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Postmodern
Oppositions. Eisenman contro Koolhaas Pier Vittorio Aureli, Gabriele Mastrigli |
"In
fondo l'architettura non è così stupida..." Rem Koolhaas, Content |
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L'anno che abbiamo appena lasciato dà l'impressione di essere
un momento che, in tempi futuri, potremo chiamare di svolta. Sia detto
ovviamente senza trionfalismo, poiché si sa che i periodi di
svolta, già di per sé confusi e dolorosi, non sempre annunciano
fasi di intensità creativa o per lo meno di produzione interessante.
Come il corso delle cose ci ha insegnato, ad un periodo di entusiasmi
(e l'ultimo decennio in molti versi è stato per l'architettura
un periodo "esplosivo") segue spesso un periodo di raffreddamento,
quando non addirittura di smarrimento. In ogni caso, l'intuizione (o il sospetto) che l'architettura stia attraversando un periodo di svolta, fa riferimento a due avvenimenti di grande portata mediatica che hanno visto la luce proprio nell'ultimo scorcio del 2003: una mostra, la prima vasta retrospettiva itinerante sul lavoro di Koolhaas e dell'OMA dopo S,M,L,XL, inaugurata in ottobre a Berlino; e un libro, o meglio "il" libro su Terragni, al quale Peter Eisenman lavorava praticamente da quarant'anni. 1. Si sa che da più di settanta anni l'evoluzione del pensiero architettonico è sostenuta da libri e mostre più che da opere di architettura intese come progetti e costruzioni. Basti pensare alle iniziative del Moma, che a partire dai primi anni Trenta lanciano i grandi temi attraverso quali si è costruito a tavolino la scienza normale dei tempi a venire: dalla celebre mostra Modern Architecture, inaugurata appena tre anni dopo la fondazione del museo allo scopo di far nascere "in provetta" la formula dell'International Style di Hitchcock e Johnson; alla esposizione Visionary Architecture, che sanciva l'ascesa del Megastrutturalismo e dell'utopia, o a quella sul Beaux-Art che sottolineava il ritorno allo storicismo post-moderno. Oppure si pensi al tutta la produzione editoriale di Le Corbusier, ma anche a libri come L'Architettura della Città di Aldo Rossi, Complessità e Contraddizione di Robert Venturi, Progetto e Utopia di Manfredo Tafuri fino a giungere a S,M,L,XL di Rem Koolhaas: libri di svolta che proprio per il modo sempre più raffinato di elaborare un nuovo modo di concepire la teoria, hanno promesso orizzonti concettuali sempre più lontani dalle possibilità reali della pratica progettuale (malgrado il centro di interesse di questi libri sia stato proprio il rapporto tra la disciplina e la realtà). Non stupisce quindi che siano di nuovo una mostra e un libro a segnalare la svolta. Da una parte la mostra (e il libro-catalogo che l'accompagna) Content, enorme retrospettiva itinerante sul lavoro degli ultimi dieci anni di Rem Koolhaas, dell'OMA e del più giovane ufficio gemello AMO. Dall'altra la pubblicazione di Giuseppe Terragni. Transformations, Decompositions, Critiques, il libro di Peter Eisenman atteso da oltre quarant'anni, ed ora finalmente in libreria per i tipi di Monacelli Press. Due nuove milestones che tuttavia, più che prefigurare una svolta verso un nuovo corso, sembrano segnare la conclusione di un ciclo, proprio in quanto riassumono ed esasperano in modo estremo i due grandi temi che hanno segnato gli ultimi quaranta anni della storia dell'architettura (e non solo): vale a dire Autonomia della disciplina e Realtà dei fenomeni urbani. |
[28jan2004] | |||
Ma
per comprendere a fondo questi due eventi teorici bisogna stare attenti
a non cadere nell'opposizione che solitamente viene istituita tra queste
due parole chiave. Infatti Koolhaas e Eisenman rappresentano solo per certi versi due posizioni diametralmente opposte l'una all'altra. La differenza tra loro consiste essenzialmente nell'essere ciascuno la declinazione estrema (e meglio riuscita, almeno dal punto di vista teorico) del medesimo paradigma culturale: il Postmoderno. |
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I
critici della letteratura sono stati i primi ad utilizzare questa definizione
che solo molto tempo dopo Charles Jencks ha preso in prestito per classificare
in architettura il revival storicista compiutosi tra gli anni Sessanta
e gli anni Ottanta (1). La nascita di una sensibilità postmoderna
viene solitamente fatta risalire ai primi anni Sessanta e consisterebbe
in una costellazione di capovolgimenti estetici nei quali le nozioni
centrali della prima avanguardia (emancipazione del soggetto, testualità
dell'opera, consapevolezza analitica degli artifici espressivi) veniva
rivisitata sotto la luce "fredda" di una attitudine più
interessata alla riflessione su se stessa e verso il proprio contesto
sociale e culturale che a progetti di riforma di quest'ultimo. Nella
sua fase iniziale, la sensibilità post-moderna metteva fine all'aut-aut
tra realismo e astrazione, forma e contenuto, impegno politico e
disimpegno ideologico, verso una prospettiva concettuale nella quale
queste antinomie venivano azzerate a favore di una nuova consapevolezza
in cui coesistevano riconoscimento del mondo reale e affermazione dei
mezzi per esprimerne il riconoscimento stesso. Nella fase di sviluppo,
la postmodernità ha invece disgiunto questi due termini, fino
a trasformarli in due vere e proprie forme antagoniste di elaborazione
teorica, vale a dire realismo e autonomia, esaltandone
le valenze ideologiche: da una parte l'autonomia stava a significare
un atteggiamento di rifiuto nei confronti della complessità del
mondo reale, mentre l'apertura verso quest'ultimo sottolineava semplicemente
la sua accettazione incondizionata. In architettura questo dualismo
è stato poi ulteriormente parodiato dalla contrapposizione di
uno presunto storicismo contro un presunto supermodernismo, o di un
presunto minimalismo contro una presunta complessità. |
1.
Cfr. Renato Barilli, "Una teoria del Postmoderno?" in L'azione e
l'estasi, Testo e Immagine, Torino, 1999. Ihab Hassan, The Dismemberment
of Orpheus: Reflections on Modern Culture, Language and Literature,
in: "American Scholar (Summer 1963), n. 32(3), pp. 463-484; Ihab
Hassan, The Dismemberment of Orpheus: Toward a Postmodern Literature,
Oxford University Press, New York, 1971. Charles Jencks ha letteralmente
inseguito la parabola postmodernista dell'architettura, attraverso le
sette edizioni del suo best-seller The Language of Post-Modern Architecture
(la prima nel 1975, l'ultima nel 2002 sempre per la Monacelli Press)
tradotte in 11 lingue, in quello che lui stesso definisce un "evolvotome,
evolving in its message with the movement of Post-Modernism, which continues
to change." Il carattere oppositivo e polemico è dichiarato dallo stesso
Jencks che continua: "By the early 1990s many people declared Post-Modernism
'dead', not understanding that as long as Modernism remains the dominant
mode there will be a resistant Post.Modernism." Charles Jencks, "Post-Modernism
and the revenge of the book", in Kester Rattenbury (ed.) This is
not architecture, Routledge, 2002, p. 187. |
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In
questo modo è stata ignorato uno dei più importanti presupposti
teorici acquisiti dalla sensibilità postmoderna e cioè
la coesistenza, entro lo stesso quadro critico, di diverse istanze di
ricerca, anche contraddittorie, ma tutte tese a far emergere una visione
del mondo diversa da quella stabilita dalla prima modernità nella
quale tutto era stato diviso in categorie ben definite come avanguardia
e restaurazione, astrazione e realismo, progressisti e reazionari. |
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Anche il pluralismo postmoderno si è risolto in una serie
di opposizioni sempre più stilistiche e ideologiche e che differentemente
da quelle stabilite dall'avanguardia, sono state private di un contenuto
realmente dialettico e accordate, invece, con il basso continuo dell'anything
goes. In questa situazione le rispettive posizioni di Eisenman e Koolhaas rivestono, malgrado l'individualità e la consapevolezza della loro opera, il ruolo dei due estremi e cioè dell'autonomia e del realismo, offrendo se stesse ad una critica post sempre più affamata di formule semplificatrici. 2. Quasi contemporaneamente, quaranta anni fa, Eisenman e Koolhaas esordivano nei ruoli eterodossi che invece oggi il libro su Terragni e la mostra di Berlino istituzionalizzano come posizioni canoniche dell'architetto contemporaneo. |
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Nel 1963, Peter D. Eisenman terminava la sua tesi di dottorato The
Formal Basis of Modern Architecture (2) nella quale analizza formalmente
una serie di architetture canoniche del moderno da Le Corbusier a Wright,
da Schindler a Terragni. In questo tipo di ricerca dal formato sui
generis (allora non esisteva ancora il dottorato in teoria dell'architettura)
Eisenman inventava qualcosa che spegneva definitivamente la tensione
generalizzante che aveva alimentato l'ideologia del progetto riformista
della prima modernità. In quel qualcosa, vale a dire il progetto
di architettura come testo critico, la modernità veniva
recuperata e successivamente frantumata entro una vasta tassonomia formale,
completamente emendata dai significati attraverso i quali si era imposta
come strumento di trasformazione del mondo esistente. Le basi formali
di Eisenman erano quindi il progetto per una trasformazione che implodeva
su se stessa, esacerbando il linguaggio architettonico nella sua concretezza
di cosa, di forma-oggetto "significante" nel momento in cui
azzerava risolutamente la sua presenza in quanto "significato". Nel 1963, Remment Lucas Koolhaas iniziava la sua precoce carriera di giornalista nello "Haagse Post" de L'Aja, come responsabile della rubrica Persone, Animali, Cose nella quale solo occasionalmente si sarebbe occupato di architettura (due articoli in tutto tra il 1964 e il 1968 uno su Le Corbusier, nel quale approfittando del notevole ritardo dell'architetto francese, il reporter si era concentrato sulla descrizione degli spettatori in attesa del "Maestro"; l'altro sul visionario olandese Constant, nel quale manifestava tutto il suo sarcastico scetticismo nei confronti dell'avanguardia hippie degli anni Sessanta, nella quale, paradossalmente, sarebbero state, in seguito, situate le sue origini culturali). (3) |
2.
Peter D. Eisenman, The formal basis of modern Architecture, PhD dissertation,
manoscritto inedito, University of Cambridge, 1963. Le conclusioni di
questa tesi furono pubblicate in un lungo saggio, apparso su Architectural
Design nel 1963. A quaranta anni di distanza, questo scritto dimenticato
appare come una delle piu' lucide argomentazioni dell'idea di autonomia
dell' architettura. cfr. Peter D. Eisenman, ‘Towards an understanding
of form in Architecture', "Architectural design", Vol 33, No. 10, 1963. 3. Architecture/Een woonmachine: Le Corbusier kreeg f 5000, in "Haagse Post", 3 ottobre 1964; e De Stad van de toekomst. HP-gesprek met Constant over New Babylon, (con Betty van Garrel), in "Haagse Post", 6 agosto 1966. |
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Anche
nei primi reportage di Koolhaas, come nei testi critici di Eisenman,
la tensione che anima i sogni di cambiamento totale, sfociati di lì
a poco nelle gesta della generazione del '68 generazione alla
quale Koolhaas anagraficamente appartiene ma verso la quale si è
sempre espresso criticamente si disperdono nella produzione ipertrofica
di dettagli apparentemente inessenziali ma che proprio in virtù
della loro banalità e immediatezza espressiva prefigurano un
nuovo imponente ordine narrativo capace di resistere al crollo definitivo
delle "grandi narrazioni". Entrambe le posizioni elaborano
il definitivo lutto della modernità architettonica che la generazione
precedente, da Kahn al Team X (ma anche Archigram e gran parte dei nostalgici
del nuovo) non era riuscita a scalfire nelle sue più profonde
strutture ideologiche e figurative. L'attitudine post-moderna di Eisenman e Koolhaas, già nettamente definita nei loro rispettivi incunaboli intellettuali, è consistita proprio nel trasformare la caparbietà iconica e normalizzatrice del modernismo (furono tra i pochi ad aver riconosciuto in Mies un riferimento importante prima che quest'ultimo diventasse di nuovo à la page sull'onda del recente minimalismo patinato) in una complessa macchina multifunzionale, enciclopedica quanto celibe, un po' come le macchine inventate da Martial Canterel raccontate da Raymond Roussel, nelle quali la meticolosità dei meccanismi e la supposta prodigiosità degli effetti corrisponde alla loro straordinaria, astratta, utile inutilità. |
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3. Oggi questo progetto comune viene messo in scena all'interno di due icone controverse della modernità: la Neue Nationalgalerie di Mies, a Berlino ed il Terragni della Casa del Fascio di Como. A Berlino l'intero piano terra dell'edificio miesiano, epurato di ogni tendaggio e quindi completamente trasparente da e verso l'esterno, è innanzitutto "marchiato" dalla grande scritta gialla a caratteri colanti "Content", sottotitolata: Rem Koolhaas OMA/AMO, Edifici, Progetti e Concetti dal 1996. All'interno trova posto una sterminata quantità di modelli architettonici di studio in ogni scala e materiale -spesso sistemati sulle stesse casse che li trasportavano oppure ammucchiati per terra-, di immagini fotografiche, testi esplicativi, slogan, disegni, schizzi e diagrammi stampati su carta, che rivestono bassi pannelli free-standing; e ancora libri, opuscoli, proiezioni video, campioni di materiali da costruzione, a formare un colorato mercato delle pulci di strumenti e feticci dell'architetto contemporaneo. |
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Statistiche
e diagrammi vorrebbero dimostrare che la strategia di cambiare le carte
in tavola paga anche in termini di edifici realizzati, soprattutto grazie
alla fiducia degli investitori dell'estremo oriente. Dopo aver raccolto
poco negli Stati Uniti, Koolhaas si è infatti rivolto al frenetico
mercato edilizio cinese. Il posto d'onore tra i due setti marmorei della
galleria, spetta infatti alla torre "circolare" per la televisione
CCTV a Pechino -230 metri di altezza da completare entro il 2008-, uno
dei loghi più sfruttati nel ricchissimo merchandising della mostra. Ma nel profluvio di modelli di ogni scala e materiale, sono proprio i manufatti realizzati gli oggetti più misteriosi della mostra. Unica eccezione "istituzionale" è la nuova ambasciata olandese a Berlino, quasi completata e recentemente aperta alla stampa, che viene presentata attraverso le fotografie d'autore di Candida Höfer, in un'area conclusiva e tutto sommato protetta del percorso espositivo. Per il resto progetti e ricerche sono esibiti in maniera allusiva e indiretta, all'insegna della tipica roughness olandese, che disperatamente tenta di esaltare e sublimare la prosaicità dei materiali più disparati: anche i sofisticatissimi spazi Prada sono ridotti a pochi modelli di studio e qualche ironico manichino colorato; mentre nel lato opposto della sala, un campione di infisso della biblioteca di Seattle cerca di convincere che l'edificio non è di polistirolo, come la maggior parte dei modelli esposti. La Grande Dimensione e i marchingegni urbanistici ancora leggibili nei progetti che scorrevano in S,M,L,XL lasciano il posto (con poche eccezioni) ad un esasperato feticismo formale che annulla il dispositivo architettonico ed esalta l'appeal del binomio pelle-skyline, di edifici-manichini vestiti solo apparentemente prêt-à-porter. Tutta la mostra è di fatto una immersione nel cantiere "interno" dell'Office for Metropolitan Architecture, nel suo assetto più recente. A sei anni dalla sua fondazione, AMO è infatti ancora il fratello minore della nuova famiglia Koolhaas, e le collaborazioni-contaminazioni con i mondi dell'editoria, dell'arte, della comunicazione e degli studi socio-cultural-economici, sembrano piuttosto tentativi estremi per gettare fumo negli occhi di critici e imitatori e proteggere il cuore architettonico sempre più malato della strategia koolhaasiana. Iniezioni di veleno con cui Koolhaas-Mitridate (4) si vaccina contro la perdita di identità e di status imposta all'architetto dalla instabilità crescente del mercato e delle sue regole. L'opera di Eisenman è invece il compimento di una vicenda che risale agli studi con Colin Rowe, si è snodata per quarant'anni attraverso numerosi saggi e articoli, ed oggi assume la forma perentoria di un volume troppo annunciato per non suscitare almeno qualche delusione (5). Edito dal più sofisticato degli editori di architettura americani -quel Gianfranco Monacelli che aveva esordito nel 1994 con la riedizione dell'introvabile Delirious New York, per consacrarsi l'anno dopo con il best seller S,M,L,XL- Transformations, Decompositions, Critiques era già da tempo "condannato" allo status di evento editoriale. Al suo interno una minuziosa ed ossessiva sequenza di diagrammi assonometrici in linee rosse e nere scompongono l'articolazione formale delle facciate delle due opere di Terragni su cui l'attenzione di Eisenman da sempre si sofferma: la Casa del Fascio e la Casa Giuliani-Frigerio. Le due architetture danno corpo alle due parole chiave del post-modernismo: Trasformazione e Decomposizione. La casa del fascio rappresenta il processo di trasformazione attraverso cui la simbologia tradizionale del palazzo si dissolve in una miriade di partiti autonomi dei quali emerge, proprio in virtù della loro compressione all'interno del volume icastico del "palazzo", l'irresolubile incongruenza verso l'insieme. La Casa Giuliani-Frigerio costituisce il decomporsi degli stilemi dell'architettura moderna in forma di un testo nel quale letteralmente galleggiano alla deriva le modalità formali dell'apparenza modernista. L'idea centrale che il libro propone è quella di una articolazione del linguaggio architettonico in forma di testo critico, un'idea che molti critici nel passato hanno ricondotto alla sua origine Barthesiana. In realtà l'evoluzione del testo critico eisenmaniano è parallela a quel momento di transizione tra lo Strutturalismo e il Post-strutturalismo nel quale i "deliri scientifici" di Roland Barthes venivano trasformati, decomposti e criticati dagli studi degli allora debuttanti Derrida e Deleuze le cui vulgate hanno poi determinato, nel bene e nel male, la produzione teorica dell'architettura nelle ultime decadi. (6) |
4.
Mitridate VI Eupatore, re del Ponto (111-63 a.c.), durante l'Impero
romano fu l'avvelenatore per eccellenza. Forte del suo "consulente scientifico",
tale Crateuas, Mitridate -che ogni giorno ingeriva piccole quantità
di ogni veleno per immunizzarsi- con una sua misteriosa pozione, la
Triaca, riusciva ad avvelenare i pozzi situati lungo i percorsi dei
suoi nemici e, successivamente, a bonificarli. Quando Mitridate fu sconfitto
da Pompeo, decise di uccidersi per non cadere nelle mani dei romani.
Ma essendo ormai immune al veleno, fu costretto a supplicare uno schiavo
di finirlo, ben più dolorosamente, con la spada. 5. L'aspettativa nei confronti di questo volume era innanzitutto dell'autore stesso, come si evince dalla conclusione di questa intervista rilasciata da Eisenman qualche anno fa: "L'aspetto principale del lavoro dell'architetto in quanto tale è costruire, ma anche scrivere. Se come architetti vi limitate a scrivere, non sarete mai ricordati; se vi limitate a costruire, non passerete mai alla storia. (...) Credo che ogni architetto nella sua vita possa riuscire a realizzare due, o al massimo tre 'opere canoniche'. Prendiamo Aldo Rossi, ha realizzato il Cimitero di Modena e il Quartiere Gallaratese di Milano e basta. Per quanto riguarda me, posso essere ricordato per una o due opere su venti, ma devo ancora scrivere il libro che conta e per il quale vorrei essere ricordato." In "Rassegna di Architettura e Urbanistica", n. 97, aprile 1999, pubblicata anche in ARCH'IT. 6. Un saggio di Manfredo Tafuri e uno scritto dello stesso Terragni sulla vicenda costruttiva della Casa del Fascio completano il percorso a ritroso della (fin troppo) paziente recherche eisenmaniana, sullo sfondo di un candore tipografico che riporta alle pagine del primo catalogo dei Five. Il libro che nel complesso appare di estrema bellezza, purtroppo non può evitare l'effetto di sembrare qualcosa di scongelato al momento opportuno (e non soltanto l'occasione del centenario della nascita di Terragni). Da una parte è chiaro, infatti, che l'autonomia dell'architettura non è più un tabù e soprattutto con la crisi attuale delle ideologie supermoderniste degli anni Novanta, ed in mancanza di nuove idee trainanti, essa sembra di nuovo un concetto appetibile. Tuttavia il ritorno tout-court di certe posizioni, anche attraverso formule difficili come quella proposta da Eisenman, rischiano però di risultare una operazione troppo semplicistica, mentre sarebbe estremamente utile, oggi, ripensare il concetto di Autonomia proprio nell'ambito di una volontà progettuale che non prescinda completamente dal contesto sociale e politico attuale. |
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4. Messi in scena per l'ennesima volta all'interno di due icone controverse della modernità come la Neue Stadtgallerie di Mies e la Casa del Fascio di Terragni, i progetti di Koolhaas e Eisenman declinano ancora una volta lo scontro in architettura tra Autonomia e Realtà. Ma se guardiamo nella profondità concettuale di questi due eventi ci accorgiamo ben presto che, malgrado l'esasperazione delle apparenze, resiste una identità di fondo. Eisenman sembra aver scelto una posizione critica nei confronti della società senza riconoscerne, in apparenza, i propri codici espressivi e ricercando in un testo ad essa concettualmente remoto le forme di una sua possibile critica (che cosa ci poteva essere di più remoto delle forme terse e astratte della Casa del Fascio dal contesto culturale dell'America dei primi anni sessanta e nei confronti di quello attuale). Ma i modi di questa critica sono estremamente attenti al verosimile critico del momento. Eisenman, da sempre, pone il suo lavoro su uno sfondo ben calcolato registrando tempestivamente le mode culturali, prima lo strutturalismo e la linguistica chomskyana, poi il post-strutturalismo da Derrida a Deleuze, passando per il post-critical di Somol e Kwinter dopo aver esaurito prima il formalismo di Rowe e poi l'alleanza con Tafuri (a cui sembra tornare oggi, abbandonando nel frattempo i digitalisti al loro destino). Oggi che si profila una situazione politica sempre più difficile e certamente lontana dagli entusiasmi per la globalizzazione che avevano accompagnato l'ascesa del digitale, il ritorno ad icone cupe come la Casa del Fascio non è del tutto casuale. Koolhaas, al contrario, sembra aver scelto il ruolo di colui che accetta i codici espressivi attraverso i quali si esprime la società senza nessun tentativo di opporre ad essa la minima frizione culturale. Ma è proprio questa accettazione senza riserve che costituisce la propria assolutezza, paradossalmente e progressivamente sempre più immune a tutte le mode culturali proprio perché annullate nell'adesione piena e senza remore alla logica stessa della moda: cambiare sempre. Come Eisenman, Koolhaas ha inumidito il proprio dito per sapere sempre da che parte tira la corrente. Ma al contrario di Eisenman -che ha sempre dissimulato questa realtà dietro la presunta capacità dell'architettura di essere autonoma- egli ha eletto il cambiamento imposto dalla moda, a centro dichiarato del suo lavoro, antidoto alla temuta obsolescenza dei modelli architettonici -vedere a tal proposito il paradossale, anche se ironico, tentativo di definire, nella sezione della mostra "Patent Office", il brevetto delle strategie architettoniche e con esso rivendicarne "l'eternità"-, metodo e materia prima non mediata da null'altro che dalla sua brutale velocità di prodursi e di consumarsi. Al di là questa differenza che da sempre alimenta gli stereotipi del tipo autonomia contro populismo, resistenza contro mode, buoni contro cattivi (a seconda se l'accettazione dello status quo sia di moda oppure no), ciò che accomuna Eisenman e Koolhaas è, da una parte, il disperdersi nella molteplicità sia di riferimenti teorici che di riferimenti alla realtà e dall'altra di consumare questa dispersione in gesti fortemente iconici e monumentali. Il concetto di molteplicità a cui hanno indubbiamente fatto ricorso sia Eisenman che Koolhaas è da loro declinato non solo facendo ricorso alla forza liberatoria di questa parola magica, ma anche mostrando la sua eventuale negatività (sottraendosi così ai vari simbolismi facili che invece i loro seguaci hanno sviluppato copiando male i loro atteggiamenti). Molteplicità, dunque, come espressione terminale dell'aspirazione al nuovo come forma estetica del progresso, riducendo quest'ultimo ad uno spettro cupamente iconico (vedi l'ammirazione di entrambi verso il cinema di Pasolini e Antonioni). Il progetto postmoderno di Eisenman e Koolhaas va dunque via via esaurendosi nel formato del commentario che altro non è che la riduzione dell'architettura ad una valenza iconica, contenutistica, metaforica che rimanda sempre a qualcosa altro da sé, liberandosi da se stessa, consumando immediatamente i propri riferimenti e rendendo sempre più incomprensibili i suoi fini. |
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5. È quindi significativo che ciò che è stato condiviso da Eisenman e Koolhaas emerga in tutta la sua forza retrospettiva nello stesso momento, quasi a sancire il loro compiersi non più come l'ennesimo cambio di stagione ma come vero e proprio fenomeno storico riconosciuto dagli autori stessi attraverso la solennità con la quale hanno celebrato l'evento. Eisenman pubblica un libro che ha praticamente annunciato per quasi quaranta anni facendo diventare nel frattempo la virtualità del libro, alimentata e procrastinata da tutte le sue opere, testi, lezioni, conferenze, l'oggetto stesso dell'opera. Ora che è pubblicato, il libro su Terragni ha cristallizzato il divenire del suo lavoro in una forma monolitica, finale, monumentale che improvvisamente svela come il percorso dell'instancabile innovatore sia qualcosa che non porta da nessuna parte se non all'inizio di se stessi. Una volta che apriamo il libro, il racconto di questo inizio, l'analisi formale della Casa del Fascio e della casa Giuliani Frigerio, si frantuma nell'accuratezza maniacale con la quale l'edificio è analizzato, decomposto, criticato, relativizzato ed infine dissolto nella molteplicità dei suoi riverberi formali. In questa operazione emerge una delle caratteristiche concettuali più profonde dell'attitudine post-moderna e cioè che all'esasperata chiarezza della parte, del frammento, dell'individuo, corrisponde l'illeggibilità dell'insieme. Koolhaas sceglie l'acropoli di Mies per una resa dei conti finale con la città che lo ha più ispirato e più frustrato durante la sua carriera di architetto e esploratore urbano, e che gli ha offerto lo spettacolo post-moderno per eccellenza, ovvero il muro di Berlino: un'architettura inclassificabile, al di là del bene e del male, contraddittoria e minimalista e finalmente liberata da tradizionali scopo riformisti. |
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Ma
Berlino è stata per Koolhaas anche la città che ha assunto
le forme postmoderne più idiote, vale a dire quelle della negazione
della sua storia recente in nome di una Prussia high-tech che
ha completamente disneyficato la sua immagine e che ha trovato nell'architetto
olandese, in tempi non sospetti, uno dei pochi censori. La scelta di
racchiudere definitivamente la propria opera, nella teca miesiana -da
cui lo sguardo del visitatore può spaziare verso gli esiti di
quel masterplan per Potzdamerplatz che Koolhaas, più di
dieci anni fa, nella famosa lettera aperta al Frankfurter Allgemeine,
definiva "banale, provinciale e soprattutto amatoriale"- sembra
fatta apposta per far risultare ancora più aggressiva e indigesta
la dispersione totale del proprio lavoro, nel quale il gesto iconico
miesiano deflagra definitivamente in una miriade multiforme di plastici,
grafici, diagrammi, photoshop, fotografie, loghi e architetture
come nel finale di Zabriskie Point. Non c'è, infatti niente
di più corretto che sovrapporre un allestimento cacofonico alla
severa geometria cartesiana di Mies. Ma l'allestimento di Content,
proprio per il suo contesto e per le forme irripetibili, va leggermente
oltre la soglia dell'anything goes declinando quest'ultimo in
un'accezione vagamente tragica senza comunque abbandonare i toni da
farsa. (7) Portando alle estreme conseguenze i loro ruoli, l'autonomista Eisenman e il verista Koolhaas finiscono per sovrapporsi nel medesimo luogo e cioè quello di un progetto deliberatamente e coscientemente senza speranza, senza futuro, straordinariamente cupo, che abbandona definitivamente la rassicurante maschera del supermodernismo che la critica gli aveva confezionato e si mostra in tutto il suo pessimismo aggressivo. Forse è proprio questa caratteristica che rende di assoluto interesse queste due opere e che le salva dalla piattezza del discorso attuale tutto assorbito dai vari regionalismi nazionalistici e dagli hyper e super, prefissi-anabolizzanti di uno "sperimentalismo" progettuale sempre più a corto di coscienza teorica. Allo stesso tempo è proprio l'estremismo autobiografico di queste due opere che dovrebbe scoraggiare la loro assunzione ad esempi o peggio modelli. Una loro normalizzazione all'interno di facili vulgate -come è già successo con le infatuazioni digitali di Eisenman e il pragmatismo dissimulato di Koolhaas- farebbe ricadere queste testimonianze nella solita opposizione di autonomisti contro realisti, puristi contro veristi, minimalisti contro inclusivisti, utopici contro pragmatici, bianchi contro grigi, astratti contro concreti, nuovi contro vecchi, buoni contro cattivi. Una opposizione che, in fin dei conti, altro non è che il regime bipolare delle opposizioni post-moderne, che va ora collocato nella giusta prospettiva storica, senza illusioni che questo possa fornire un appiglio sicuro di fronte alla svolta che si sta oramai lentamente profilando ma con la certezza che sia il modo più interessante e costruttivo per attraversarla. Pier Vittorio Aureli, Gabriele Mastrigli |
7. Poiché Content è programmata come una mostra itinerante c'è da chiedersi come Koolhaas e compagni riusciranno a mantenere alta la tensione tra contenitore e "contenuto" in tutte le altre sedi previste in giro per il mondo. E' prevista l'apertura alla Kunsthal di Rotterdam, nel marzo prossimo. Seguiranno, in ordine da definire, New York (ovviamente al Moma), Pechino, Tokyo, ... | |||
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Brendan McGetrick, &&& art directors
(editors) OMA/AMO " Content" Taschen, 2004 pp544, $14.99 acquista il volume online a prezzo scontato! |
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Peter
Eisenman "Giuseppe Terragni: Transformations, Decompositions, Critiques" Monacelli Press, 2003 pp304, €60,00 acquista il volume online a prezzo scontato! |