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The end of modernism. Nove domande a Hrvoje Njiric

Giovanni Corbellini
[in english]

[01dec2002]
GIOVANNI CORBELLINI. Il tuo manifesto, The end of modernism, si presenta come una sorta di inventario di questioni, obiettivi, immagini, slogan sensazioni e quant'altro attraversa l'architettura contemporanea, o almeno quella parte di essa che si mette in discussione, che sperimenta nuove strade e che cerca di guardare oltre alla crisi del pensiero architettonico e delle sue effettive possibilità di incidere sulla realtà. Il panorama che proponi appare affollato e contraddittorio, pieno di possibili aperture e di necessarie mutazioni che meritano qualche approfondimento.

HRVOJE NJIRIC. È affollato e contraddittorio, certo, ma non più di quanto lo sia il mondo contemporaneo. Prendi, per esempio, la questione del paesaggio. Sotto l'etichetta delle operazioni territoriali emerge una quantità di equivoci e interpretazioni molto superficiali. Intere comitive di architetti ci si sono buttate con grande facilità: manipolando l'area dividendola in fasce, piegando ciascuna di esse in modo differente, inserendo qualche funzione negli interstizi e piantandoci sopra del verde. Guarda invece come Robert Smithson e altri artisti affrontano in modo molto più sofisticato e complesso il nostro intorno. Lo stesso problema si presenta con le infrastrutture e l'ecologia. Se vogliamo approfondire tali questioni dobbiamo assolutamente guardare oltre i nostri confini disciplinari ed evitare di riprodurre in eterno le pagine delle nostra riviste patinate. È possibile trovare punti di partenza praticamente ovunque. Un guru austriaco del turismo ha detto che nessun manager del settore può fare a meno di guardare Mtv per almeno un paio d'ore al giorno!

The supermodern architect interprets the present tense.
Venti anni fa i Sex Pistols urlavano "No future!", Venturi imparava da Las Vegas, Paolo Portoghesi, insieme a tanti altri, sdoganava l'architettura di "facciata" e, soprattutto, gli stili, l'ornamento ecc. Il tuo atteggiamento verso la fine del modernismo appare oggi più ottimista: non si rivolge al passato, non teme il futuro, vive tutto nel tempo presente. Una condizione che pare ai limiti del pensabile per una disciplina come l'architettura legata all'idea di firmitas, all'autorità dei maestri e all'aspirazione di una durata eterna. Pensi che sia possibile una "architettura istantanea"?

Se osservi come funziona la nostra società dei consumi, appare ovvio che persino le case non possano evitare di essere classificate come beni di consumo o merci. Una soluzione "istantanea" è già richiesta. Ciò nonostante, se guardiamo alla nostra professione come azione culturale, c'è ancora spazio per aggiungere valore (Iva). È questo che io interpreto come responsabilità professionale. Il problema non è quanto duri un "prodotto". Esso passa continuamente da uno stato a un altro: all'inizio è un'architettura di carta, poi viene esperito come presenza fisica e, infine, diventa memoria, espressa in numeri di pagine, megabytes o, semplicemente, nel nostro ricordo. Il grattacielo proposto da Adolf Loos per il concorso del Chicago Tribune è un esempio di questa reazione istantanea, profondamente radicata nello specifico momento della sua apparizione e presente ancora oggi come fatto culturale.

The end of aesthetics.
Un'altra fine proclamata nel manifesto è quella dell'estetica. Ci credi sul serio? La Biennale di Venezia curata da Fuksas, a dispetto del titolo "Less Aesthetics. More Ethics", è stata un trionfo del formalismo. D'altra parte il lavoro degli architetti, soprattutto dei più avveduti, si concentra sempre di più nel processare immagini, e le icone del tuo manifesto sono, a questo riguardo, particolarmente eloquenti…

La fine dell'estetica va interpretata in termini relativi, in riferimento alle esagerazioni attuali che spaziano dalla produzione di immagini all'apparenza complessiva della massa costruita. È esattamente quello che stai dicendo anche tu. L'estetica va poi affrontata come una questione più complessa. Gli artisti contemporanei ci mostrano che l'estetica non ha più niente a che fare con la bellezza, ma con uno specifico discorso intellettuale. Come si potrebbe capire altrimenti il lavoro di un Damien Hirst? La Fiat Multipla testimonia peraltro una posizione ulteriore: estetica del brutto nel suo pieno diritto.

A shift towards non-authorship.
Nonostante lo star system architettonico sia duro a morire, la "fine dell'autore" sembra nell'ordine delle cose. La necessità del lavoro interdisciplinare e la sua crescente complessità mettono in secondo piano la figura dell'architetto demiurgo. È interessante però capire se la preparazione attuale dell'architetto, un miscuglio di saperi scientifici, umanistici, abilità manuale e attitudini da venditore, gli consenta ancora un ruolo centrale, realmente decisivo, o se invece si trovi a coordinare poteri maggiori del suo, finendo in un ruolo di "front man" che può essere gratificante ma di scarsa influenza reale.

Sono d'accordo. Il lavoro in gruppo è necessario. Quello che cercavamo di suggerire era anche la possibilità di ottenere una espressione architettonica originale a partire dalla combinazione e dall'aggiornamento dell'esistente, anziché dall'invenzione del completamente nuovo. Quando Koolhaas incurva il padiglione di Barcellona come stand espositivo dell'Oma alla Triennale di Milano propone un approccio nel quale l'autore fa un passo indietro e ripercorre creativamente il "bene comune". Sottolinea inoltre la validità dei principi compositivi basati su ready-mades come lascito del ventesimo secolo ancora oggi vitale.

Termination of urban planning.
Che l'approccio pianificatorio sia in crisi non saprei dire. A me pare che molte istanze tipicamente urbanistiche abbiano ibridato (positivamente) il progetto contemporaneo, introducendo una sorta di principio di realtà particolarmente necessario.


Se la pianificazione urbana ha lo scopo di predire il corso della crescita, difficilmente può considerare la new economy come una base affidabile. Spesso, infatti, non si riescono a prevedere neanche le più drammatiche oscillazioni dei mercati. Nel caso dell'Europa orientale ex comunista, in termini di globalizzazione, le attuali tendenze neocolonialiste da un lato e la nascita di nuove democrazie dall'altro costituiscono scenari troppo vaghi sui quali poter contare. Tutto ciò obbliga all'ideazione di nuove strategie ad alta flessibilità, dotate di intrinseca capacità autoorganizzativa e adattativa. È necessario imparare a tenere testa a (o meglio, ad andare d'accordo con) le più brutali richieste degli investitori stranieri che trattano i paesi in transizione democratica come terzo mondo.

It was the author who produced the object, it is the interdisciplinary that defines the process.
Il passaggio dalla produzione di oggetti alla organizzazione di processi è uno dei più interessanti e delicati dell'architettura contemporanea. Alcuni sembrano dissolvere nel processo ogni intenzione di controllo morfologico sugli esiti. Altri viceversa lo accettano come una strategia difensiva che consenta comunque un approccio "architettonico" alla trasformazione dell'ambiente, alla sua comprensibilità in termini di forma. Qual è la tua strada?

Non trovo che questi approcci siano così contrastanti. E non penso che il processo sia necessariamente una minaccia per la sostanza dell'architettura, né che una pratica orientata all'oggetto sia per forza sbagliata. In ogni caso, la prima opzione, se concepita in maniera sufficientemente onesta, offre maggiore libertà e risultati corretti dal punti di vista urbano

Client-oriented reprogramming will be appreciated as a reliable strategy.
Una strategia orientata ai bisogni del cliente costituisce una vera inversione di tendenza rispetto al moderno. Rimane il dubbio che i clienti siano interessati alla qualità architettonica o, in altre parole, se si può dimostrare loro che un buon progetto si traduce in un vantaggio immediato in termini commerciali.

Non credo che si possa convincere gli investitori parlando il linguaggio degli architetti. Io cerco di insegnare ai miei studenti di sviluppare (almeno) una doppia maniera di esprimere se stessi quando si parla di una stessa cosa. Il linguaggio "A" per l'ambiente accademico, il linguaggio "B" per il mercato. Bisogna essere decisi a proposito dell'efficienza in architettura, qualcosa che può essere espressa in fatti e figure. La questione della riprogrammazione della disciplina indirizza la professione verso l'impegno alla partecipazione nello sviluppo critico di programmi impliciti. È una convinzione che gli architetti non debbano occuparsi solo della conformazione dell'ambiente fisico, ma anche di molti altri aspetti immateriali.

"Faith in fakes".
La fede nel falso ha oggi innumerevoli adepti, primi fra tutti i postmoderni impegnati nell'imitazione di stili, forme e materiali. E in effetti funziona, ormai tutto ciò che ci circonda è in varia misura "taroccato". Tuttavia, da una parte ci sono le tette al silicone e i Rolex fabbricati a Napoli, dall'altra, più onesti e digeribili, le pellicce "ecologiche" o i capelli blu elettrico di qualche rocker. Pensi che ci sia spazio per un nuovo moralismo loosiano, una sorta di "fake pride" che dica che il falso buono è quello apertamente riconoscibile?

Quando parlo di falsi mi riferisco all'interpretazione avanzata da Umberto Eco nel suo libro Travels in Hyperreality. Non si tratta di usare materiali "falsi" o a buon mercato, ma di trattare concetti interrelati con l'"originale" in una certa maniera.

Mixing corporate brands and shaping of consumers' culture.
Logo o no logo? Come superare il paradosso che ci vede, come operatori dell'immagine, affascinati dalla capacità di penetrazione dei marchi commerciali e della loro aura così pop e, come cittadini, assolutamente scandalizzati dalle storture economiche e sociali derivate dalla globalizzazione gestita dalle multinazionali?

Non siamo nella posizione di risolvere alcunché. Siamo (solo) architetti e possiamo interpretare le circostanze e, eventualmente, dare loro forma in una qualche maniera differente dagli standard commerciali. Parlando in generale, gli architetti devono finalmente rendersi conto dei limiti della loro influenza. Prima acquistiamo dimestichezza con le opportunità forniteci dai nostri strumenti specifici e meglio è.

Giovanni Corbellini
giovcorb@iol.it
Ringraziamo Adriano Venudo e Simone Zoia per la preziosa collaborazione.
 
 

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