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Pinguini (in attesa di un disgelo)

Domenico Cogliandro
Ci sono cose che voi umani non potreste nemmeno immaginare, la penna di Philip K. Dick, l'occhio di Ridley Scott, la voce di Rutger Hauer. Sono giorni che tento di buttar giù due righe su questa cosa, ma si ritrae, come l'onda sulla battigia, eppure non così rapida, più come la marea, lenta e silenziosa, ma periodica. Sono mesi che ci penso e la prospettiva delle parole sta al mio pensiero come una tabula rasa ai picchi frastagliati di una vallata degli Iblei. Terra chiana, è un'espressione mediterranea, che sta per pianura ma anche terra bruciata, che nasconde, la seconda, un doppio significato: terra riarsa, torrida, secca e terra martoriata, invasa, sconvolta. Le parole che mi frullano dentro rischiano di fare terra chiana, non solo attorno a me. E questo rischio mi pare debba essere giocato, nonostante ciò. Ora, io non ho la prosa stillicida di Ugo e nemmeno il politically correct di Marco, ma vorrei che la cosa scritta sembrasse detta tenendo in considerazione i due opposti, seppure emergente dalle mie parole. Non potreste nemmeno immaginare, si chiude un tempo dicendo il nulla che deve essere detto.

[14aug2002]
La mia inquietudine parte due anni fa, da un saggio di Pietro Rossi, apparso su Il Mulino. "L'irresistibile ascesa del cretino locale", a proposito dell'organizzazione localista dei concorsi universitari. Pietro Rossi non si limitava a fare un inventario delle deformazioni che l'ultima legge vigente sull'arruolamento poteva consentire, ma dava un resoconto delle precedenti condizioni che permettevano, o meno, l'assunzione in ruolo dei docenti universitari. Ricordo anche un pamphlet che fece scandalo qualche anno fa, uscito per i tipi di Laterza, titolato "L'università dei tre tradimenti", in cui l'argomento era molto simile. Non aggiungerò una virgola, renderò soltanto volgari i concetti. Mi pare un dato il fatto che i concorsi vengano svolti ad hoc, con precisi obbiettivi e una rosa dei papabili molto chiara, in maniera pregiudiziale rispetto alla lista dei partecipanti. Solo considerando una buona base d'ipocrisia credo si possa negare l'assunto, quindi è possibile farlo. Per cui mi muovo da questa indifendibile ipotesi per indicare una via, dato che la cosa ormai riguarda tutti i livelli dell'assunzione, non solo quella dei professori, dalle borse di studio ai dottorati di ricerca. Ci sono i prescelti, il resto è pallottoliere, numeri che possono essere riutilizzati alla prossima estrazione e che fanno bella mostra di sé, diciamo pure tappezzeria, perché non ancora nelle grazie del referente di turno o perché ultimi arrivati in una certa, imprescindibile, scala di valori, o ancora perché fuoriusciti, dissidenti, indesiderati.

Ecco cosa, il desiderio è importante. È ovvio che si preferisce continuare a lavorare con chi, martire indefesso, ha continuato a collaborare con una persona o un gruppo, in maniera costante e soprattutto senza distrarsi. È ovvio che anch'io preferirei lavorare con una persona che ammiro, o che rispetto, di cui comprendo le capacità e per la quale intendo investire tempo e denaro. Il desiderio è umano, anzi forse proprio il motore delle cose che facciamo. Facciamo le cose che desideriamo fare. O meglio, lavoriamo per fare in modo che le cose che desideriamo fare coincidano con valori che riteniamo imprescindibili. Alcune volte l'impeto si affievolisce, altre s'inarca fino a diventare parossismo. Ma il contenuto rimane il medesimo. Siamo dove stiamo per scelta e in parte per caso, nell'equilibrio tra le variabili che dipendono dai fattori indicati siamo capaci, come un pinguino di una folta colonia, a ritagliarci i nostri spazi. E ad individuare esattamente la nostra collocazione, nonostante il gran casino di urla e di spostamenti che propone una colonia.

Una colonia ha una gerarchia, come in tutto il mondo animale, per quel che mi è dato conoscere; c'è sempre uno che fa la voce grossa, uno che non si spaventa della voce grossa e affronta il boss (e le prende di santa ragione), un altro che non si spaventa ma manda un altro ad offendere il capo, una serie di personaggi che non sanno da che parte stare, tra il capo e gli sfidanti, il resto del branco e i pazzi, quelli che sanno da che parte stare, la loro, e non si curano delle beghe tra le fazioni in lotta. La geografia politica della colonia, pur ammettendo articolate sfumature complesse da verificare, è tutta qui. Il testo di Rossi volteggiava tra i silenzi e gli stridii dei pinguini. Ci si faccia caso, discosti, osservando da lontano il circo della natura polare, le cose stanno così. Chi ha la responsabilità della colonia decide anche che strada intraprendere, per il bene di tutti, e a chi affidare il temporaneo comando delle operazioni, o a chi affidare un ruolo preminente nel gioco delle parti, nella speranza, domani, di essere gratificato da queste scelte.

La perversione non è questa, questo è il gioco dei ruoli; tutto sommato questo è quello che ci si deve attendere da una struttura gerarchica, per cui la normalità, in un meccanismo terribile seppur comprensibile, e non so quanto condivisibile. Le cose stanno così. La perversione è quello che tradizionalmente viene identificato come "concorso", una prova in cui tutti, inconfutabilmente, dovrebbero partire dalla medesima posizione, e in virtù di questo pareggiamento della sorte, difendere il proprio ruolo o dimostrare fino a che punto si è capaci di portare avanti un progetto di futuro. Il "concorso" dovrebbe essere una circostanza favorevole, in maniera paritaria, a tutti. Non è così. Non il concorso per l'arruolamento dei docenti universitari e per tutta una certa sfera di collaborazioni differenti, attinenti alla ricerca. Almeno non i concorsi in cui s'è perduta definitivamente la condizione statutaria che individua le università.

Universum e locus sono termini che consentono di individuare specificità diverse legate alla collocazione spaziale secondo precise coordinate, il primo è aperto ad una condizione globale, universale appunto; il secondo indica una spazialità discreta, scelta, controllata, ristretta ad un ambito le cui coordinate sono facilmente esperibili. Gli stessi termini sono radici di universitas e localitas che, lo si comprende dal nome stesso, precisano ambiti di interessi differenti, a scale differenti, e secondo modalità che comprendono un maggiore o minore numero di entità interessate. Oggi le università sono diventate località, assumendo come elemento imprescindibile proprio questa contraddizione terminologica, in cui le autonomie gestionali, e dunque la capacità aziendale di promuoversi e autofinanziarsi, si rivolgono sempre più ad un ambito locale, trasgredendo proprio la possibilità evolutiva data dal loro essere universali. Ristretti i compiti, si sono ridimensionati gli obbiettivi e, in conseguenza di ciò, i poteri di gestione e di controllo della qualità complessiva. Si sono ristrette le focali, i punti di osservazione, e tutto è diventato piccolo. Ma tutto cosa?

Ha scritto Theodor W. Adorno: "La pagliuzza nel tuo occhio è la migliore lente d'ingrandimento". È una specie di lotta di quartiere, trasfigurata in lotteria di quartiere. Le aree disciplinari, ad esempio, che dovrebbero consentire una collocazione chiara degli individui, in realtà affievoliscono ulteriormente la concezione universalistica della scuola. E intorbidano le acque, provocando solo un gioco di ruolo che non è culturale ma di potere nudo e crudo. Le aree sono una maniera elegante per fare irretire le intelligenze e permettere ai signori "mi si consenta", di acquisire un potere che oltrepassa le loro possibilità, generando mostri. Le aree disciplinari ospitano solo puri di cuore e di fede unilaterale, per cui l'architetto che si occupa di storia, ad esempio, per statuto, o per ruolo, non può permettersi di progettare; chi si occupa di tecnologia dei materiali da costruzione non dovrebbe sconfinare negli impetuosi mari della gnoseologia; chi è progettista paesaggista non dovrebbe infiltrarsi nel campo della rappresentazione, per sostenere che il disegno a mano libera, la butto lì, è di gran lunga più significativo di uno scenario a controllo numerico. L'ingessatura disciplinare ha come conseguenza l'irrigidimento politico dei concorsi, ogni concorso ha i suoi partecipanti, i puri di cuore appunto, le sue vittime e i suoi eroi predestinati.

Dovremmo smettere i panni dell'ipocrisia strutturale e sostenere una strada meno istituzionale ma più coraggiosa, magari confinante con una meritocrazia ante litteram, ma che dia all'istituto del concorso una spallata, o una maggiore chiarezza. Se si tiene in considerazione lo status dei partecipanti, per esempio, ci si dovrebbe affidare maggiormente alle capacità intuitive, non paranormali quanto invece qualitativo-culturali, dei professori di ruolo che hanno in mano le sorti dell'arruolamento, in maniera da far prendere loro la responsabilità, corredata da una serie di motivazioni chiare, trasparenti, controllabili, di assumere in maniera diretta determinate persone, le stesse che vincerebbero comunque i concorsi, in maniera da spazzare il campo dai dubbi sulle scelte politiche e sull'affidabilità di certe individualità e non altre. Con tutte le conseguenze del caso, diciamo una specie di responsabilità civile nei confronti della scuola e degli allievi, da prendere in virtù della riuscita di tale politica. La nomina diretta spazzerebbe il campo da certa ipocrisia ormai radicata, ed eviterebbe di sprecare tempi e denari a commissioni e candidati. È uno scenario sui generis, questo, lo ammetto, non contemplato tra quelli possibili. E forse nemmeno questo. Sembrerebbe più una soddisfazione personale, di alcuni, per comprendere di che pasta sono fatti i docenti e i loro delfini, o pinguini.

Una possibilità di parlare ancora una lingua comprensibile, scrivo io. Nelle operazioni critiche, progettuali, metadisciplinari, i docenti universitari in ruolo sembrano numi tutelari di scelte, anche impopolari, che ne individuano le capacità professionali e gli indirizzi di ricerca in maniera abbastanza limpida. Non appena il consesso si restringe per individuare alcuni anziché altri esserini fuori ruolo, in attesa di diventare dipendenti statali di enti con bilancio autonomo, cambia il panorama delle collocazioni politiche dell'uno o dell'altro professionista che, in altri settori, più specifici e più operativi paiono fatti di altra pasta. Ora, io stesso modulo il linguaggio in funzione del mio interlocutore, come dire, cambio argomento quando capisco che chi mi sta davanti non è affatto interessato a ciò che dico, ma essere ondivago al punto di cambiare anche modo di pensare e di riferirsi a concetti e statuti mi pare piuttosto curioso. È vero, mi pare di averlo sentito dire a Marco Paolini, che un Paese che ha fatto del trasformismo la sua caratteristica principale non ha remore a cambiare prosa e dialetto se cambia la lingua, io trovo il presente già intriso di questo vizio di forma. Per cambiare qualcosa, bisognerà opporre scenari a scenari. In questo senso vorrei si leggesse questa marea di parole, che s'erge e s'acquieta: sollevare un dibattito, peraltro chiaro ma non affrontato, può servire a chiarirci meglio in che modo e in che mondo si andrà ad operare, con chi e contro chi, verso quali obbiettivi.

La maniera più utilizzata per rispondere ad una richiesta del genere è quella, e così apro e chiudo uno scenario, di non parlarne affatto, di tacerla, di lasciarla perduta nel suo silenzio, voce tra le voci, nemmeno tanto originale, anzi pure un po' scocciante, scritta per astio, parrebbe, anziché per reale tentativo di dipanare un problema. Questo, diciamo, l'argomento principe per evitare di sollevare un ginepraio su una questione così sottile e, al tempo stesso, così elementare. Gli scenari non sono basati su ipotesi astruse e irrealizzabili, magari in parte utopici lo sono, ma sono frutto di una utopia politica, legata agli intenti piuttosto che alla forma; gli scenari, per essere fattivi, hanno bisogno estremo di essere collocabili in luoghi, cioè di avere un panorama dietro le fallaci e corrette possibilità di realizzarsi, la cui identità non vada riservata solo ai pochi capaci di leggere tra le righe l'eventualità di un cambiamento. Gli scenari individuati da Giovanni Paolo II, da Michail Gorbacev, da certa politica internazionale intorno alla caduta del muro di Berlino, sono stati compresi da fasce enormi di popolazione, gli stessi che si sono riversati per strada senza timore d'essere puntati e colpiti dai cecchini della Berlino Est. Sarei un folle ad immaginarmi scenari così palesi (peraltro, il paragone non credo regga) ma lo sforzo di pensare ad un livello di evidenze e di civiltà maggiore, da parte di tutti, esaminati ed esaminandi, nella periferia tematica che sono le università porterebbe ad una maggiore comprensione del livello di qualità che il mondo accademico intende raggiungere, e quindi, in funzione di ciò, capire in quale ipotesi di futuro andare a collocare le generazioni di studiosi e di professionisti, di cultori e di ricercatori a venire.

Domenico Cogliandro
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