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Intervista a Peter Zumthor

Marco Ligas Tosi
MARCO LIGAS TOSI: Osservando i suoi lavori come le Terme di Vals o quelli ancora in via di realizzazione come il Museo Diocesiano Kolumba a Colonia, o lo spazio espositivo di Topographie des Terrors a Berlino, sono sempre più convinto che un buon edificio debba assorbire le tracce di vita umana o meglio diventare esso stesso un organo prolungato che respira, dorme e vive...

PETER ZUMTHOR: Il corpo di un'architettura deve essere sufficientemente sensibile, essere in grado di esporsi alla vita, assorbire le tracce di vita umana o meglio ancora rendersi garante della realtà della vita trascorsa. All'interno si deve sentire una sorta di sensazione di consapevolezza del tempo che scorre, dove la vita umana si svolge in spazi e luoghi che devono essere vivibili. L'architettura ha il suo ambito di esistenza. Ha con la vita, appunto, un rapporto soprattutto corporeo; personalmente non la ritengo né messaggio né segno, bensì involucro e sfondo della vita che scorre, un recipiente sensibile. Io costruisco non per provocare emozioni, quanto ammettendo emozioni.


[02apr2004]
Le opere di Joseph Beuys e di alcuni artisti dell'arte povera sembrano essere, per lei e per i suoi lavori, di notevole spunto. L'impiego preciso e sensuale di materiali come il legno, la pietra, il cemento e il vetro sembrano infatti attingere ad antiche conoscenze artigianali, simili all'arte di Beuys, che ne rivelano l'essenza autentica. Diversi suoi edifici –vedasi il classico e emblematico Padiglione Expo 2000 della Svizzera- fanno capire quanto ci sia voluto per pensarli, disegnarli, segarli, gettarli, saldarli, tagliarli, trasportali, sovrapporli e pulirli...

Ritengo che nel contesto di un oggetto architettonico i materiali possano assumere qualità poetiche, che debbano risuonare e risplendere, essere limpidi e trasparenti. Costruire è l'arte di conformare un tutt'uno dotato di senso, a partire da una molteplicità di parti singole. Guardo con rispetto all'arte del congiungere, alle capacità dei costruttori, degli artigiani e degli ingegneri. Il sapere dell'uomo relativo alla realizzazione delle cose, implicito alla sua bravura, mi impressiona. Cerco quindi di progettare delle costruzioni che rendano giustizia a questo sapere e che, inoltre, siano degne di sfidare questa bravura. Sono votato alla pratica vera e propria dell'architettura, al costruire, alla cosa realizzata nel modo più perfetto possibile. L'architettura non deve essere astratta, bensì concreta.


Quello che mi sta dicendo mi fa venire in mente la dichiarazione di un noto musicista/intellettuale: nel corso di una lezione, John Cage ha sostenuto di non essere un compositore che sente dapprima mentalmente la musica, tentando successivamente di trascriverla. Precisando il suo diverso modo di operare ha affermato di elaborare dei concetti e delle strutture, quindi di farli eseguire e di rendersi conto solo allora della loro qualità sonora. La stessa cosa sembra applicabile alla sua architettura?

Si, sono d'accordo. La musica ha bisogno dell'esecuzione come l'architettura ha bisogno della realizzazione. È allora che il suo corpo prende forma. La realtà dell'architettura è ciò che è concepito, ciò che si è fatto forma, massa e spazio, il suo corpo. Non vi sono idee se non nelle cose. L'architettura costruita ha il suo posto nel mondo concreto. È lì che afferma la sua posizione e la sua presenza. È lì che parla di sé. Costruire è l'arte di conformare un tutt'uno dotato di senso, a partire da una molteplicità di parti singole. Gli edifici sono testimonianze della facoltà umana di costruire entità concrete. Nell'atto di costruire risiede, per me, il nocciolo vero e proprio di ogni compito architettonico, È attraverso questo atto, in cui materiali concreti vengono congiunti ed eretti, che l'architettura pensata entra a far parte del mondo reale. Che il nostro lavoro si nasconda davvero dentro le cose che ci riescono felicemente è un pensiero che ci porta ai limiti della riflessione sul valori di un'opera. Il nostro lavoro starebbe dentro le cose? Talvolta, quando una costruzione architettonica mi colpisce alla pari di un brano musicale, di un'opera letteraria o di un quadro, sono tentato di crederci.


I suoi colleghi svizzeri Herzog e de Meuron affermano che l'architettura, intesa come un tutt'uno compiuto, oggi non esista più e che un'unità debba perciò essere creata artificialmente, nella mente del progettista, ossia mediante un atto mentale. Da questa premessa i due architetti teorizzano la loro architettura intendendola come una forma di pensiero: un'architettura –presumo- volta a riflettere in maniera specifica la sua unità, mentalmente e quindi artificialmente concepita. Cosa ne pensa?

Non ho intenzione di approfondire oltre l'architettura come teoria di una forma di pensiero di questi architetti. Personalmente continuo a credere nell'unità autonoma, corporea dell'oggetto architettonico. Non tanto come dato di fatto naturale, quanto come meta –ardua ma indispensabile- del mio lavoro. La buona architettura è intesa per ospitare l'uomo, a lasciarlo abitare in essa esperendola, e non è intesa a stordirlo con le chiacchiere. Mi piace immaginare di progettare e realizzare delle costruzioni dalle quali, alla fine del processo costruttivo, mi ritiro come progettista, lasciando un edificio che è solo se stesso, al servizio dell'abitare. Un elemento appartenente al mondo delle cose, capace di fare a meno della mia personale retorica. Esiste per me un bel silenzio in relazione a una costruzione, che collego a nozioni come calma, naturalezza, durevolezza, presenza e integrità, ma anche calore e sensualità; essere se stesso, essere un edificio, non rappresentare qualcosa, ma essere qualcosa.

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