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Pare che il sonno dell'architetto generi mostri

di Francesca Pagnoncelli

 

. Lo scorso mercoledì 20 febbraio sulla "Terza pagina" del Corriere della Sera Sandro Veronesi ha firmato un articolo intitolato "Fuga dalla città prigione della mente". Nel suddetto articolo viene elaborata una critica all'architettura e all'urbanistica del XX secolo, da Le Corbusier in avanti, partendo dalle letture che dalla concezione che il cinema ha della città. Vengono prese in esame tre pellicole recenti, Matrix, Dark City, The Truman Show per affermare, forse in maniera eccessivamente sbrigativa, che esse testimoniano un punto di svolta nella storia delle tipologie urbane visualizzate dai grandi registi di Hollywood, che esse sono il segno tangibile dell'inizio dell'era delle Città mentali.

[08mar2002]
È indubbio che la cinematografia sia un prodotto della civiltà urbana, del pensiero metropolitano, ed è ovvio pensare che, narrando storie, il cinema le ambienti all'interno di spazi organizzati, quindi costruiti. Erroneamente Veronesi parla di mito del controllo come di un retaggio esclusivo della città moderna. La città è la forma più evoluta di una società organizzata, di una comunità che si preserva grazie a regole di convivenza civile; la città è la forma che si distingue dal caos della natura, è l'ordine razionale, la costruzione di un rifugio, l'imposizione di un centro, di un punto di riferimento nella vastità dell'universo. La città è di per sé un'utopia ed è un'utopia celeste poiché ha, dalla sua nascita, valenza metafisica, tenta cioè di riprodurre in terra il supposto ordine cosmico, con le sue valenze e variabili religiose. Le forme geometriche hanno da sempre valore simbolico in quanto intrappolano, nella loro regolarità, una perfezione ideale. Da sempre l'ordine urbano è un ordine innanzi tutto sociale ed economico, assicura cioè la sopravvivenza ed il sostentamento dei cittadini.

È un ordine imposto e controllato da pochi, è un ordine necessario ad individuare le devianza dei pochi che potrebbero mettere a rischio la sopravvivenza della comunità. La città è da sempre gerarchica, simbolica, e impositiva, traduce spazialmente un'organizzazione sociale. Per questo la critica urbana che spesso trapela dalle pellicole cinematografiche è innanzi tutto una critica sociale. Indubbiamente vi sono state delle epoche storiche in cui la necessità di una sicurezza sociale ha portato ad eccessi: l'Ottocento ha fatto di manicomi e prigioni le sue tipologie architettoniche universali, eliminando dalla realtà ogni minima devianza al vivere civile. È indubbio anche che le nuove utopie urbanistiche elaborate tra la fine del XIX e l'inizio del XX secolo fossero il tentativo di portare ordine in uno spazio metropolitano il cui sviluppo accelerato era sfuggito di mano. È indubbio anche che il perdurare di un pensiero tipologico per gran parte del XX secolo, e qui rientra Le Corbusier e il pensiero funzionalista cui Veronesi accennava: paradossalmente gli architetti moderni cadono nello stesso errore degli architetti dell'Ottocento, creano dei veri manuali di progettazione, distinguono l'architettura per tipologie ed individuano, per ciascuna, lo stile adatto, le forme, le distribuzioni dei locali, le dimensioni minime degli stessi, riprendendo quel concetto di tipologia e di composizione proprio della scuola ottocentesca di Durand.

In Italia, negli anni Trenta, gli architetti si affannano a redigere delle schede tipologiche per le diverse categorie di edifici: le scuole, le case del fascio, i padiglioni, le ville unifamiliari, bifamiliari, le case popolari. Sono teorizzazioni generiche, frutto di un'ansia di controllo della disciplina, della produzione architettonica, legata anche alla particolare situazione politica di contorno. Lo stesso si può dire per le megastrutture residenziali ideate negli anni '60 e battezzate recentemente da Stefano Boeri come i dinosauri di cemento (Il Sole 24 ORE, domenica 10 febbraio 2002). In generale si può rilevare come l'errore alla base sia lo stesso sia per i teorici dell'ottocento che per i funzionalismi del secolo scorso: i destinatari dell'architettura sono considerati come semplici quantità da distribuire e organizzare, come subitori di spazio, non come fruitori. Gli individui, sia per la filosofia positivista che per quella funzionalista, non sono altro che "macchine" che si muovono secondo certi criteri fissi, che hanno un determinato numero di esigenze ben determinabili: sono comparse, non attori, calcano la scena, senza esserne i protagonisti.

La radice del problema non sta tanto nelle manie di potenza e nei sogni di grandezza dell'urbanista e dell'architetto demiurgo ma nel pensiero sociale di una città, proprio nelle città mentali di cui parla Veronesi. La costruzione dello spazio riflette le dinamiche di potere, politico, economico e sociale; esse sono il frutto del valore che viene dato all'individuo inserito in un contesto prima umano che urbano, nella capacità di confronto e di accettazione del diverso, del nuovo, nel sapere prendere ogni contraddizione come potenziale crescita, in un pensiero universale che riconosca l'importanza di ogni singolo particolare che lo compone. Una visione panottica della natura umana, una tolleranza incondizionata, e una capacità di ascolto sono necessarie affinché una città, così come un'architettura, sia contenitore di vita. Proprio per questo motivo l'etica del fare architettonico ha una rilevanza ed una ricaduta non trascurabile, anche se, in una visione storica del problema, forse non cambierà mai niente…

Francesca Pagnoncelli
f.pagnoncelli@libero.it
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