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New Territories.
Intervista a Bernardo Secchi e Paola Viganò

Alessandro Petti
In occasione della mostra New Territories, svoltasi allo IUAV di Venezia nell'ambito del dottorato in Urbanistica coordinato da Bernardo Secchi e chiusa lo scorso 9 dicembre a valle di un intenso programma di seminari e di proiezioni cinematografiche, Alessandro Petti ha intervistato a Bernardo Secchi e Paola Viganò.




ALESSANDRO PETTI. Vorrei iniziare l'intervista parlando subito dei contenuti della mostra New Territories.

BERNARDO SECCHI. Il tentativo che abbiamo fatto e che stiamo facendo con New Territories è quello di andare oltre il sampling. Ciò implica in primo luogo che si riconosca l'importanza della lunga e fertile fase di ripresa della descrizione della città e del territorio tra gli inizi degli anni Ottanta e per tutti gli anni Novanta; una fase che ci ha fatto vedere molte cose che sfuggivano ad occhi rivolti altrove. Ciò implica, ad esempio, che si riconosca l'importanza di una mostra come USE: una mostra che utilizzando largamente la tecnica del sampling ci ha restituito l'insieme di differenze, di mescolanze, di situazioni che non sapevamo e tutt'ora non sappiamo completamente maneggiare.

Quando però si moltiplicano i casi studio bisogna stare attenti a non suggerire la conclusione che tutto è specifico, tutto è diverso, che non è possibile dire alcunché di generale. In questa posizione, molto prossima al relativismo assoluto, si infilano facilmente altre politiche, altre ideologie, altri strumenti di governo della società; altri nel senso di diversi od opposti alle intenzioni del ricercatore che quegli stessi casi ha proposto. A partire dunque dagli anni '80 abbiamo preso nuovamente contatto col mondo reale, quello che si muove con le pratiche sociali e con i modi nei quali esse si svolgono; abbiamo scoperto nuovi soggetti ed la loro insospettata articolazione. Senza mai stancarci di rimanere legati all'esperienza delle cose stesse abbiamo capito che l'Europa ed il mondo sono colmi di situazioni tra loro molto differenti e nel tempo molto cangianti. Ora possiamo forse avanzare alcune ipotesi in termini di costruzione di una politica per la città ed il territorio.

[15dec2002]
Ad esempio, io penso sia sbagliato pensare ad una politica europea ad una politica degli stati nazione, a una politica dei comuni come politiche poste su tre piani diversi tra loro gerarchicamente ordinati. Più interessante è pensare politiche che scelgano ciascuna il proprio territorio, sia in senso fisico che in senso metaforico. Ciascuna delle quali stabilisca i propri limiti e confini. Si tratta ovviamente di un aspetto che riesco per ora solo ad intuire, ma del realismo del quale sono del tutto certo. È questa idea che ci ha portato a ragionare di scenari.


Scenari. Questa immagine e tutte le successive sono tratte da x-treme europe. scenarios for european city and territory.

Quando ragioniamo del futuro siamo dominati dall'incertezza e dall'imprevedibilità. In realtà non facciamo altro che pensare al futuro. Forse iniziare a ragionare su possibili scenari intesi come esito o anche solo come punto di fuga di possibili politiche che abbiano al proprio centro il confronto tra culture e soggetti differenti è un punto oggi assolutamente importante. Rimuovere questo aspetto credo sia colpevole. Dico questo non tanto o non solo come urbanista, ma da un punto di vista più ampio.


Cerco di essere più chiaro: mi sembra che in questo momento l'Europa e l'occidente stiano dicendo poco, che alla loro grande forza tecnologica, corrisponda una grande debolezza culturale. Fino agli anni Settanta il mondo occidentale, in contrapposizione a quanto si temeva avvenisse dall'altra parte del muro, ha sospinto uno stupefacente progresso tecnologico. Il mondo occidentale non si è ancora accorto che gran parte di questo progresso, come gran parte delle politiche del welfare che hanno connotato i "trenta gloriosi", sono nati entro questa competizione; una competizione che non si è risolta unicamente in termini militari e diplomatici. Come non è più apparso necessario dare una risposta a ciò che stava o si supponeva stesse al di là del muro, si è scoperto che il re era nudo e se ne è scoperta anche la responsabilità. Per questo ci stiamo creando nemici immaginari; per questo abbiamo ancora bisogno di un al di qui e di un al di là.

ALESSANDRO PETTI. Non crede che proprio questa debolezza cronica dell'Europa è interpretabile come un modello che in questo momento si contrappone ad un modello forte, qualcuno direbbe un modello di natura imperiale degli Stati Uniti d'America? Forse può servire come esempio l'immigrazione e di come il modello europeo negozi i suoi confini con un continuo allargamento verso l'est. Certo con mille contraddizioni al proprio interno, ma che comunque sembra essere di natura diversa dal modello fortezza americano.

BERNARDO SECCHI. Potrebbe essere un modello diverso, spero che con il tempo lo diventi e che abbia la forza di contrapporsi al modello che ci viene proposto dagli Stati Uniti. Dobbiamo però tenere conto di alcune cose. L'immigrazione in Europa avviene in condizioni assolutamente diverse da quelle che hanno connotato i flussi verso gli Stati Uniti. Le persone che giungono in Europa sono estremamente più consapevoli dei loro diritti. L'immigrato che giunge, regolarmente o meno, in Europa, da qualsiasi parte del mondo provenga, è già un cittadino; un cittadino con una propria cultura. L'allargamento verso est dell'Europa è, ad esempio, allargamento verso una regione i cui abitanti sono consapevoli del loro diritto di cittadinanza, che hanno nel tempo sviluppato una serie di attese, andate poi parzialmente deluse, nei confronti del welfare state. Non voglio ovviamente nascondere le molte contraddizioni di questi fenomeni, ma se l'Europa si dimostrerà, ed è qui che vedo la centralità della politica urbana, in grado di gestire questa molteplicità di percorsi verso un maggior benessere e verso una maggior libertà individuale, riuscirà anche a costruire un modello diverso dagli Stati Uniti.



La vera difficoltà di questo modello è però che esso è perennemente in contraddizione con se stesso. Faccio un esempio portandomi su un terreno più strettamente politico e vicino a noi. Tutti hanno notato quanta difficoltà abbiano gli schieramenti di sinistra in Europa nel trovare una compattezza, un accordo ed una disciplina interna. Ora questo aspetto, questa difficoltà è intrinseca all'ideologia della nuova sinistra, un'ideologia che accetta come proprio elemento costitutivo la diversità e la molteplicità. Il modello europeo di cui stiamo parlando, riuscire cioè a costruire un luogo ove la differenza abbia diritto di cittadinanza, è un modello intimamente forte e debole allo stesso tempo proprio perché contiene, se mi è consentito ciò che può apparire un gioco di parole, questa forza della auto-contraddizione. Il campo sperimentale in cui questo modello può essere messo a punto, sperimentato e corretto, è proprio quello offerto dalla città, in tutte le sue dimensioni fisiche e di pratiche sociali.


Sono totalmente d'accordo con Stefano Boeri quando chiede di abbassare i toni della retorica del progetto, una retorica che spesso si appoggia sul vuoto autoreferenziale. Sono però anche dell'idea che ogni nostro discorso debba sfociare o cercare di sfociare in azioni concrete, la concretezza essendo ovviamente rappresentata non solo entro relazioni spaziali, ma anche entro rapporti economici e sociali. Noi vorremmo che questa mostra diventasse appunto un luogo ove studiare questi temi. Ma forse Paola ha qualcosa di diverso da dire.

PAOLA VIGANÒ: Sì, credo sia importante partire ancora da USE segnalando una continuità con quello che è stato fatto: non siamo delle monadi; ci si ascolta e si impara l'uno dall'altro. A me sembra interessante mantenere questa successione come qualcosa che potrebbe diventare essa stessa tema di riflessione. Rispetto a USE, il punto per me importante che ho posto a Stefano Boeri più volte, forse senza che mai ci capissimo del tutto, riguarda la necessità di prendere alcune posizioni; il che non vuol dire giudicare le differenti situazioni, ma organizzare strumenti critici che ci consentano di uscire da idee autoguidate ed ideologicamente molto caricate.



Per esempio, le idee relative alla dispersione. La posizione che si è affermata in Europa in questi anni parte da e costruisce un giudizio fortemente negativo nei confronti della dispersione. Un giudizio in genere argomentato con questioni attinenti la sostenibilità ambientale, come se la questione ecologica potesse di fatto chiudere il cerchio consentendoci di evitare di confrontarci con più specifiche situazioni. Insoddisfatti di un giudizio semplificato come questo, che ha conseguenze enormi (dai progetti che vengono predisposti alle politiche seguite), noi proponiamo una posizione diversa: prima di dire che la dispersione è un male proviamo a descrivere alcune situazioni. Questo è il nostro punto di entrata: osservare alcune situazioni della dispersione per poter poi prendere posizione nei confronti dei territori della dispersione nelle diverse situazioni.

ALESSANDRO PETTI. Questa è la prima parte della mostra il cui titolo è 50kmx50km…

PAOLA VIGANÒ. Si, questa prima parte è ancora, da un certo punto di vista, una campionatura.

ALESSANDRO PETTI. Lo strumento della campionatura è quindi un altro aspetto che accomuna New territories e USE, la ricerca fatta per indizi, per "carotaggi" sul territorio.

PAOLA VIGANÒ. Certo, la campionatura non ha la pretesa di essere esaustiva, né di aver selezionato i casi più rilevanti, anche se l'avere nella mostra il caso delle Fiandre, del Veneto, dell'area pescarese o salentina, casi assolutamente differenti al centro dell'Europa e ai suoi margini, ci porta a dire che abbiamo esplorato una discreta varietà di territori nei quali il fenomeno della dispersione è osservabile con una certa chiarezza.



Il punto di partenza è dunque quello che riguarda la dispersione. Essa viene proposta anche come chiave d'entrata alla condizione contemporanea, come un modo di ragionare di una contemporaneità fatta non solo di dispersione di oggetti, case, capannoni, ma anche di pratiche, di soggetti, di nostri movimenti e così via. È un punto di ingresso non solo ad alcuni territori e ad alcuni temi più legati all'architettura e all'urbanistica, ma anche ad un aspetto che consideriamo centrale per comprendere la contemporaneità: la dispersione che ci attraversa.

Partendo da questo primo punto, riavvicinandoci a ciò che noi siamo, architetti urbanisti, ci siamo chiesti quali progetti siano stati predisposti per la dispersione. Trovando subito moltissime difficoltà perché se davvero cerchiamo di organizzare un archivio, di selezionare i tentativi compiuti, ci troviamo immediatamente di fronte posizioni molto ambigue e non sempre interessanti.


Pochi i tentativi di partire effettivamente dalla condizione della città diffusa e del territorio disperso, di incrociare le sue condizioni sociali, economiche, fisiche e spaziali ed invece quasi sempre un tentativo di modificare in modo astratto queste stesse situazioni quasi inserendovi dall'esterno un prodotto già confezionato. Questa selezione di casi, l'archivio in corso di formazione, ci porta a ripercorrere le molte difficoltà incontrate da architetti e urbanisti nell'affrontare questi temi.



Eppure i temi che emergono sono tutti assai interessanti: riguardano la densità, la grana, l'isotropia, ma anche le reazioni alla dispersione che portano a parlare, à la Lefebvre, di droit à la ville. Sullo sfondo rimane però il grande imbarazzo che ha segnato il progetto nella dispersione nel corso di questi ultimi anni. In realtà solo pochi hanno cercato di utilizzare l'esperienza di questi territori, le diversità le differenze che essi ci proponevano rispetto ai territori urbani consolidati, facendole diventare oggetto specifico del progetto, uscendo da schemi pensati entro la città; uno sforzo che ritengo sia ancora all'inizio. Da questo punto di vista la ricerca progettuale è ancora tutta da costruire, non è affatto un tema esplorato. La cosa importante che sia i progetti che le situazioni mettono in evidenza, è che il territorio, più che la città, è oggi al centro della nostra riflessione: una forma più estesa di insediamento che, in passato, abbiamo nominato in modi diversi. Il centro del progetto diviene un territorio intero attraversato ed utilizzato. Da questo punto di vista il progetto è molto sguarnito: non è solo un problema di scale, o non solo.


È, ad esempio, un problema fondamentalmente relativo al tipo di infrastruttura. Come pensiamo che la città contemporanea o il territorio contemporaneo possa essere infrastrutturato e quali differenze queste infrastrutture costruiranno rispetto a quelle pensate per la città consolidata. Infrastrutture sociali, infrastrutture della mobilità, infrastrutture in senso allargato, infrastrutture come supporto.

La terza parte della mostra lascia sullo sfondo la questione della dispersione, chiave di entrata e questione non trascurabile come si è visto, per ragionare su alcuni scenari per il territorio europeo. Al centro sono collocati i fenomeni di dispersione e di concentrazione. Ad esempio lo scenario di una progressiva gassificazione dell'Europa. L'Europa che perde mano a mano i nuclei più densi e sempre di più diventa un grande tappeto abitato; o quello, al contrario, di un'Europa che reagisce a questo fenomeno e tenta di irrobustire i propri nuclei, le proprie città, facendole diventare degli oggetti ancora più densi e più forti, lasciando tra di loro grandi vuoti, idealmente facendo riferimento alla città e alla campagna. Ci sono anche scenari che ragionano sul senso di territori che abbiamo chiamato "a basso numero di giri"; territori che stanno un po' al margine dei processi di ristrutturazione della città e del territorio europei, ma che tuttavia hanno un loro grado di benessere e di comfort raggiunti mettendo in campo tutte le risorse, anche quelle apparentemente meno importanti.

BERNARDO SECCHI. Questi territori "a basso numero di giri" non ci appaiono come esito deterministico di tendenze inevitabili, ma come il prodotto di scelte operate dalle popolazioni che li abitano: sono territori in cui tutte le abitazioni sono ampie e confortevoli, nei quali non esiste disoccupazione, nei quali vi sono rapporti sociali ed interpersonali molto forti, ove la scuola, come tutti i servizi sociali, bancari e commerciali funziona bene perché la maestra, il direttore della banca, il negoziante sono conosciuti da tutti. Una situazione piuttosto diffusa in Europa.

PAOLA VIGANÒ. Sono sempre territori abitati in modo disperso. Non voglio stabilire relazioni troppo forti, ma semplicemente notare che i livelli di comfort spesso elevati di questi territori sono possibili anche perché si è usciti da un'organizzazione urbana tradizionale. Questo porta anche a ragionare sulle grandi ipotesi avanzate dagli studi sulla dispersione di questi anni. A me sembra ne abbiano prodotte due: la prima è che la dispersione abbia causato una frattura o si sia prodotta a valle di una frattura. In questa posizione è la rottura di un equilibrio ciò che viene segnalato; una rottura tra economia urbana e rurale, tra paesaggio urbano e paesaggio agrario, etc… la rottura di un equilibrio che costruiva una differenza più che un'opposizione e con ciò costruiva anche una fortissima continuità tra spazio rurale e spazio urbano in termini di flussi e di relazioni. La dispersione avrebbe provocato o si sarebbe formata a valle della rottura di questo equilibrio.



L'altra ipotesi, avanzata soprattutto dagli studiosi italiani, è che invece la dispersione sia stata l'occasione per uno sviluppo senza fratture in cui tutte le trasformazioni si risolvevano in tanti piccoli cambiamenti, non immediatamente di rottura, che hanno prodotto un benessere esteso ed una maggiore democratizzazione della società. I territori a basso numero di giri sono proprio quelli che possono essere capiti entro questa ipotesi. In questi territori la dispersione ha molto spesso radici nel periodo lungo ed ha prodotto una società, un modo di vivere assolutamente differente da quelli del passato a livelli di benessere sicuramente più elevati ed estesi. Questi territori, talvolta marginali, non sono al centro dello sviluppo europeo, però sono territori che garantiscono molte cose grazie a sistemi di compensazione individuali, familiari e collettivi. La ricerca relativa agli scenari è aperta e propone alla discussione e al dibattito alcune grandi immagini.


BERNARDO SECCHI. Per esempio: cosa ce ne facciamo degli insediamenti di edilizia pubblica, dei grands ensembles che i partecipanti al workshop hanno chiamato future fossils? Il Presidente Chirac, durante la sua campagna elettorale, ha detto che bisogna demolirli tutti. In Francia si tratta di più di sei milioni di alloggi nei quali abitano più di dieci milioni di persone e non è concretamente possibile demolire più di sei milioni di alloggi. Vale allora forse la pena di ripensare questi fossili ed a come navigheranno in questa città del futuro.

tUn altro punto che completa il quadro è come ci comporteremo di fronte al rischio. La società europea sta divenendo consapevole del rischio connesso all'uso del territorio. La velocità con cui alcuni fenomeni si sono prodotti ha fatto abbandonare alcuni atteggiamenti di prudenza che connotavano le società e le culture del passato e ogni giorno constatiamo che le sfide che sono state poste nei confronti del rischio sono sfide poste a terribili catastrofi. In Italia terremoti e alluvioni, in Francia così come in Germania, soprattutto alluvioni. Tutto ciò propone oggi una grandissima sfida tecnologica. Molti di questi rischi possono essere non dico eliminati, ma contenuti entro un diverso rapporto con la tecnologia, con la produzione di energia, con il governo del ciclo dell'acqua, o della mobilità delle persone e delle cose. La città in passato è stata produttrice di sviluppo tecnologico; oggi non è più cosi. Possono essere costruiti scenari che ci dicano cosa avverrebbe se le politiche urbane del futuro non si affidassero unicamente ad un rapporto passivo con lo sviluppo tecnologico.

ALESSANDRO PETTI. Mi pare che sia rimasta da discutere ancora l'ultima parte della mostra.


PAOLA VIGANÒ. Sì, "visioni disperse", che riprende un po' il tema che prima affrontavamo a partire dal territorio. Pensiamo alle figure, alle pratiche che hanno connotato la città, la grande città e la metropoli novecentesca, dal detective ad altre figure che si muovevano nella città; oppure a pratiche, come le diverse manifestazioni che tradizionalmente si sono svolte nella città. Forse dovremmo provare a riconoscerle, a rintracciarle nel territorio disperso: ciò è stato fatto soprattutto per le pratiche sportive e dello shopping che coinvolgono ormai numerosissimi spazi esterni alla città. In modo quasi letterario, varrebbe la pena di esplorare il tema partendo tra ciò che ha contraddistinto la pratica della grande città ed osservare man mano ciò che possiamo ritrovare nei territori della dispersione.

In New territories abbiamo provato a prendere come spunto una serie di film girati proprio nei territori che abbiamo analizzato. Rappresentano un altro sguardo portato su questo territori. Abbiamo avuto la fortuna di trovare per le Fiandre, per il Salento, per Maiorca…, alcuni film recenti nei quali il territorio entra come soggetto; film, è forse importante sottolineare, non pensati per un pubblico ristretto, ma per il grande pubblico.

BERNARDO SECCHI. I modi nei quali possiamo oggi conoscere il territorio e la società sono di necessità differenti dal passato. Ancora più distanti dal passato sono i modi nei quali possiamo restituire i risultati della nostra esplorazione e ricerca. Una pratica sociale non riusciamo a rappresentarla con una mappa tematica, ma forse riusciamo con strumenti audiovisivi. Qui c'è un grandissimo lavoro da fare. Alcuni dei film raccolti Roberto Zancan dicono molto di più di quanto non dicano molte analisi.

PAOLA VIGANÒ. Ma non è solo questo, quanto piuttosto il cambiamento di contesto. Se l'ipotesi è che il territorio sia oggi il contesto rilevante per il progetto, a maggior ragione dobbiamo dire che esiste una cultura che si forma in questi territori. Prendiamo le distanze dall'idea che sia solamente la grande città la produttrice di cultura. I film che mostriamo sono girati da artisti e registi che non solo si sono occupati di questi territori, ma che spesso li abitano ed in questi territori sono nati, fanno parte di questo tessuto ed è forse questa la cosa interessante. Accade ancora nelle discussioni, che alla fine si cada nel dire, "si in fondo l'innovazione è della e nella grande città". Non è più così. Forse ci sono modi di costruire la cultura che nascono da mondi differenti.

Vorrei anche precisare una cosa: nella mostra ci sono alcune ricerche che hanno avuto un sufficiente tempo di maturazione e decantazione; sono diventate pubblicazioni, libri, saggi; ma ci sono anche alcune piste di ricerca che la mostra propone per ricerche successive. Se le ricerche sulla dispersione maturate negli ultimi dieci anni, in molti casi a ridosso di Bernardo Secchi che ne è stato il motore, ma anche di Stefano Boeri e Arturo Lanzani, se queste ricerche affondano nel passato, ci sono nella mostra altre ricerche solo accennate che vengono proposte come piste per il futuro.

BERNARDO SECCHI. L'ipotesi per cui l'innovazione culturale si produce solo nella grande città costruiva un'idea di rozzezza della società e della città dispersa, così come un tempo la costruiva per la campagna ed il contadino. Noi siamo invece convinti che oggi si producano fenomeni interessanti sul piano culturale nella città dispersa, da parte di persone che non visitano questo territorio, ma che lo abitano. Questo mi porta a dire che noi non stiamo cogliendo la trasformazione sociale del nostro territorio. Lo abbiamo pensato come una periferia urbana, come una parte culturalmente più debole, mentre ciò che si stava producendo era qualcosa di diverso dalla tradizionale cultura della città. C'è stata pochissima attenzione verso queste aree; la società che le abita non ha avuto risposte negli anni passati e l'Italia come l'Europa ne sta pagando il prezzo politico.

PAOLA VIGANÒ. Per tentare una conclusione provvisoria: il punto di vista che viene proposto è quello della dispersione. Questo non deve essere inteso come una presa di posizione a favore della dispersione. Non si tratta di difendere la città diffusa, ma piuttosto di capire quali relazioni si stabiliscono oggi tra parti così diverse, tra territori fortemente urbani e territori come quelli che abbiamo cercato di descrivere, quali influenze reciproche si costruiscono. Negli scenari, ad esempio, ci sono alcuni tentativi di mostrare che modi di utilizzazione dello spazio nati nella dispersione migrano nella città compatta e viceversa. Sono ormai molto facilmente rilevabili chiari segnali di scambio tra città compatta e territori della dispersione. Ci interessa più ragionare sulle diverse forme della dispersione e su queste relazioni, rifiutando un giudizio aggregato pro o contro la dispersione.

Una ultima questione infine riguarda l'idea che la mostra sia un luogo di esposizione, ma anche di riflessione e di studio.

La mostra è pensata non tanto come percorso, ma come fatta di soste, nel senso che ci si deve fermare per un po' di tempo per poter vedere; è pensata come un accumulo di materiali: proiezioni di immagini, possibilità di poter consultare in modo libero, soffermandosi su ciò che si preferisce, sequenze di materiali visivi e non, momenti seminariali in cui discutere alcuni temi.

Il primo seminario, ad esempio, ha un titolo suggerito da Cristina Bianchetti, "territori sempre più simili". È chiaro che ci sono grandi somiglianze tra questi territori, c'è anche un senso di noia che ci deriva dal passare in mezzo a cose che ci sembrano sempre più simili; in realtà non è così, ma è interessante partire da questo punto. Gli ultimi decenni hanno portato questi territori ad essere più vicini tra loro, più simili.

Il secondo seminario è dedicato ai "progetti nella dispersione". Si possono forse riconoscere alcuni atteggiamenti: "progetti dentro la dispersione", che hanno costruito pezzo per pezzo questa dispersione nei quali riconosciamo uno sforzo ed un investimento dell'individuo, spesso della famiglia che si fa la casa od il capannone. Ci saranno progetti interessanti anche di capannoni, ma ciò che più ci interessa non è tanto il fatto che sia un buon progetto quanto il fatto che ci sia un investimento familiare, sociale. Questo oggetto un po' bistrattato diventa infatti un'icona interessante per osservare la costruzione della città diffusa.

Una seconda posizione è quella di progetti che abbiamo chiamato "progetti con la dispersione" nel senso che cercano di stabilire una distanza critica da questi territori, utilizzando i dispositivi che la città dispersa ha messo a punto per costruire progetti innovativi che si stacchino dal passato. Si tratta per ora di un insieme quasi vuoto.

Il terzo gruppo è quello dei progetti che esplicitamente si pongono "contro la dispersione". Ad esempio in Germania od in Olanda la linea più condivisa è quella di progetti che "condensano" che "limitano" la dispersione. Anche qui c'è una grandissima ambiguità. Basta osservare il grande progetto Vinex per capire che, nato con l'obiettivo di concentrare i nuovi quartieri intorno alla città e di limitare fenomeni di dispersione, questo progetto ha in realtà prodotto situazioni opposte, ha disseminato il territorio olandese di frammenti con scarse relazioni con l'intorno.

ALESSANDRO PETTI. Non esiste anche un attacco contro i valori che esprime la "società della dispersione"?

PAOLA VIGANÒ. Sì, esatto; ma alcuni progetti ciò nondimeno si confrontano con la dispersione nel tentativo, ad esempio, di densificare consentendo però alcune pratiche individuali dell'abitare. Il terzo seminario sarà dedicato agli scenari a partire dai lavori fatti nel workshop del dottorato.

ALESSANDRO PETTI. Per finire vi vorrei chiedere che rapporto, se esiste, c'è tra l'allestimento della mostra e la condizione urbana che è stata oggetto della ricerca.

PAOLA VIGANÒ. Nel nostro caso non c'è alcun rapporto: quello che abbiamo provato a costruire è un luogo di riflessione. Ci piaceva pensare che fosse un luogo di studio, non ci siamo posti il problema di una rappresentazione attraverso un allestimento che di necessità doveva essere molto spartano.

C'è un percorso che attraversa la Facoltà di Arti visive e Design: all'ingresso, nel portico, vi sono alcune immagini con viste satellitari, poi le ricerche fotografiche di Guido Guidi, Paolo di Stefano e Stefano Graziani, la saletta delle proiezioni di Visioni disperse e infine uno spazio pensato come uno "studiolo", anche se di grandi dimensioni. Nel mostrare tante immagini e tanti lavori l'idea ed il tentativo è stato quello di mostrare una pluralità di sguardi. L'idea è stata quella di avere un lungo tavolo ove ci si potesse sedere, guardare, prendere appunti; un luogo di studio.
New territories
situations, projects, scenarios for the European city and territory


Istituto di Architettura di Venezia
Dipartimento in Urbanistica
Dottorato in Urbanistica - Facoltà di Arti Visive e Design
Convento delle Terese
Dorsoduro 2206 Venezia


a cura di: Paola Viganò con Stefano Alonzi, Lorenzo Fabian, Susanna Loddo, Marco Giliberti, Laura Mascino, Fabrizio Paone, Paola Pellegrini, Alessandro Petti, Roberto Zancan; dottorato in Urbanistica coordinato da Bernardo Secchi

inaugurazione mostra:
25 novembre 2002, ore 12.00


apertura:
dal lunedì al venerdì ore 10.00-13.00 e 14.00-19.00


informazioni:
Dipartimento di Urbanistica
tel: +39 041 257 1360-1381
fax: +39 041 257 1393
segr-du@iuav.it
http://www.urbanphd.net


http://www.newterritories.it

aperta dal 25 novembre al 9 dicembre 2002

seminari:
1. Territori sempre più simili (28 novembre)
2. Progetti nella dispersione (2 dicembre)
3. Scenari per la città ed il territorio europei (5 dicembre)
ore 10.30-13.30, Convento delle Terese, aula G


rassegna cinematografica: Visioni disperse
ore 14.30-19.00, Convento delle Terese, aula G

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