottanta, quando, oltre alla funzione espositiva, si comincia ad intravedere la possibilità di un utilizzo anche in funzione didattica dei vasti spazi del palazzo. Installandovi il nuovo Centre national de a photographie (CNP) e la Mission du patrimoine photographique, il ministero della cultura propone a partire dal 1984 di destinare al Palais de Tokyo un più vasto progetto di "Maison de l'Image". Il CNP, creato nel 1982 e diretto da Robert Delpire vi organizzerà qui delle grandi esposizioni consacrate alla fotografia contemporanea. Dei lavori importanti inizieranno nel 1986 per installare la Fondation européenne des métiers de l'image et du son (FEMIS) e creare delle nuove sale cinematografiche, gestite dalla Cinémathèque Française dal 1990 al 1993. Tra la fine del 1988 e la primavera del 1990, l'edificio accoglie, nelle antiche sale della scultura liberate dalla partenza della collezione Laurent, l'Institut des Hautes Etudes en Arts (IHEAP).



(3) L'ottocentesco Palais Galliéra, che oggi accoglie il Musée de la mode et du costume.
Immaginato nel 1983 da Pontus Hulten e fondato nel 1985, esso riunirà attorno a Serge Fauchereau e agli artisti Sarkis et Daniel Buren delle promozioni annuali di giovani artisti. Luogo di ricerca e di dibattiti sulla creazione, l'istituto si interesserà alle relazioni dell'arte con altri domini, in particolare delle scienze umane e delle scienze esatte. Il FEMIS, installato nel novembre 1986 e configurandosi come una vera e propria scuola di cinema, a sua volta succede all'Institut des hautes études cinématographiques (IDHEC), provvisoriamente trasferito a Bry-sur-Marne. Presieduto da Jean-Claude Carrière e Jean-Christophe Averty, inaugurerà nel marzo 1988 i suoi nuovi locali disegnati dall'architetto Jean-Claude Pourtier. Nel 1995 lascerà questi locali per un nuovo spazio a Montmartre. Diventato "Palais du Cinéma", il progetto di complessiva ristrutturazione dell'edificio, prevederà a questo punto di riunire il Musée du cinéma, la FEMIS, la Bibliothèque et les archives du film, conducendo al trasloco del FNAC nel 1991 e del CNP nel 1993. Nel 1998 i progetti della Maison de l'image e il Palais du Cinéma saranno però abbandonati e i lavori non completati lasceranno in vista la struttura originale dell'edificio. È a questo punto che l'errabonda idea di un centro capace di riunire produzione ed esposizione delle opere d'arte si incrocia con quella dell'inquieto Palais de Tokyo

Nell'aprile del 1999, Catherine Trautmann, ministro della cultura e della comunicazione, decide di attribuire l'ala appartenente allo Stato alla istituzione di un centro d'arte. Un'istituzione ambiziosa, "capace di rivaleggiare con quanto offerto in altre grandi capitali dell'arte come Londra, Berlino, Amsterdam, New York", qualcosa di equivalente dell'Alternative Museum di New York, o del Wit de Wit di Rotterdam. Nel settembre dello stesso anno viene scelto, tra una decina di candidature, il progetto-programma di Nicolas Bourriaud et Jérôme Sans. Entrambi fattisi un nome operando come critici d'arte indipendenti, essi non sono solo ben informati sulle ultime tendenze, ma in alcuni casi hanno contribuito ad affermarle. L'iniziativa si segnala quindi subito per la discontinuità rispetto ai criteri operativi usuali nell'apparato statale francese. La responsabilità del nuovo progetto non viene infatti assegnata a qualche servitore di stato, o a una figura legata all'élite di governo, ma a due outsider trentenni. Questa scelta, di cui più avanti vedremo meglio il contesto, rappresenta la volontà di voler mettere il progetto nelle mani di esperti di settore. Un atteggiamento ribadito anche nella composizione del consiglio d'amministrazione del centro, che, dopo alcune polemiche, stabilirà un proporzione più equilibrata di quanto sia nella prassi, tra membri tecnici (pretesi dagli artisti) e conservatori (voluti dagli ambienti istituzionali). La conferma di una procedura inusuale viene infine anche dalla selezione di due architetti poco appariscenti e fuori dall'elite delle star nazionali nel concorso per l'architettura del palazzo, i bordolesi: Anne Lacaton e Jean-Philippe Vassal.



ALL'OVEST NIENTE DI NUOVO? Nel frattempo non solo il Palais de Tokyo si appresta a vivere una nuova stagione, ma tutto l'ambito della collina di Chaillot, sulla quale esso sorge, risulta in corso di trasformazione. Il settore era rimasto trascurato dalle grands travaux degli anni Ottanta, a favore di una politica di intervento sulla parte orientale, la più degradata della città. Esso si trovò coinvolto solo in una delle ultime iniziative avviate da Mitterand, quella del Centre de Conferences International sul quai Branly, annunciato nel 1989. Ma l'ambizione di un centro diplomatico, capace di diventare un polo di riferimento per gli incontri internazionali dopo la rivoluzione degli equilibri politici mondiali, non fu in grado di sopravvivere al declino politico del presidente. Oggi invece le iniziative fervono, con il rinnovamento del Musée Guimet, la realizzazione della Cité de l'architecture et du patrimoine al Trocadero e il nuovo Musée des Arts Premiers, al di là della Senna. Un confronto con queste iniziative e il loro diverso stato di avanzamento può essere significativo per comprendere e valutare il profilo della nuova istituzione che si sta aprendo al Palais de Tokyo.

Scrivere del nuovo Musée Guimet intristisce. Che l'intervento di ristrutturazione fosse necessario al fine di adeguare radicalmente l'edificio ai nuovi regolamenti di accessibilità e sicurezza non può certo rappresentare un valido argomento a supporto della distruzione di quello che era forse il più intimo dei musei parigini. Un luogo obsoleto, ingrigito e polveroso, ma proprio per questi motivi così in linea con una collezione esotica ed eterogenea come quella raccolta da Èmile Guimet. All'antro, alle teche da gabinetto di scuola superiore, ai tessuti di sfondo, agli scorretti e provvisori allestimenti delle opere, la ristrutturazione ha sostituito i criteri della più attuale museografia. Usando un linguaggio consolidato di fenditure sulle pareti, modanature d'artista e faretti, uno dei "grandi di Francia" ha potuto affermarsi in quanto architetto, senza essere intralciato da sostanziali innovazioni nella programmazione espositiva e nelle attività. Insomma, un cambiare tutto per non cambiare nulla, eliminando accatastamento e memoria, in un'azione di spettacolarizzazione assecondata da una politica didattica e conoscitiva all'insegna di un'ambigua concezione della "qualità". Sulla riva sinistra prosegue invece la vicenda delle iniziative presidenziali. Esattamente nel luogo del fallimento mitterandiano, Chirac si è preso la propria rivincita scegliendo, nel dicembre del 1999, il progetto di Jean Nouvel per un nuovo museo. In un unico luogo verranno concentrate le diverse collezioni presenti nella capitale di quelle arti che, in una società multirazziale, non possono più essere indicate come "primitive", e che ora sono nominate "primordiali".

Il Quai Branly raccoglierà infatti in meno di tre anni il Laboratoire d'ethnologie del Musée de l'Homme (ospitato oggi al Palais du Trocadéro) e il Musée national des Arts d'Afrique et d'Océanie (oggi alla Porte Dorée presso il bois de Vincennes). Il tutto riunito in un ambizioso progetto che mira a mettere in mostra tra i 250 e 300 mila pezzi tra oggetti, fotografie, libri, documenti sonori, film. L'iniziativa si presenta in primo luogo come una grande operazione di conservazione, dato che tutti i documenti, dopo una grande impresa di ricatalogazione verranno riuniti in un cantiere di restauro, preliminare all'apertura del museo. In seconda istanza essa professa un forte intento di promozione nei confronti di collezioni che, nei luoghi attuali, per ragioni di stoccaggio, accesso fisico, o intellettuale sarebbero lontane dal godere di un'adeguata visibilità. Un modo per avvicinare e rendere comprensibile al pubblico la storia, i modi di vita e il pensiero delle quattro aree geografiche rappresentate: Africa, Asia, Oceania e Americhe. Al di là dei proclami di innovamento museografico, il futuro centro espositivo, oltre ad annunciare nuove biblioteche e fototeche, e spazi più ampi per le mostre temporanee, sembra confermare le attività e i servizi presenti nelle istituzioni esistenti.

Quanto alla programmazione di seminari e il partnerariato con i centri scientifici dei paesi d'origine delle opere, essi costituiscono oramai il connotato di ogni attiva istituzione contemporanea. Dato nuovo è invece la presenza della funzione formativa di alto livello, con l'istituzione di un insegnamento di livello dottorale connesso al museo. "Un museo costruito intorno a una collezione" così lo definisce Nouvel. Pensato come un "lungo scaffale" sul quale saranno poste le opere, mentre edifici specifici, in adiacenza ai mur mitoyen che si affacciano sul lotto, ospiteranno la logistica e la mediateca. Presente e assente alla Senna, l'edificio principale sarà protetto da una doppia tenda costituita da una parete di vetro serigrafata e da un giardino foresta di querce e aceri, tra i quali saranno gettate delle liane, e con il suolo coperto di graminacee, ideato da Gilles Clément.

Un'immagine che rinvia alla Fondation Cartier e che al tempo stesso evoca anche l'Institut du Monde Arabe, il tutto però arretrato rispetto al fiume e la strada, a privilegiare il giardino ad affermare meno l'edificio, che comunque risulterà pesante. Un ambiguità frequente nei progetti ad altro budget di Jean Nouvel, (4) mai particolarmente interessato ad affermare la presenza dell'oggetto nel campo urbano, ma poi molto intento a caricarne la consistenza volumetrica. (5)

Nell'insieme l'operazione propone un museo contemplativo, metaforico di una situazione espositiva, tradizionale e spiritualista. Certo, è un museo da costruire intorno a una collezione, e dopo le derive mass-mediologiche degli anni Ottanta pare coerente che si ritorni ad un luogo espositivo dove le opere abbiano il primato, ma l'iniziativa non sembra modificare di molto l'orizzonte tracciato negli anni Ottanta. E se l'invenzione del giardino indica la tendenza a non calcare la mano sul simbolo, essa è anche un modo di offrire lustro alla scuola dei paesaggisti nazionali. Vi è però un elemento che più di ogni altro indica la continuità con l'esperienza dei grands travaux del passato: la presenza di una terrazza, sulla quale, sotto una cupola di vetro, sarà installato un ristorante capace di offrire una superba vista sulla Senna e sul Trocadéro. Una costante, che attira i turisti con la visione panoramica della città. Un fenomeno già riconosciuto da Roland Barthes negli anni Settanta, e ribadito come "metodo tour Eiffel" da Marc Fumaroli nella sua critica a l'"Etat culturel" (6). Presenza inquietante, essa annuncia la dimensione commerciale del museo, "ricreativa" e di ristoro, che le necessità di autonomia finanziaria di questo genere di istituzioni già incentivano. Nell'ala destra del Palais de Chaillot, sulla place de Trocadéro, sorgerà invece la Cité de l'architecture et du patrimoine. La nuova istituzione è frutto della fusione tra la Direction de l'architecture e la Direction du patrimoine messa in opera nel settembre 1998, della riassegnazione al ministero della cultura delle competenze in materia di architettura (sia professione che insegnamento), oltre che della necessità di concertare le competenze con il ministère de l'Equipement per i settori della salvaguardia. 

Dell'iniziativa culturale è stato incaricato lo storico Jean-Louis Cohen, dapprima delegato, nel novembre 1997 di una missione di studio e poi, nell'aprile del 1998, nominato a questo scopo direttore dell'Institut français d'architecture (IFA), dall'allora ministro della cultura Catherine Trautmann. La Cité di fatto estenderà e completerà le funzioni di istituto di ricerca, divulgazione e promozione dell'architettura e della città dell'IFA, assegnando ad esso degli spazi meno angusti della vecchia sede di rue de Tournon e affiancandovi una serie di strutture di completamento. Pensata come luogo centrale della rete nazionale di iniziative sull'architettura, la Cité ambisce così a proporsi come polo di riferimento per incontri e scambi a livello internazionale. A parte il Centre d'archives d'architecture, che resterà nella sua sede realizzata negli anni Ottanta in rue de Tolbiac, dall'altra parte di Parigi, la Cité raccoglierà così diversi elementi nel settore dell'architettura e del patrimonio. All'IFA sarà così associata un'Agence d'action architecturale consacrata alle realizzazioni contemporanee e al progetto urbano, che funzionerà nel quadro del programma stabilito da Cohen e da Dominique Perrault, come luogo di intermediazione tra professione e produzione, tra creazione e mondo dell'impresa.

Di rilievo la creazione di una vasta biblioteca, concentrata in particolare sul XX secolo. In questo senso ancora più rilevante sarà la creazione di un Musée d'architecture. In esso le collezioni dell'attuale Musée des monuments français, saranno prolungate con l'apporto delle collezioni dell'IFA. Una galleria moderna e contemporanea, per rifornire la quale è in corso una politica di nuove acquisizioni in linea con il programma dichiarato, lavorerà a rintracciare una genealogia dell'architettura dall'epoca dei lumi. Si formerà così un insieme documentario eccezionale esteso dal XI secolo alle soglie del XXI, il cui compito sarà colmare la tradizionale cesura tra architettura e patrimonio delle collezioni francesi, rendendo visibili le categorie del romanico e del gotico tali quali esse sono state costituite nel XIX secolo ed esplicitando gli atteggiamenti fondativi del Musée de sculpture comparée e del Musée des monuments français.

(4) La dotazione assegnata alla realizzazione del solo progetto architettonico del quai Branly è di 170 milioni di euro!
(5) Ricordiamo qui in nota che negli stessi giorni in cui avviene l'apertura del Palais de Tokyo è allestita una grande mostra celebrativa di Jean Nouvel al Beaubourg.
(6) Pur non condividendo l'atteggiamento generale del saggio di Fumaroli, connotato da un elitismo di fondo, riteniamo invece cruciale l'indicazione di questo elemento nel dibattito sui grands projets: Marc Fumaroli, L'Etat culturel. Essai sur une religion moderne, Flammarion, Paris, 1991.
Non mancherà infine l'aspetto didattico con la trasformazione dell'antica e prestigiosa antica "scuola di Chaillot", in Centre d'études supérieures d'histoire et de conservation des monuments anciens (CESHCMA), di cui dovrebbe assumere la carica lo storico François Loyer. Esso offrirà ai professionisti un ciclo di studi specialistici nel dominio dei patrimonio architettonico e urbano. Questo centro assicurerà ugualmente, in associazione con l'Ecole nationale des Ponts et Chaussées, la formazione di nuovi architetti e urbanisti di Stato specializzati nella cura e nella gestione dei beni artistici. La sede dell'ala "de Paris" del Palais de Chaillot, sembrerebbe essere stata scelta, al di là di ogni altra legittimazione, tanto per la presenza in sito di alcuni delle istituzioni che formeranno la futura Cité, (7) quanto per la disponibilità dei locali del Musée du cinéma e della Cinémathèque Française che dovevano migrare proprio al Palais de Tokyo.

L'entrata principale sarà nel padiglione di testa, prospiciente la piazza del Trocadéro. Questo padiglione accoglierà la biblioteca, le esposizioni temporanee e gli spazi di comuni. Il museo si estenderà dal piano terra: le gallerie Davioud e Carlu racchiuderanno le collezioni dell'antico Musée des monuments français, riproponendo il percorso cronologico esistente; al primo piano la galleria moderna e contemporanea presenterà, senza linearità né permanenza, un insieme di documenti dell'architettura francese. Questo percorso si completerà nel padiglione all'estremità, che riunirà, oltre all'auditorium, la scuola, le sale dei seminari e gli organismi di servizio. I lavori sono cominciati nella primavera del 2000 e l'apertura è prevista per il 2003. Il budget d'investimento è notevole: 45 milioni di euro. Quello di funzionamento lo è altrettanto, sommando tutte le risorse, sarà di circa 12 milioni di euro annui, dei quali 9 di sovvenzione statale. Complessivamente la Cité darà vita ad un organismo di oltre centodieci persone che il ministero intende non sia "pesante e statico", ma che difficilmente riuscirà a funzionare con una logica burocratica differente da quella che ha caratterizzato le diverse istituzioni che lo comporranno. Osservati insieme i due interventi che si affacciano sulla Senna non sembrano porre in discussione le consolidate procedure delle grandi iniziative statali del passato. 


Musée des Arts Premiers.

(7) Il Musée de sculpture comparée aperto al Palais du Trocadéro da Viollet-le-Duc nel 1882, poi trasformato in Musée des Monuments Français da Paul Deschamps nel 1937, chiuso per restauri a causa dell'incendio dell'estate del 1997 e la scuola di conservazione.
Soprattutto a non cambiare è il criterio di gestione. In particolare il Musée des Arts Premiers appare l'ennesimo caso di un grande contenitore pensato al fine di concentrare in un unico luogo simbolico e riconoscibile quella che viene avvertita come un'urgenza tematica. Anzi, una priorità di consenso politico, i nuovi cittadini di origine non francese, e di mercato, l'arte afro-oceanica in crescita di valore e prestigio. "Oceania… di quanto prestigio ha goduto questa parola nel surrealismo", notava Breton. "Non solo è bastata a precipitare le nostre fantasticherie nel più vertiginoso dei corsi senza rive, ma inoltre tante varietà di oggetti che portano il suo marchio d'origine hanno sovranamente provocato il nostro desiderio" (8). Ecco, è forse, come già al Musée Guimet, il desiderio a sembrare qui sembra assente. L'istituzione rinnova e concentra al fine di rendere esplicita un'intenzionalità che sia prova di impegno, il museo e il centro artistico si sono rivelati originalmente produttivi solo nella dispersione e nell'assenza di funzionalità: luoghi di fantasticazione. L'opzione della concentrazione non può però essere giudicata di per sé negativa, ad esempio essa può giocare un ruolo positivo a livello della competizione internazionale tra le grandi metropoli mondiali. Tuttavia essa implica, e ciò riguarda invece soprattutto la Cité de l'architecture, sempre enormi costi di rilocalizzazione, che, al di là dei proclami di efficienza e razionalizzazione, l'esperienza ha dimostrato comportare oneri di gestione sempre maggiori di quelli correnti. Che il luogo privilegiato di ricerca, l'archivio, non venga integrato nel progetto la dice lunga su quanto resti ambiguo che i trasferimenti siano prodotti da effettive ragioni di ricerca e di accessibilità.

(8) André Breton, La Clé des champs, J.-J. Pauvert, Paris, pp. 214-215.
Senza un ritorno d'immagine difficilmente i fondi pubblici sarebbero ricaduti sui settori disciplinari ora coinvolti. Incerto è poi il destino degli edifici che verranno svuotati. Non è ancora sicuro, infatti, quanto accadrà degli spazi del Musée de l'Homme, attualmente nell'ala ovest del palais de Chaillot, né di quelli del Musée des Arts Africains et Océaniens, le collezioni dei quali confluiranno al quai Branly. Inversamente non si ancora che cosa sarà del progetto del Palais du cinéma, raggruppante il museo del cinema e la Cinémathèque Française. L'unica certezza al riguardo è che non aprirà al Palais de Tokyo. Perché cominciare questo gioco di domino se nemmeno si sa come impiegare tutte le tessere, e anche il Centre Pompidou è in stato di asfissia finanziaria? Nell'insieme i diversi interventi appaiono avvantaggiare espressioni artistiche oggi alla moda: arti contemporanee, architettura, arti esotiche, ecc. (9) Espressioni artistiche per le quali si potrebbe ipotizzare un pubblico giovane e multietnico. In tal caso l'insieme al di qua e al di là della Senna sembrerebbe configurarsi come un polo di rinascita non tradizionale, con funzioni però tra loro difficilmente conciliabili. Il tutto potrebbe essere stimolante. Tuttavia vi è da dubitare che, a parte un'economia di scala volta a concentrare i visitatori in questa parte della città, si intrecceranno delle solide relazioni tra i diversi centri. A meno che non si speri che artisti e architetti torneranno a visitare le vecchie collezioni di arte africana con lo stesso spirito con il quale Picasso e i suoi amici si recavano spesso nel museo al bois de Vincennes…



(9) Un elenco al quale si potrebbero aggiungere anche le collezioni del Palais Galliéra, concentrate sulla moda, il costume, la grafica pubblicitaria.

Concept Store.
UN'ISTITUZIONE LEGGERA. A fronte di questo senario di trasformazioni è forse utile, al fine di comprendere la specificità del Palais de Tokyo, ritornare sul passaggio tra le proposte che coinvolgono l'edificio e l'ideazione del site de création contemporaine. Si è già accennato al fatto che il Palais du Cinéma immaginato da Jack Lang, fosse destinato a riunire il museo, la scuola, la biblioteca e gli archivi del cinema. Quel progetto venne effettivamente inaugurato con entusiasmo dal successore di Lang, François Léotard, nel marzo del 1988. L'architetto Franck Hammoutène vincitore del concorso, cominciò a trasformare gli spazi e a consolidare le strutture in età già avanzata. Importo dei lavori: 12,2 milioni di euro, su un totale di 45,5 milioni di euro, per una superficie di circa 20mila m2. Nel 1998, il cantiere fu però fermato a causa delle divergenze tra i futuri occupanti e per temporeggiamenti senza fine degli organi di tutela. L'anno successivo partì il nuovo progetto per il centro d'arti, e con esso un nuovo budget: 4,753 milioni di euro per la sistemazione di 8.700 m2 (di cui 3 milioni di euro per i lavori, pari a 350 euro/m2). Una differenza notevole se si pensa inoltre che essa corrisponde all'incirca alla stessa somma di cui Rem Koolhaas e Jean Nouvel, pressappoco nella stessa epoca, disporranno per la sola esposizione temporanea Mutations a Bordeaux! Il Palais de Tokyo si configura dunque inizialmente come un progetto fragile, immaginato dal ministero della cultura come un'istituzione precaria. In quanto "sito di creazione contemporanea", esso è stato probabilmente visto come una tappa di transizione in attesa che altre potenti istituzioni, come lo stesso Beaubourg, ne reclamassero gli spazi per le proprie debordanti collezioni.


Palais de Tokyo, interno.

È forse anche in questo senso che dovrà essere letta l'apertura a figure non organicamente inserite nell'apparato amministrativo e dirigenziale dello Stato per la messa in piedi del progetto, così come la scelta di figure ancora scarsamente affermate e non dotate di una specializzazione definita nel campo delle opere pubbliche per il progetto di architettura. In questa prospettiva la ricostruzione del Palais de Tokyo non sembra fare tesoro delle esperienze dei precedenti vent'anni. In primo luogo dei fallimenti di tutti i tentativi di istituzionalizzare un luogo da destinare all'immagine. In questo senso si pensi non solo alla non riuscita Maison de l'image, che proprio qui doveva prendere posto, ma anche all'unico vero progetto culturale innovativo proposto dal programma dei progetti mitterandiani: il Centre international de la communication che doveva sorgere nell'Arche de la Défense. Tentativo di approntare un grande centro di produzione e ricerca delle nuove tecnologie di comunicazione e informazione prima dell'avvento di internet, fallito per l'inconsistenza di un programma insostenibile davanti ai contrasti politici all'epoca della prima coabitazione Chirac-Mitterand e per gli enormi costi previsti per la sua realizzazione e gestione. Nessun un cambiamento di rotta nelle politiche statali. Si avvia un centro per le arti che si vuole "flessibile e aperto", conferito a "personalità scelte fuori dalle istituzioni pubbliche e da consulenti indipendenti", e contemporaneamente si sostengono, con governi e presidenti di diverso colore, le iniziative culturali tradizionali sopra descritte. La novità che il Palais de Tokyo rappresenta nasce proprio dalla sua marginalità.


Palais de Tokyo, interno.

Un vuoto, una frattura, nel sistema di funzionamento complessivo che ha offerto l'occasione di mettere in piedi un organismo "obbligato" ad essere creativo dai suoi limiti finanziari e di copertura politica. Che all'inaugurazione abbia voluto presenziare il primo ministro Jospin, solitamente disinteressato ad assecondare questo tipo di iniziative nel settore della cultura, potrebbe essere una prima conferma di un risultato positivo, anche qualora si raccogliere i frutti di quanto seminato da altri. A dirigere il Palais de Tokyo sono stati chiamati gli stessi ideatori del programma di rinnovamento: Nicolas Bourriaud e Jérôme Sans, incaricati di accompagnare, con un contratto non rinnovabile, la fase di installazione del Palais de Tokyo e di mettere in moto la programmazione per i tre anni che seguiranno la sua apertura. Esso è dotato di uno statuto giuridico che gli garantisce una grande autonomia. Configurato come "associazione senza scopo di lucro", azienda autonoma statale secondo la legge del 1901, il Palais de Tokyo è dotato di un consiglio d'amministrazione composto da personalità scelte per il loro impegno nel dominio dell'arte contemporanea. (10) Ciò che più caratterizza questa istituzione è però il numero dei componenti dell'équipe permanente, quindici persone. Una scelta fatta dal ministro nel 1999 e che si rivela una quantità modesta per una simile istituzione, ma che punta su questo giovane commando di esperienze e di origini differenti per non cadere nei burocratismi e per dare un profilo efficiente e innovativo alla stessa. Il budget di finanziamento dell'associazione si basa su una sovvenzione annuale di circa 1,6 milioni di euro, attribuita dalla Délégation aux arts plastiques del Ministère de la culture et de la communication e dal recupero di fondi privati. Proprio su questo fronte sembra trovarsi una conferma all'efficienza degli organizzatori e alla redditività dell'iniziativa. La JAS Hennessy & Co si è infatti impegnata per tre anni ad apportare un aiuto finanziario diretto alla produzione delle opere per un importo complessivo di circa 300 mila euro, mentre Bloomberg, molto attivo nel mecenariato in Gran Bretagna, ha accettato di intervenire per la prima volta in Francia, avendo fiducia nella esposizione d'apertura. Lo sponsor tecnico Pioneer ha inoltre offerto le attrezzature informatiche, elettroniche e sonore necessarie.



(10) Oltre ai membri di diritto Guy Amsellem (delegato alle Arts plastiques del Ministère de la culture et de la communication) e Michel Fontes (direttore regionale degli Affaires culturelles), ne fanno parte il tesoriere Gilles Fuchs (collezionista), il segretario Jean-François Bizot (Presidente di Novapress) e Martine Aballéa (artiste), Daniel Buren (artista), Bice Curriger (della rivista Parkett), Jan Debbaut (del Stedelijk van Abbemuseum di Eindhoven), Michel François (artista), Raymond Hains (artista), Alanna Heiss (del PS1 di New York), Alain Jacquet (artista), Jean-Hubert Martin (del Museum Kunst Palast di Düsseldorf), Orlan (artista). Presidente è il noto critico d'arte Pierre Restany.
SEMPLICITÀ E CONDIVISIONE. I due co-direttori del Palais de Tokyo, Nicolas Bourriaud (trentasei anni) e Jérôme Sans (quarantuno anni), hanno una visione radicale, ma aperta, che asseconda la prima ambizione dichiarata della committenza pubblica: riconciliare il grande pubblico con la creazione "attuale". Per rispondere alla mancanza di visibilità dell'arte contemporanea i co-direttori sono partiti dalla constatazione che i luoghi destinati all'arte sono, pressoché ovunque, impostati su orari amministrativi. Essi hanno così deciso di ispirarsi agli orari di cinema, teatri e concerti. Anziché chiudere a metà pomeriggio mostre, spettacoli, dibattiti, incontri, défilés, lectures si svolgeranno da mezzogiorno a mezzanotte. Importante sarà il ruolo assegnato alla musica, ai DJ e alle performance dal vivo, perché il centro dovrà essere un luogo altrettanto festivo che di riflessione. Anziché prevedere dei guardiani, personale solitamente impreparato e poco stimolato ad occuparsi del proprio lavoro, si è preferito costituire uno staff di "mediatori", reclutati tra persone capaci di illustrare le esposizioni e di rispondere alle attese e alle domande del pubblico. Delle audioguide offriranno letture originali delle esposizioni: commenti degli artisti, dei commissari, di scrittori o musicisti.


Palais de Tokyo, interno.



Palais de Tokyo, diagramma sito web.
Luogo ispirato all'accessibilità, il Palais de Tokyo sarà "largamente aperto al pubblico, senza alcuna esclusione e… tutto sarà sistemato per accogliere e ricevere…" È per far ciò si è cercato di creare "un luogo esattamente all'immagine dell'epoca: attivo, mobile al tempo stesso planetario e locale, interculturale e conviviale, sollecitante l'immaginario e capace di offrire risposte concrete… un luogo che mischia le discipline e i tipi di pubblico e provoca degli incontri inattesi… Un luogo che sia di volta in volta un laboratorio di esperienze artistiche, un centro di vita permanente, uno spazio federativo di culture e di pratiche, un territorio non elitario e aperto a tutti". Nel quale, come polemicamente sostenuto nel sito web, da cui sono tratte anche le frasi precedenti, si vuole che "la sola cultura d'impresa adottata sia: essere attivo, mobile, planetario, immaginativo, concreto". Senza essere limitato ad un'idea di arte. Non ci saranno spazi riservati, le esposizioni individuali e collettive potranno svolgersi indipendentemente in ogni parte dell'edificio. Le stesse esposizioni avranno una durata irregolare: sei mesi, due mesi, quattro mesi, un mese, un giorno.

Due o più progetti potranno anche svolgersi contemporaneamente, "contaminandosi" a vicenda. Non sarà così raro incrociare gli artisti e i loro assistenti intenti a preparare, davanti a tutti, la loro prossima opera. Il rinnovamento permanente degli avvenimenti dovrà essere ciò che darà al Palais de Tokyo la sua forza di reattività. Un attività che si propagherà anche fuori delle mura dell'edificio. Già dal mese di maggio scorso, con il programma Tokyorama, il Palais de Tokyo ha cominciato ad invitare ogni mese un artista o una personalità a immaginare un percorso nei dintorni. (11) Ma agire fuori dalle proprie mura vorrà dire però innanzitutto tessere legami con altri centri d'arte parigini. Tra questi uno sembra destinato a diventare un partner privilegiato: Le Plateau. Si tratta di in nuovo piccolo polo culturale parigino, diretto da Eric Corne, che apre in questi stessi giorni nel diciannovesimo arrondissement. Non è avvantaggiato nella localizzazione, né dispone di grandi mezzi (solo 450 euro il budget), ma il progetto è l'esisto delle lotte degli abitanti del quartiere della rue des Alouettes, che hanno strappato al grande gruppo immobiliare Bouygues la concessione di 600 m2 in un nuovo insieme residenziale costruito sul sito dei vecchi studi della SFP, presso il Buttes-Chaumont.


Ange Leccia.

(11) Per l'occasione i visitatori sono diventati dei promeneurs che si sono prestati ai processi creativi e le esperienze di diverse attività, facendo i cuochi nei ristoranti del quartiere con Bernard Leprince (capo cuoco), scoprendo il fascino del Crazy Horse con Gaspard Yurkievich (stilista), partecipando a un'azione artistica con Marc Themann, Nadine Norman, Renaud Auguste-Dormeuil et Alain Bublex, prendendo parte a una performance di Tsuneko Taniuchi.
Un centro culturale con una programmazione rimarchevole, e che soprattutto ha raccolto il vasto sostegno della intellighenzia parigina. Il fatto che il Palais de Tokyo dovrà poi servire da collegamento e da vetrina per mostrare la vitalità artistica francese, sottintende che esso stabilirà un ruolo di interfaccia e coproduzione con le associazioni, le gallerie, le scuole e i centri artistici regionali. Questo perché il Palais de Tokyo sarà prima di tutto un luogo di produzione, di emissione e di ricerca. Decisivo in questo senso è il sito web concepito e realizzato da Katya Bonnenfant, a partire dall'identità visuale del Palais de Tokyo creata dai M/M Paris. Il carattere informale del sito sembra dovere molto all'attitudine giocosa e leggera dei due graphic designer Michael Amzalag e Mathias Augustiniak, che recentemente hanno idealizzato uno degli ultimi video e il libro della cantante Bjork e sono stati chiamati anche ad essere tra i docenti della nuova scuola le Pavillon. (12) Si tratta di un'unité pédagogique, per sette artisti/studenti, la direzione della quale è stata affidata al cinquantenne corso Ange Leccia. (13) Fattosi conoscere come una delle figure artistiche che hanno segnato la propria generazione egli ha esposto i propri lavori al Centre Georges Pompidou, alla Galleria Nazionale d'Arte Moderna di Roma, al Documenta di Kassel, al Guggenheim e al PS1 di New York. La sua attività, generalmente consistente in video o nella messa in scena di grandi immagini retroilluminate, si concentra sulla presentazione dell'ambigua relazione tra dolcezza e violenza delle immagini tipica del mondo attuale.

Questo interesse sembra confermare, come nel caso dell'identità visiva del sito, che ci si dovrà attendere una linea di lavoro creativo del Palais de Tokyo orientata verso pratiche artistiche non enfatiche, ma piuttosto diretta a recuperare la capacità dell'opera d'arte di suscitare emozioni. Le Pavillon si rivolge prioritariamente ad artisti dotati già di esperienza, ma accoglie ugualmente uno o due critici d'arte, curatori, o commissari di esposizioni, al fine di creare le condizioni di un dibattito permanente. Esso è pensato come un laboratorio di ricerca, aperto a pratiche artistiche in perpetua evoluzione. Al fine di creare un luogo attivo, pronto a rigenerarsi, Le Pavillon non avrà insegnanti fissi. Al gruppo degli studenti sarà chiesto di essere un centro di domande e di discussione. Più che ad un'utopia, questa rimessa in questione permanente corrisponderà a un'esigenza di vigilanza, nello spirito di realizzare un luogo creato "per gli artisti", fatto per assecondarli e per rispondere alle loro esigenze. L'attività espositiva del Palais de Tokyo sarà in interazione permanente con il Pavillon. Essa offrirà ai suoi partecipanti una formazione direttamente legata alla vita concreta e intellettuale del sito: partecipazione alle attività degli artisti invitati, intervento nella costruzione dei progetti, analisi delle modalità di produzione e di diffusione delle opere. Il dibattito intellettuale e la riflessione artistica dovranno concretizzarsi nella produzione di opere, comuni o individuali, da presentare al Palais de Tokyo. Questa finalizzazione, che potrà prendere le forme più diverse, dovrà costituire una banca dati, frutto di un anno di scambi. (14)

(12) Le Pavillon riceve una sovvenzione di funzionamento da parte della Délégation aux arts plastiques e della Délégation au développement et à l'action territoriale del Ministère de la Culture et de la Communication.
(13) Coordinatrice è stata invece designata Anne-Sophie de Gasquet. Katya Bonnenfant accompagnerà i progetti nei domini del suono, del video e di internet. Gli artisti insegnanti per l'anno 2001-2002 saranno invece: Dominique Gonzalez-Foerster, Gabriel Orozco, e i già indicati Michael Amzalag e Mathias Augustiniak. Una quindicina di visiting professors completeranno lo staff.
(14) Le Pavillon ha già iniziato la propria attività esterna al Palais de Tokyo selezionando dei giovani artisti per due workshops: l'uno realizzato in Marocco nel marzo 2001 e che ha permesso di girare un film in collaborazione con il centro Le Fresnoy e il sostegno del Afaa; l'altro svoltosi in Corsica nel maggio 2001 in collaborazione con la Frac Corse.

Ange Leccia.
L'unità pedagogica non sarà riservata solo ad artisti francesi, ma accoglierà anche giovani stranieri. Bourriaud e Sans sono ottimisti: "Parigi è decaduta su tutti i fronti, ma negli ultimi due anni qualche cosa ha iniziato a cambiare. C'è una nuova generazione, con maggior apertura mentale e uno sguardo internazionale. Essi non pensano più che la Francia è il miglior paese del mondo e che non c'è bisogno di guardare cosa accade altrove." Che vi sia un'ingenuità di presupposti in questo programma non è il caso di negarlo. Incontri inattesi e multidisciplinarietà è quanto sentiamo continuamente evocare. Eppure già nei presupposti il Palais de Tokyo sembra possedere un'impronta diversa, soprattutto nell'essere riuscito a conciliare, per la prima volta, intenti formativi e criteri espositivi non determinati.



GLI SPAZI. Ma ciò che più di ogni altra cosa sembra assicurare a noi sin da oggi che il Palais de Tokyo non sia uguale agli altri centri culturali fin qui evocati è la sua architettura. Per raccontarla è necessario risalire ancora una volta al momento al progetto del Palais du Cinéma. Franck Hammoutène, incaricato del progetto, si era orientato verso un lavoro di separazione dell'interno dall'esterno. Oscurando gli interni aveva proposto una sequenza di sale nere, per realizzare le quali aveva avviato i lavori togliendo tutto quanto ritenesse superfluo: superfetazioni, suddivisioni interne e così via. L'abbandono del progetto e il drastico ridimensionamento del budget hanno fatto sì che si passasse dal più ambizioso degli edifici di un architetto high-tech oriented quale è Hammoutène, al meno costoso dei cantieri del ministero della cultura a Parigi. In questo quadro non sorprende la scelta, che sembra in parte essere stata patrocinata da una importante figura dell'architettura francese come François Barré, di due architetti così understatement e low-tech come Anne Lacaton et Jean-Philippe Vassal. Trovandosi di fronte a un edificio in gran parte ridotto internamente alla sua struttura originale, (15) essi hanno chiesto alla committenza, con una mossa inaspettata, di potersi installare al suo interno, raggiunti ben presto anche dallo staff del centro culturale allora in formazione. Spostando il loro studio di volta in volta nelle zone lasciate accessibili dal cantiere, essi hanno potuto non solo prendere coscienza dei diversi problemi, e discutere, in situ, delle esigenze dei futuri fruitori, ma soprattutto scoprire il valore e le diverse qualità dello spazio interno.


Palais de Tokyo, sala esposizioni.

Una volta tanto ambiente e programma sono veramente cresciuti insieme. Tanto meglio se entrambi sono rimasti nel vago. L'intervento si è così configurato nel tempo come un adeguamento abitativo, come una grande ristrutturazione. Evitata ogni pesante demolizione supplementare, esso è consistito nella messa a norma di sicurezza, di conformità strutturale e di condizioni di accessibilità regolamentari di un edificio progressivamente abitato. Tutto si è giocato nel offrire un confort termico semplice, efficace e gradevole, delle condizioni di illuminazione adeguate, delle reti tecnologiche sufficienti. Lo scollamento tra immagine esterna e immagine interna dell'edificio è un esito rappresentativo del progetto. La struttura in cemento e le vetrature esistenti, svelate dai precedenti lavori, sono state lasciate a vista, mostrando come, dietro la facciata monumentale dell'edificio si nascondesse una pratica costruttiva modernista. Le altezze degli interni sono ridiventate ampie, le volumetrie apparse sorprendenti, la luce naturale onnipresente e generosa. Il tutto atto a consentire una grande libertà di utilizzo e fluidità di movimento nello spazio, rispondendo a quella accessibilità senza preclusioni richiesta dagli artisti. Complessivamente ne emerge un intervento ridotto e leggero, che trova riscontro nei precedenti edifici residenziali dei due architetti, come la maison Latapie Floirac o la maison a Cap Ferret. Esso esclude ogni riferimento al minimalismo, per esprimere piuttosto una dimensione antirappresentativa dell'architettura. Sbagliato sarebbe infatti interpretare i muri non intonacati, l'esposizione dell'armatura strutturale e gli impianti a vista come una scelta estetica di tendenza, come ad esempio hanno fatto i critici di Le Monde.


Palais de Tokyo, sala esposizioni.

(15) Nella loro realizzazione Lacaton e Vassal sono stati assistiti da: Jalil Amor, Emmanuelle Delage, Florian De Pous, Mathieu Laporte, David Pradel; e il bureau d'études techniques INGEROP.
Sbagliato anche interpretare l'insieme come uno status di necessità, una condizione di precarietà se non di "nullità" cui le generazioni presenti sarebbero costrette nel presente dalle politiche statali, come ha indicato l'Echo. Si tratta piuttosto del disinteressamento per alcuni elementi ritenuti non essenziali, la cui sistemazione avrebbe tolto risorse ad altri aspetti e indebolito la forza dell'edificio. Una forza che sta essenzialmente nel suo spazio interno. (16) Spazio, che afferma la rilevanza di mettere a disposizione delle vaste superfici praticabili, il bene più costoso nella città di Parigi!! In alcuni è nato il dubbio che i lavori di fondo siano lasciati così perché in futuro possa accadere qualcosa di diverso. Prospettiva interessante, purché non si legga l'edifico come un'architettura simbolicamente non finita, effimera, uno scenario da cantiere. Se c'è del non finito questo andrà invece rintracciato nella dimensione di un'offerta fatta alla trasformazione, all'appropriazione, alla convivialità, rendendo un vasto "open space" disponibile alle attività artistiche.

Saranno le azioni creative ed espositive a polarizzare, caratterizzare, delimitare di volta in volta degli ambiti articolando lo spazio messo a disposizione. Dei semplici interventi esterni (passerelle e scale di soccorso in metallo galvanizzato), intesi quasi come delle aggiunte smontabili, trattate in modo autonomo e nella maniera più semplice e evidente, intervengono a intaccare ulteriormente la monumentalità del luogo. Questo effetto di "trasparenza interna" raggiunto è qualcosa che radicalizza e porta alle estreme conseguenze quello che è in fondo resta lo stilema del architettura del centro culturale produttivo a Parigi dal Beaubourg: l'annullamento dell'involucro, che "si mette al servizio di quella funzione di iniziazione e di diffusione materiale che è la vocazione primaria del Centre Georges Poumpidou" (17). L'edificio si estende su circa 8000 m2, di cui la metà è destinata alle esposizioni e all'accoglimento del pubblico. All'entrata il grande Wall di 200 m2, dedicato ogni sei mesi dall'opera di un'artista diverso, accoglie i visitatori. Al piano terra l'unico vasto ambiente è illuminato dal lungo lucernaio della ex-galleria principale e dagli alti lucernai delle sale laterali più piccole. Al centro un ambito intermedio, coperto dalle travi in cemento che sostengono il piano superiore interamente occupato dal Pavillion pedagogico. Lo show case-auditorium prende posto in una delle sale laterali.

(16) Il progetto originario fu elaborato dagli architetti Aubert, Dondel, Viard, et Dastugu, vincitori del concorso del 1934, tra 128 progetti, tra i quali anche quelli di Mallet-Stevens e di Le Corbusier.
(17) C. Mollard, L’Enjeu du Centre George Pompidou, Editions 10.18, Paris, 1976.

Palais de Tokyo, interno.
Sotto lo scalone monumentale, uno spazio battezzato Le salon, dove ogni sei mesi un artista è inviato ad installarsi. (18) Fa da filtro al ristorante, Le stand, un concept store. Anch'esso di mese in mese sarà affidato a una rivista, un'associazione o a un collettivo di artisti diversi, offrendo pubblicazioni artistiche, selezioni di dischi, accessori per creatori. Infine il lungo bar-ristorante che prende luce dai finestroni che caratterizzano l'affaccio sull'avenue du President Wilson. È questo uno spazio che si vuole vitale, un prolungamento della programmazione espositiva, con 250 coperti e prezzi per tutte le tasche. Delle passerelle, che sormontano la bocca di lupo sistemata a giardino che separa l'edificio dal marciapiede, consentono un accesso diretto dall'esterno e una fruizione del locale anche indipendente dal centro culturale. Nessun parcheggio specifico è previsto, ma almeno un migliaio di metri quadri del plateau esterno saranno consacrati, nella buona stagione, al comptoir, alla libreria e al caffè-ristorante. Il contrasto con gli altri progetti del settore, o anche solo con gli edifici vicini è sorprendente. 

Assoluto quello con l'edificio vicino il Musée d'art moderne de la Ville de Paris, le sistemazioni del quale vanno sempre nel senso di una restituzione degli spazi originari. Che si tratti di due "attitudini" diverse è evidente, che ciò rimandi a due "politiche" diverse resta invece molto più ambiguo da giudicare. Per nostro conto ci pare che la vicenda qui narrata, con la sua marginalità, più che un'utopia o un antidoto, possa diventare un criterio di misura per valutare le deficienze delle iniziative italiane, da Rovereto a Prato, dalla Biennale alla Zisa. Al lettore non chiediamo di concederci fiducia, ma di falsificare il Palais de Tokyo, in loco, magari portando con sé il nostro racconto e chiedendosi forse, con Nietzsche, "in che cosa siamo ancora devoti?"

Roberto Zancan
zancan@iuav.it
(18) La Caisse des dépôts et consignations ha deciso inoltre di trasferire al Palais de Tokyo il proprio “module”, accettando di integrarsi in partnerariato con un contributo di 150 mila euro. Esso è diretto a produrre opere di giovani artisti, precedentemente esposte in una galleria appartenente alla stessa Caisse, sul quai Voltaire.
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