home

Files

Autenticamente minimali

Carlotta Darò

 


Gilberto Zorio, Sedia, 1966.



Mario Merz, Igloo fibonacci, 1970.
Nel linguaggio dell'arte i poteri evocativi e comunicativi della materia sono stati ormai da tempo messi alla prova e la spregiudicata sperimentazione plastica ha sconvolto qualsiasi tradizionale gerarchia di valore. Tra gli anni '50 e '60, molti artisti hanno prodotto "opere d'arte" servendosi, alla maniera dei ready-made duchampiani, di elementi neutri, grezzi, strappati dalla loro peculiare natura funzionale e dal loro contesto d'origine: dall'industria o dall'officina al museo.

[24jul2002]
Accanto alla fragile tela o al prezioso marmo scolpito, entrano nel simposio dell'arte i sacchi di juta e la plastica bruciata di Burri, la latta schiacciata di Chamberlain, le colate di cemento di Uncini, il carbone e ferro battuto di Kounellis o ancora le filiformi strutture metalliche di Merz... Che il materiale da lavoro, l'utensile o l'oggetto "povero" abbia un grande fascino e potenziale estetico oggi, nel campo dell'arte, non stupisce più nessuno.

In architettura lo stesso processo sembra assai più delicato. Disciplina da sempre più rigida, l'architettura ufficiale, quella delle grandi committenze, mostra una lenta capacità a rivoluzionare metodi e linguaggi, probabilmente perché troppo legata a preoccupazioni concrete, a responsabilità immediate e a compromessi di varie nature. Eppure, poche sono oggi le persone che rimangono insensibili ai cantieri urbani, alle spettacolari impalcature che avvolgono o penetrano edifici di varie nature, alle gru e macchine di ogni genere, sofisticate e tecnologiche, che si stagliano elegantemente nell'orizzonte dei nostri cieli. I materiali da costruzione entrano progressivamente nel nostro immaginario e in quello degli architetti, si impongono discretamente nella nostra vita quotidiana ostentando grandi capacità di adattamento, leggerezza e flessibilità. Il riferimento alle tecnologie da cantiere diventa quindi sempre di più un linguaggio diffuso, fondandosi su presupposti estetici ma soprattutto concettuali.


Cedric Price, Generator, 1976.


LABFAC, trasporto e montaggio degli edifici provvisori per la scuola di architettura Paris-Malaquais, 2000.

LABFAC
, edifici provvisori per la scuola di architettura Paris-Malaquais sul sito della scuola delle Belle Arti.

Nel passato, soprattutto a livello teorico, personalità e movimenti dell'avanguardia architettonica, si sono interessati alle grandi potenzialità che offre un'architettura leggera e mobile, come quella legata all'industria della costruzione. Basti pensare alle glorificazioni delle macchine delle avanguardie futuriste e costruttiviste fino alle deliranti macrostrutture di Archigram, passando per i sistemi urbani di Cedric Price dall'obsoloscenza breve e programmata.

L'architettura si riduce all'osso, a dei sistemi di infrastrutture che permettono l'agevole fruizione di uno spazio. Tubi, fili, reti d'informazione, ascensori e circuiti di trasporto vengono messi deliberatamente in evidenza fino a diventare manifesti di un puro piacere formale, come nel caso di Beaubourg, vero tempio dell'estetizzazione delle infrastrutture in architettura.


LABFAC, casa per i servizi pubblici di Montfermeil, 2000.

Esiste oggi in Francia un fenomeno che, memori dei nostri passati artistici, potremmo definire "architettura povera". Tale fenomeno mostra, rispetto alla corrente dell'arte povera, un minor compiacimento dogmatico. Una generazione di architetti che, in sordina rispetto alle grandi "star" compatriote, porta avanti un interessante discorso sulla sperimentazione dei materiali. Senza farne un manifesto o un ricamo forzatamente "intellettuale", questi architetti lavorano sulla funzionalità, economia e flessibilità dei materiali prefabbricati. I loro interventi, spesso piuttosto minimali, sbocciano discretamente in vari contesti del territorio francese.

Una recente esposizione al Pavillon de l'Arsenal di Parigi (dicembre 2001) dedicata alle costruzioni in piccola scala, mostrava alcuni interventi di giovani architetti contemporanei quasi invisibili, spesso provvisori, che appaiono come una sorta di mobilio urbano o rurale, leggero e modulabile (ponti, piccole case, chioschi, verande, terrazze...). Spesso la scelta dei materiali da costruzione prefabbricati diventa la via più logica e funzionale per questo tipo di destinazione, ma questa posizione, nei casi più interessanti, nasce in realtà da una riflessione assai più generale sulla fruizione architettonica. Non si tratta del gusto per il povero o del "non finito" alla Gehry (degli anni '70) ma di una sofisticata razionalizzazione delle energie, delle forme, quindi dei materiali. Una sorta di posizione parallela allo sviluppo della ipertecnologia (quella dei blob e delle forme improbabili...).


LABFAC, teatro "Cornouaille" di Quimper, 1998.
Così, ad esempio, all'interno dello storico sito della scuola delle Belle Arti di Parigi, si trovano oggi degli edifici provvisori, costituiti di moduli prefabbricati, trasportati e sistemati dallo studio di Nicolas Michelin, per creare uno spazio utilizzabile, nell'arco di sei anni, dagli studenti della scuola. Come una pudica e leggera ancella dello storico edificio della scuola, questi locali provvisori rispondono ad un'esigenza semplice e urgente senza velleità stilistiche particolari.



Con la stessa delicatezza Nicolas Michelin, con Nicolas Boudier e Nicolas Moskwa (architetti associati) intervengono nella profonda periferia di Parigi, a Montfermeil, per creare un luogo di riunificazione di vari servizi pubblici del quartiere. Al piano terra di una imponenete torre di abitazioni costruiscono una leggera struttura luminosa, una sorta di "nuvola" fatta di pannelli di vetro armato, contenente i differenti uffici. E questo stesso atteggiamento quasi chirurgico si manifesta ancora nel progetto vincitore del concorso per il recupero della Halle aux Farine a Parigi, vecchio deposito di farina costruito negli anni '50 lungo la riva sinistra della Senna, che diventerà nel 2004 una nuova sede universitaria. Come chi costruisce il modellino di una barca dentro una bottiglia, Michelin conserva l'involucro esterno tagliando i piani e la struttura della circolazione interna. Un lavoro che crea spazio e luminosità mantenendo al massimo l'aspetto semplice e grezzo dell'edificio: suolo in cemento, muri prefabbricati, pannelli di vetro e sistema di circolazione dei flussi in evidenza.

Lo stesso tipo di atteggiamento, spesso economicamente vantaggioso per le commitenze, ha premiato il lavoro di Anne Lacaton & Jean-Philippe Vassal, di recente autori della conversione del Palais de Tokyo di Parigi in un centro di creazione contemporanea. Se ad un primo approccio può sembrare forzatamente "di tendenza" la scelta di proporre per un'istituzione culturale un quasi "non intervento" che accentua ostentatamente il carattere grezzo, la pura volumetria e luminosità dell'edificio come fosse un deposito industriale, dall'altra non si può non rimanere sbalorditi dal fascino di questa operazione. L'idea di fondo nel lavoro di Lacaton & Vassal è infatti quella di ottimizzare le energie e le risorse, intervenire sempre, eventualmente, solo dove è necessario. Utilizzando con semplicità e leggerezza tutti i tipi di materiali.


Lacaton&Vassal Palais de Tokyo, Parigi, 2002.


Lacaton & Vassal hanno assimilato un sistema di concezione essenziale e immediato durante un periodo di lavoro di cinque anni in Nigeria. La scoperta delle potenzialità degli edifici agricoli, delle serre prefabbricate o degli hangar hanno creato un nuovo orizzonte esplorativo nella loro produzione. Così, la loro prima casa "Lapatie", costruita nel 1993 con un budget di 68.630 euro, ha suscitato l'interesse di numerose altre modeste committenze private e pubbliche (come il dipartimento dell'arte dell'Università di Grenoble).


Lacaton & Vassal, casa "Lapatie", Bordeaux, 1993.


La posizione di questi architetti, autenticamente minimali, mostra una matura consapevolezza del loro lavoro. Sembra quasi una rivoluzione in corso: architetti che dichiarano la scelta di materiali prefabbricati, l'agilità e l'efficacia di tali produzioni permette loro di produrre un'architettura per brevi durate, per interventi provvisori, pronti a scomparire o a trasformarsi con l'evolvere dei tempi e delle necessità.


LABFAC, copertura per l'arena di Nîmes, 1989.
Architetti che non fremono dalla voglia di segnare la storia e firmare ogni centimetro della loro produzione: dalle fondamenta, al tetto, fino alla pentola. La dimensione temporanea entra a far parte del programma trasformando i criteri di scelta dei materiali. Emblematico è l'inizio stesso dell'attività di Michelin (allora col nome di LABFAC) che propone e realizza nel 1989 una struttura pneumatica per la copertura dell'arena di Nîmes. La struttura viene montata ciclamente ad ogni inverno. Questa posizione diventa ancora più chiara ed estrema quando si tratta di un programma assai più istituzionale come la scuola Nazionale di Arte Decorativa di Limoges. La scuola è una scatola, illuminata zenitalmente, contenente spazi variabili grazie a dei pannelli mobili e intercambiabili che permettono di trasformare la circolazione, modulare la luce e l'acustica. L'edificio propone un "punto di partenza" che gli utilizzatori devono interpretare.






LABFAC, scuola di arte decorativa di Limoges, 1994.





L'intervento architettonico diventa specifico a secondo del tipo di contesto e bisogno, estremamente logico e funzionale. La forma nasce quasi di conseguenza, come un teorema che si risolve. Su questi solidi e coerenti presupposti teorici nasce inevitabilmente un gioco di rimandi estetici e di sperimentazione da parte di altri giovani architetti francesi.




François Roche (R&Sie), Maison Barak, 2001.
Ad esempio la casa Barak, primo progetto realizzato di François Roche (R&Sie), cita formalmente questo tipo di estetica applicandola pertanto ad una sorta di esercizio virtuosistico del processo costruttivo. Così la rete agricola in questo caso serve a coprire una forma assai complessa e articolata costruita in puro cemento.

O ancora, questo linguaggio diventa un modo critico o ludico per analizzare metodi e forme tradizionali, come nel caso della casa "icône" di Anne-Françoise Jumeau e Louis Paillard (del gruppo Périphérique), costruita a Montreuil (nella periferia di Parigi). L'archetipo della "casetta individuale" è riproposto esattamente nelle forme: quattro mura e tetto a punta. I materiali invece cambiano e confondono l'osservatore: le facciate sono rivestite di pannelli di legno industriale verso il giardino e di griglia vegetale verso la strada. 

L'analisi sull'utilizzo di questi materiali sotto varie forme di appropriazione estetica o concettuale potrebbe portarci ad affrontare numerose delicate questioni dell'architettura contemporanea. Sarebbe forse opportuno, in un altro contesto, approfondire una ricerca nell'universo del "povero" dalle sue origini le più "sincere" (dal cantiere o l'industriale) al suo sviluppo più o meno consapevole verso utilizzazioni e interpretazioni assai più sofisticate.

Carlotta Darò
cardar76@hotmail.com

Anne-Françoise Jumeau e Louis Paillard (Périphérique), Maison Icône, Montreuil.

BIBLIOGRAFIA:

- Anne Lacaton e Jean-Philippe Vassal, Il fera beau demain, Institut Français d'Architecture-Carte Segrete, Parigi, 1995.
- Jac Fol (a cura di) Labfac, Finn Geipel, Nicolas Michelin, ed. Centre Georges Pompidou, Parigi, 1998.
- Labfac, L'Architecture d'Aujourd'hui, Parigi, 327, aprile, 2000.

> FILES

 

 

laboratorio
informa
scaffale
servizi
in rete


 







copyright © DADA Architetti Associati