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Intervista a Omar Yuseff, architetto

Sandi Hilal, Alessandro Petti
Stateless Nation, di Sandi Hilal e Alessandro Petti, è un progetto co-prodotto dalla Biennale di Venezia e dalla Regione Toscana - Porto Franco. L'iniziativa è stata realizzata in forma di installazione nell'ambito dell'ultima Biennale d'Arte e si è concretizzata in un volume, senza stato una nazione, recentemente pubblicato da Marsilio. L'interrogativo di fondo, "chi sono i Palestinesi?", tende a presentare al lettore italiano, attraverso una serie di testimonianze dirette raccolte dagli stessi autori, il punto di vista dei palestinesi: poco conosciuto, mistificato da stereotipi, ignoranza e cattiva informazione.






SANDI HILAL E ALESSANDRO PETTI: Come i documenti influenzano la vita dei palestinesi?

OMAR YUSEFF: Quando andai a studiare all'estero avevo un passaporto Giordano e un lascia passare israeliano, che sono documenti che ti mettono sempre in situazioni speciali... Con questi documenti non potevo decidere all'improvviso di lasciare il mio paese per un viaggio. Una volta ad esempio sono stato invitato ad un seminario a Parigi. Mi sono recato all'ambasciata francese, ricevendo un ottimo trattamento. Per via del mio documento israeliano pensarono che ero un cittadino israeliano, sul documento era riportata la scritta "State of Israel", non avevano capito che era documento rilasciato dall'autorità israeliana ma per i palestinesi. Mi dissero che in mezz'ora avrei ottenuto il visto. Dopo pochi minuti e dopo avere scoperto che ero palestinese, mi dissero che avrei dovuto fare la domanda per il visto sei mesi prima per poter raggiungere Parigi, e solo dopo i sei mesi mi avrebbero detto se mi concedevano o meno il visto. Sarebbe dipeso dalla mia situazione... Credo che tutti i palestinesi sentono in un modo o in un altro che niente è normale per loro. Anche muoversi o vivere nel mondo arabo è molto lontano dalla normalità. Sei sempre un palestinese, un elemento anormale. Il nostro desiderio di normalità si manifesta dal desiderio di avere un passaporto che riconosce i nostri diritti di cittadinanza. Ci piacerebbe arrivare in aeroporto ed essere trattati come tutti gli altri e non subire come sempre un trattamento speciale.

A proposito di trattamenti speciali, potresti parlarci dei palestinesi di Gerusalemme?

I palestinesi che vivono a Gerusalemme, non possono risiedere all'estero per più di tre anni, altrimenti perdono il diritto di risiedere a Gerusalemme. Gli viene ritirata la carta d'identità. È una pura follia. Ma non è forse questa la mia città? dove dovrei andare se non mi permettono di tornare nella mia città? I palestinesi sono sempre fuori luogo anche a casa propria. Dico sempre ai miei amici israeliani, non continuate a sorprendervi se i palestinesi vivono sempre nell'illegalità, è l'unico modo che hanno per sopravvivere. Io ad esempio per lavorare ho bisogno di supervisionare gli edifici in costruzione a Ramallah e Betlemme. Per farlo devo attraversare una marea di posti di blocco e se questi sono chiusi devo trovare un modo per poterli attraversare, scavalcare i confini illegalmente, uscire continuamente fuori dalla normalità per poter continuare a lavorare e vivere. L'occupazione israeliana trova la sua massima espressione, la sua più limpida manifestazione attraverso le trasformazioni del territorio e della città.

Gerusalemme è l'epicentro di queste trasformazioni. Dopo l'occupazione del '67, Gerusalemme Est è stata via via colonizzata da villaggi per israeliani che venivano insediati strategicamente sulle colline. Tutte le politiche di pianificazione erano a favore degli occupanti israeliani. Così a fianco a colonie ben collegate, dotate di servizi e di alta tecnologia sopravvivono villaggi arabi a cui il comune non da nessun tipo di sevizio. A Berlino ad esempio dopo l'unificazione si era creata un'ondata di entusiasmo e un investimento in tutti i settori della città, mentre Gerusalemme riunificata conservava e costruisce ogni giorno nuove e più efferate forme di separazione. Basta osservare lo spazio fisico per rendersene conto. Le nuove arterie autostradali oltre a connettere nuove colonie vengono usate per separare una zona palestinese dall'altra. Così percorrendo l'autostrada sorta lungo il tracciato del muro del '67, si nota come la città rimane ancora oggi nonostante il muro non esista più, una città fortemente separata. Gerusalemme si è così trasformata in ghetti arabi con cristiani e mussulmani e getti per ebrei. Gli spazi comuni pubblici che dovrebbero connettere parti diverse di città e a servizio di tutta la popolazione in realtà sono utilizzati come strumenti di ghettizzazione. Nella parte araba della città le uniche opere pubbliche costruite dal comune sono la sede centrale della polizia e il carcere più grande della città. Le istituzioni pubbliche nella parte araba servono come intimidazione, sono lì come una minaccia. Ancora più estreme sono le situazioni di Ramallah e Betlemme, la cui crescita avviene solo in altezza perché le autorità israeliane impediscono alla città di potersi espandere naturalmente mentre le colonie continuano a mangiare territorio. Si crea così una situazione in cui da un parte c'è una popolazione costretta a vivere ammassata e dall'altra una popolazione molto ridotta, poche unità, che occupano invece un enorme territorio.



Sono spazi di Apartheid. Non di divisione tra bianchi e neri come in Sud Africa ma tra ebrei e palestinesi. Gli investimenti esistono solamente per la popolazione ebraica, con facilitazioni per la costruzione di case pubbliche a canoni molto bassi, mentre ai palestinesi è vietato costruire costringendoli di fatto a vivere in ghetti. Riserve per palestinesi. La popolazione è costretta a vivere in condizioni miserabili, molti decidono così di andarsene. Questa è la strategia che usa l'autorità israeliana per cancellare il problema palestinese. L'occupazione è il problema più grande a tutti livelli, da quello sociale a quello urbano, da quello economico a quello della giustizia. Per questo credo che una forma di separazione sia necessaria, per ripristinare l'uguaglianza e il rispetto, ma non la separazione intesa come l'idea di mettere tutti i palestinesi in delle scatole che si chiudono sperando che le persone dentro soffochino. Questo è il piano dell'odierna leadership israeliana. La fine dell'occupazione è la cosa più importante per creare sviluppo e vita. Finché la vita viene negata dall'occupazione, le persone si continueranno a sentire sottopressione, questo crea aspre tensioni.

Non dobbiamo discutere su quale tipo di violenza è permessa oppure no, nessuna violenza è permessa, ma proprio per questo bisogna ripristinare una divisione fondata sull'uguaglianza e sul rispetto. Gerusalemme dovrebbe essere la città per due stati, altrimenti continuerà ad esistere il dominio degli israeliani e i per ghetti palestinesi colmi di problemi sociali ed economici. Se non si risolve il problema di Gerusalemme non può essere risolta questione palestinese. Gerusalemme è la metafora del conflitto israelo-palestinese, se il conflitto non verrà risolto in maniera equa, ci allontaneremo sempre più da una possibile soluzione, posticiperemo semplicemente il problema.



Come ha influito la condizione in Palestina sul tuo modo di fare architettura?

Quando ho iniziato a lavorare in Palestina mi sono chiesto il senso del fare architettura in questo luogo. La mia preoccupazione era di trovare un modo, un linguaggio per comunicare attraverso l'architettura. Con l'aiuto di schizzi iniziai un dialogo con me stesso, alla ricerca di un linguaggio. Gli edifici possono esprimere qualcosa. Iniziai a considerare l'edificio come una scultura.

Osservavo quello che accadeva intorno a me, il contesto architettonico e urbano, l'architettura non pianificata di Gerusalemme Est. Quasi tutta l'architettura araba non è pianificata, è un'architettura senza architetti. Presi lezioni da questo modo di costruire, imparai a fare architettura con qualcosa che all'apparenza non sembrava architettura. Spesso i discorsi in Palestina si ridicono a conversazioni sulla simmetria, sulle colonne e sugli archi e spesso mi trovo a discutere con il mio cliente che vuole costruire archi cercando di convincerlo che questa è più architettura romana che architettura islamica. Mentre nei miei schizzi, non so come e perché, l'architettura era sottoposta a torsioni per raggiungere una possibile forma instabile.



Ero attratto da ciò che mi circondava, dall'instabilità e dalla devastazione delle case. Le domande che mi sono posto sono ad esempio cosa è successo ai nostri valori? Quali nuovi segni dovremmo costruire per una cultura contemporanea? È possibile pensare al nostro straordinario passato senza dimenticare la nostra identità contemporanea, la vita di ogni giorno? Ho una grande stima per alcuni miei colleghi che lavorano su edifici storici, ma percepisco un vuoto lacerante sul pensiero dell'architettura contemporanea in Palestina. Le nostre esperienza di vita di ogni giorno, sono di frammentazione e spontaneità. Basta osservare Gerusalemme per rendersene conto. Alla popolazione araba non è concesso di costruire nuove abitazioni, anche se la domanda di nuovi alloggi è altissima.

Così durante la pasqua ebraica, periodo dell'anno in cui i dipendenti del comune vanno in vacanza, i palestinesi di Gerusalemme costruiscono velocemente nuove case, tirano su una casa in pochi giorni. Spinti nell'illegalità dalla politica discriminatoria messa in atto dal comune, dall'assurda distinzione tra ebrei e non ebrei. Cerco di osservare queste cose cambiando il punto di vista, riconoscendo in queste pratiche un sano istinto umano per la sopravvivenza. Se la legge non rispetta la vita, la vita distrugge la legge. Deve esistere reciprocità tra la legge e la vita, altrimenti la legge viene continuamente violata. È una questione di sopravvivenza.

In che modo sei riuscito a trasferire questa condizione urbana e sociale nell'architettura?

I miei edifici hanno muri storti, sono sempre sull'orlo del collasso. Non esiste pianificazione per i Palestinesi. La Pianificazione è usata dall'autorità israeliana per la costruzione di nuovi insediamenti. Così la città araba cresce come può. Ho cercato di imparare dalle trasformazioni di questa città.

Come riesci a svolgere il tuo lavoro di Architetto in Palestina?



Come tutti i palestinesi della West Bank e di Gaza vivo sott'occupazione, quindi sono sottoposto ad un regime militare di occupazione. Vengo fermato ovunque. Non posso seguire i lavori di un edificio che sto realizzando a Gaza perché nove volte su dieci non mi lasciano entrare. Per seguire il cantiere di un edificio a Ramallah, ogni mattina mi devo assicurare che non c'è il coprifuoco, sempre che poi riesca a superare tutti i check point... Non posso pianificare la giornata come potrebbe fare un architetto europeo. Per andare da Betlemme a Ramallah ci si dovrebbe impiegare normalmente mezz'ora, oggi invece, sempre se riesci ad arrivare a destinazione, ci vuole un giorno intero. Questo crea situazioni inaspettate da cui traggo ispirazione per i miei edifici. Molte volte ho il dubbio che l'architettura sia lo strumento adatto per comunicare questi contenuti, ma è l'unico strumento possiedo...

Si può parlare secondo te di una identità palestinese?

Se guardo Gerusalemme, vedo una città in cui sono passate moltissime culture, e quando mi chiedo chi sono i palestinesi, rispondo sono coloro che hanno resistito ai vari domini. Quindi i palestinesi sono un misto di culture diverse. Questo aspetto positivo della cultura palestinese, questo continuo mescolio, lo si può osservare anche negli spazi della città. Si costruiscono le case in continuità a edifici storici, il tetto si appoggia su di un vecchio muro, come in un gigantesco sito archeologico. Troviamo differenti livelli, un'identità che viene fuori da un collage. Mi piace pensare all'identità palestinese che continuamente sabota i valori esistenti per costruirne di nuovi, che esprime la contraddizione del tempo storico.

Il muro è uno degli elementi base dell'architettura, è lo strumento con cui si conforma lo spazio. Qual è la tua opinione riguardo alla costruzione di un muro che separi fisicamente il futuro stato palestinese da Israele?

Muri, muri muri... Credo che la città vecchia di Gerusalemme è speciale perché ha un muro che la circonda. I muri a volte sono positivi e a volte negativi. Ci sono persone che sostengo che i muri sono positivi perché creano buoni vicini. Io non contraddico questo, ma credo che sia necessario che i muri contengano anche dei buchi, in questo modo i vicini potranno avere un luogo per lo scambio, eviterebbe la separazione totale. Quindi i muri non sono necessariamente buoni o cattivi, sono strumenti per costruire lo spazio, ciò che è buono o cattivo è il significato che gli attribuiamo. In un certo senso credo che per costruire uno stato palestinese noi avremmo bisogno di muri, per trovare noi stessi, separarci per poter camminare da soli, per confrontare i problemi separatamente.



Non immagino che la società palestinese sia la società ideale, ma ero comunque contento che durante Oslo si stesse costruendo un'entità palestinese autonoma. Per quanto duro e rischioso sia questo processo, per la prima volta stavamo governando noi stessi. Abbiamo bisogno di avere a che fare con i nostri problemi da soli, impareremo, è un processo, non si può essere immediatamente pronti per una nuova situazione. Dobbiamo avere elezioni, e se non siamo contenti del nostro governo dobbiamo avere la possibilità di poterlo cambiare. Quindi sono d'accordo con l'idea di un muro che crea uno spazio, ma non mi piacciono i muri senza buchi, perché diventano celle, piccole prigioni. Noi come palestinesi siamo allergici a questi tipi di muri.

Adesso i check points sono muri, muri con un piccolo buco con un soldato, è come una cella di una prigione. Tutti questi check points hanno trasformando la West-Bank in una grande prigione, in una serie di celle. Muovendosi in questo territorio si aspetta e si spera di trovare un varco nel muro, di riuscirlo a superare in qualche modo, che la porta non sia sbarrata. Uso molto i muri nella mia architettura, ma non so perché sono sempre muri storti, bucati. Forse anche perché traggo ispirazione dal territorio di demolizione e distruzione, da Jenin al AL-Moqata di Ramallah, ovunque volgi lo sguardo trovi muri storti. Puoi vedere case distrutte che non riesci a comprendere in che modo siano ancora in piedi. Interi piani sospesi nel vuoto, senza pareti ma con il sofà e la televisione, che nessun ingegnere sarebbe in grado di poter calcolare. Rimasi scioccato quando tornai a Ramallah dopo l'ultima incursione dell'esercito israeliano e trovai il mio edificio assolutamente in armonia con il resto del paesaggio di demolizione.

Quindi i muri vanno bene se hanno tanti buchi. Se servono a percepire i tuoi limiti, se sai che quello è il tuo spazio. Ma questi muri non dovrebbero essere così alti, dovrebbero aiutare a contenere noi stessi senza essere dominati da altri. Questo è ciò che i palestinesi intendono per fine dell'occupazione, è una pretesa culturale. I muri troppo alti e senza buchi producono semplicemente ghetti di umiliazione, non sono muri positivi.

Entrando a Ramallah, di fronte il campo profughi di Qalandia, si nota uno strano edificio la cui facciata sembra stia per crollare...

(Omar Yuseff ride) Quando mi venne dato l'incarico per costruire un grande edificio per la croce rossa, erano già stati costruiti dieci piani che dovevano ospitare le più svariate funzioni da centro culturale a grande teatro, da sala conferenze ad albergo, addirittura doveva esserci anche una scuola. Allora ho chiesto, ma cosa volete che faccia, dei bei rivestimenti per coprire tutto con dei bei buchi per le finestre? Accettai la sfida di una commissione banale, agevolato dal fatto che i miei clienti non sapevano che tipo di funzioni esattamente doveva ospitare l'edificio e quindi come sarebbe dovuto apparire ogni piano. Questo mi diede la libertà di pensare la facciata completamente svincolata dalla funzione.

Osservando i campi profughi e pensando alla storia della croce rossa e il suo continuo impegno all'interno di paesaggi di guerra, muri demoliti che seppelliscono feriti, pensai di attaccare dei pezzi di muro allo scheletro dell'edificio. Il risultato fu che l'edificio sembra appena essere stato bombardato proprio come il campo profughi che gli sta di fronte. A me piace lavorare con la cianfrusaglia. Al contrario di un edificio progettato fino all'ultimo dettaglio, lavorare con la cianfrusaglia ti obbliga ad essere spontaneo e a saper improvvisare, proprio come avviene in un campo profughi.



L'uso di materiali diversi, affastellati l'uno sull'altro, usati come la tecnologia del luogo permette, è la manifestazione della vita che resiste nei luoghi più inospitali, una sfida alla cultura della morte. Mentre si stavamo completando l'edificio, molte persone mi chiedevano se non ci fosse qualcosa di sbagliato, se non mi fossi accorto che i muri erano storti. Per me quello era il modo di pensare alla storia della croce rossa. Mi piaceva che le persone discutessero dell'edificio, che dall'edificio arrivassero a discutere anche del ruolo della croce rossa... mi intrigava l'idea di costruire un edificio come una scultura in un paesaggio frammentato come la cultura della diaspora palestinese. Dispersa in tutti il mondo, la cultura palestinese è una cultura frammentata, priva di unità. Ma questa era la sfida per me creare dai questi frammenti un senso di una nuova unità, una nuova attitudine culturale questa si davvero in comune tra tutti i palestinesi. Credo che solo osservando la condizione palestinese contemporanea sarà possibile elaborare e pensare la cultura palestinese contemporanea.

Qual è il tuo sogno?

Il mio sogno è il desiderio di normalità, anche se devo essere franco, se pur è una situazione tragica mi diverto a vivere in questa anormalità. Sono costretto a viverci, quindi tanto vale che invece di lamentarmi la consideri come un avventura. Il mio sogno è di vedere sempre più architetti che riescono a lavorare anche in questa condizione, che riescono a esprimere il loro disagio fino a quando l'occupazione finalmente finirà. Sogno comunque un giorno in cui potrò finalmente pianificare, costruire spazi urbani diversi da quelli che costruisco oggi. Sogno di uscire da questo stato al limite della sopravvivenza.
[30aug2003]

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