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La guerra afasica

Elena Franzoia
Sotto le continue minacce americane di una nuova guerra in Medio Oriente, con la consapevolezza dell'abbandono, da parte degli studenti arabi, delle università statunitensi, nell'ipotesi sempre più realistica di una nuova serie di attentati internazionali, apprendiamo, in questi giorni, che il nuovo progetto per il Guggenheim NY, firmato da Gehry, non verrà realizzato.

Il fatto -che ci sembra, di per sé, poco drammatico, data l'ormai standardizzata prolificità dell'architetto americano- conferma, però, l'estrema attualità di un tema di cui da tempo si occupano le punte più sensibili e avanzate del panorama internazionale: ad esempio Boeri con Multiplicity in Italia, ma anche i musei olandesi con la serie di mostre e convegni dedicate ai territori di guerra e di frangia ripropongono l'esigenza, ormai pressante, di una rifondazione della disciplina architettonica.

[30jan2003]

NEXT, padiglione USA. NOX architecten
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La necessità non solo di adeguarsi ad una realtà, politica e sociale, che ha da tempo vanificato e dissolto i concetti tradizionali di limite, frontiera, confine e territorio, ma anche di costruire un repertorio formale capace di reificare un immaginario collettivo che, non riuscendo più, dopo l'11 settembre, a prescindere dalle categorie della deformazione, della fragilità e della distorsione, sembra preferire il vuoto, l'assenza e l'afasia alle falsificazioni e ai narcisismi di molta architettura pre-Ground Zero, fino a rendere vecchie e gratuite, vuote di senso e inopportune, perfino quelle spettacolari curve in cartongesso e titanio che pure avevano, ai tempi di Bilbao, rivoluzionato, a livello mondiale, il concetto stesso di museo.

Non pare, dunque, casuale che, anche all'interno di quella kermesse di celebrità che è stata la Biennale di Venezia di quest'anno, Israele, Egitto e Stati Uniti- tutti, in vario modo, "Paesi di guerra", in cui la frizione tra passato e presente e la ricerca di una nuova identità nazionale sembra essere il tema d'indagine più arduo e scottante- si proponessero come casi emblematici dell'incertezza e del disagio.

Così, se i progetti più affascinanti per la ricostruzione del WTC rileggevano le straziate strutture delle Twin Towers secondo l'estetica virtuale del filamento organico (come nel caso di Jacob+Mac Farlan), della distorsione formale (come per NOX architecten) e della successione numerica, ma non riuscivano, ancora, a concretizzarsi in un realistico progetto architettonico, l'afasia e l'insicurezza provocate dalla violenza non sembrano risparmiare nemmeno il mondo islamico, che, con il Padiglione Egiziano, preferiva anch'esso un astratto percorso ideologico a dei progetti reali, interrogandosi, significativamente, sull'identità di una società ancora sospesa tra tradizioni agrarie e industrializzazione, tra culto del passato e globalizzazione.


NEXT, padiglione USA. Jacob+Mac Farlan
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NEXT, padiglione israeliano.

NEXT, padiglione israeliano. Borderlinedisorder
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La forte frizione tra l'incoerente overdose di senso della guerra ed il crollo dei valori istituzionali trovava, però, forse, nel Padiglione Israeliano i suoi esiti più interessanti. Il tema del Borderlinedisorder, infatti (a cui Boeri ha recentemente dedicato un seminario a Venezia), veniva affrontato dai curatori Zvi Efrat e Meira Kowalsky come una sorta di overlapping, in evidente controtendenza rispetto al padiglione egiziano: suoni, immagini, violenza e architettura si sovrapponevano -connesse dal modulo tipologico tradizionale del Tri'sol- in una sintesi volutamente disomogenea ma affascinante. Una sintesi in cui il tema del territorio permetteva di esprimere da un lato il disagio per la difficile compresenza di etnie, religioni ed immaginari differenti, dall'altro per l'assenza di confini nazionali definiti, evidente reificazione dell'incerto destino -come entità politica e istituzionale- di uno Stato che, perennemente in guerra, continua ad essere respinto, come una cellula impazzita, all'interno della compagine islamica.


B. Khoury, B018, interno.


B. Khoury, B018, esterno
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E in questo tentativo, per ora aurorale, di metabolizzazione e di sintesi -che pone in discussione lo stesso concetto tradizionale dell'architettura come demiurgia, sublimazione del reale, ars mundi- ci piace, ancora, ricordarci di Khoury.


B. Khoury, Centrale, esterno.

Se con la splendida metafora del B018, infatti -ferita e trincea, specchio ipogeo di una città e di una società ferite che quella stessa realtà ripropone deformata e distorta- riusciva ad inventare la nuova tipologia di un doloroso e drammatico "monumento abitabile", con il ristorante Centrale sembra, di fatto, aver posto le basi per una nuova disciplina: una sorta di "archeologia della guerra", antiretorica e anticonvenzionale, un restauro non mimetico che rende vani e inopportuni i troppi maquillages che cercano di riproporre, a livello mondiale, l'impossibile miraggio di una società pacificata, la captante concretizzazione di quelle Evolving Scars che, nate dallo studio della drammatica realtà della Beirut post-bellica, assumono ora, dopo l'11 settembre, un significato più universale.

La possibile traccia di una nuova architettura, l'ipotesi concreta di un linguaggio, anche formale, capace di metabolizzare e contrastare la guerra e la sua afasia: non l'unica strada possibile, certo, ma sicuramente, finora, la più coraggiosa, convincente e rivoluzionaria.

Elena Franzoia
elenafranzoia@hotmail.com

B. Khoury, Centrale, interno
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