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America! Nord e Sud. Architettura vs Natura

Alessandro Bianchi
Le dimensioni territoriali americane, per un europeo, sono davvero impressionanti: sapere di guardare l'oceano Atlantico dalle coste del Brasile e avere alle spalle almeno sette Italie in fila prima di poter rivedere un oceano –stavolta quello Pacifico– mette dentro una specie di respiro profondo e rilassato. È la stessa sensazione che si prova sulle coste nord americane, degli Stati Uniti, anche se in maniera affatto diversa: le dimensioni del territorio sono le medesime, ma le città no. In un caso è la natura che vince sull'urbanesimo, come se l'uomo non ingaggiasse una battaglia già considerata persa in partenza –nell'America Latina– e nell'altro è la città che si oppone allo strapotere della Natura, divenendo una scheggia tecnologica ficcata in un terreno vergine. Si, è forse proprio il potere tecnologico che distingue Nord e Sud America, e le città ne sono l'espressione: comunque impotenti a dominare un territorio vastissimo, il Nord reagisce con dei presidi verticali ad alta concentrazione tecnologica, il Sud con il candore della consapevolezza della resa. Per intenderci, con termini da architetti, l'America tutta non ha la fitta rete di centri urbani -maggiori e minori- e strade tipiche della nostra Europa (sembra quasi una sciocchezza ribadirlo, ma non lo è quando troppo spesso si confrontano con ingenuità realtà europee e americane), ma un territorio praticamente lasco punteggiato a grande distanza dai centri abitati. Facciamo alcuni esempi.

[30sep2004]


Il Sud America. Nel tratto di costa brasiliano compreso tra Sao Luis e Sao Paulo, le città con maggior carattere sono Fortaleza, Natal, Olinda-Recife, Salvador Bahia, alcune di formazione coloniale cinque-seicentesca, altre di creazione più recente otto-novecentesca. In termini molto generali si può affermare che non esistono significative architetture urbane ed individuali che disegnino l'antropizzazione della costa, piuttosto è la Natura che "naturalizza" gli spazi abitati dall'uomo. Non si tratta di una natura complicata e fitta come quella della foresta amazzonica, piuttosto una calma e rilassata potenza naturale che sovrasta ogni desiderio di occupazione urbana dei luoghi. C'è da chiedersi quale sia il carattere morfologico degli insediamenti in questi luoghi in cui la potenza della Natura si mostra con un'inconsueta tranquillità... meglio dire, schiettamente, una tranquillità con la quale è poco saggio scherzare perché nasconde una chiara terribilità di reazione al disconoscimento delle sue regole (e dire che a Leopardi era bastata la Natura italica per tratteggiare il suo pessimismo cosmico!). Pensiamo al tentativo di costruzione di quei quasi 4000 Km di ferrovia nel cuore della foresta amazzonica inghiottititi in breve tempo dall'appetito della vegetazione equatoriale: sono bastate pioggia e vegetazione a cancellare in soli sei mesi la presuntuosa opera umana.



Ebbene forse una morfologia non c'è -o forse non ce n'è una dispotica, all'occidentale– non può esistere, anzi se c'è non può avere forme determinanti a dominio di una potenza soverchiante, la Natura, che oltretutto si burla delle umane fabbriche con una serafica tranquillità. Forse il modello di Brasilia -quello lecorbusieriano- messo a punto per mano di Oscar Niemeyer e Lucio Costa negli anni '60 del secolo scorso, era l'unico possibile poiché si richiamava all'utopia della ville radieuse, al di fuori dei contesti, voltando la faccia alla Natura naturale. Quale errore però in un luogo simile, il Brasile, dove Natura, traslando paradossalmente dal linguaggio politico-economico marxiano, significa Struttura, e forse un po' Architettura!



Fermiamoci un istante sull'edificazione contemporanea, degli ultimi vent'anni; non interventi di conosciuti architetti in campo internazionale, ma la media edificazione di un tessuto urbano, la qualità media, la quotidianità. Il caso è quello di Fortaleza, circa 3 milioni di abitanti. L'insediamento ha un'origine ottocentesca per mano degli olandesi, ma è appunto lo sviluppo contemporaneo che ne caratterizza il volto. Città con economia prevalentemente turistica, dagli anni '80 del secolo scorso comincia la costruzione di torri ed edifici di notevole altezza. Sono quasi sempre rivestiti di mattonelle in gres –si direbbe, a pensar male, che le imprese abbiano uno sponsor ufficioso– e la loro forma, a volte, è interessante. Infatti, soprattutto le torri, sono esili, sottili, e hanno una buona scansione chiaroscurale degli aggetti e degli incavi. L'articolazione complessiva delle masse, poi, a tratti è davvero gradevole. Certo la loro connotazione commerciale (molto spesso si tratta di "flat", residence ad uso turistico ricettivo) non li distingue da un'edilizia di mercato un po' pretenziosa e borghese-celebrativa, ma l'effetto qui non è davvero negativo. Ciò che è evidentemente stridente è invece il rapporto tra il parterre –a volte misero e spicciolo fatto di casupole malridotte e di un lungomare non ben identificato anche se in città– e questi alti e ufficiali edifici. Auto, gente, mercatini di artigianato talvolta miseri, cibi locali che cuociono anche il naso dei passanti, si mescolano disordinatamente alla bellemeglio, mentre i nuovi edifici piastrellati si chiudono all'interno di recinti che cingono militarmente il lotto su cui pesano. Il risultato urbano è la rappresentazione grafica della situazione politica del Paese, e cioè la stridente contrapposizione di povertà assoluta e ricchezza sfacciata. Non esiste una mediocritas, o forse è in via di formazione. In un'intervista rilasciata a D. da Silva Antunes il celebre scrittore Jorge Amado disse: "Una volta sono stato sei mesi in Europa. Alla televisione ho visto dei reportage terribili sul Brasile. Sono arrivato depresso per la morte dei bambini della Candelaria. Ma stando insieme alla gente, camminando per le strade, nei mercati, avendo contatti quotidiani, ne sono uscito un'altra volta rinvigorito e ho potuto constatare che quello che si vedeva in televisione era realtà, ma ce n'era anche un'altra: la lotta del popolo. Il Brasile e' un paese razzista? No, ma ospita milioni di razzisti, soprattutto fra i ceti alti della popolazione. Ci sono alcuni riflessi del sentimento della schiavitù, che si manifestano nel modo di scrivere e di parlare. Ma diversamente dagli Stati Uniti dove un bianco non si mescola ai neri, se non quando un nero occupa un'alta posizione nella società".



Lo schema geometrico della città brasiliana moderna, quella talvolta aggiunta a quella colonialista, non si altera in riconoscibilità in altezza, anzi diventa una sorta di estrusione di un disegno bidimensionale. La città di Recife si scopre durante il decollo in aereo dal suo aeroporto: sembra davvero uno schema assonometrico di una scacchiera senza un poligono regolare che la inscrive. I parallelepipedi sono quasi tutti bianchi, senza una particolare connotazione morfologica che li faccia assomigliare a degli edifici, senza una particolare voglia di mostrarsi come pezzi di città. Ma forse non è proprio così, forse in quel momento è quello che volevo vedere.

Il Nord America. Di tutte le schegge tecnologiche che punteggiano il territorio statunitense, la più rappresentativa è New York. La città delle città americane. Quando ci si arriva in macchina, da lontano, si vedono le sue verticali, le sue torri: succede in quasi tutte le città del nord America, non succede praticamente mai in Europa. Troppo alte e fitte per non essere riconosciute alla distanza quelle statunitensi, troppo isolate e poche quelle delle capitali europee. Ma il confronto, lo riconosco, è peregrino, ha il sapore di una boutade. Tant'è. L'analisi sulla città del Nord America va allora condotto alla rovescia rispetto a quella del Sud: non dall'esterno, dalla Natura che tutto domina, ma dall'interno della città, ancora più precisamente, dall'edificio stesso che è scheggia interna alla scheggia urbana.

La città verticale ha i suoi valori, decrescenti dall'alto verso il basso. La città in alto –quella delle guglie dei grattacieli, dei pinnacoli e delle antenne– non ha sponsorizzazioni, non ha un padrone, è libera e rende liberi gli sguardi di chi la osserva. La città americana rappresenta per antonomasia questo segno di libertà e l'altezza dei suoi edifici ne sono l'emblema: grattare il cielo con degli altissimi edifici – simboli della volontà di essere dell'umanità – significa raccogliere in un setaccio la polvere di stelle necessaria a far brillare il nostro destino mediante la speranza. La città occidentale aspira a queste altezze perché vuole credere nella libertà del sogno, del destino estorto dalle mani di che ne è padrone. Quindi in alto, alla fine dove le linee degli edifici si confondono con la luce del cielo e le polveri dell'aria, c'è la libertà senza compromessi... lassù in alto la scommessa con la propria sorte è vinta definitivamente.



Se abbassiamo lo sguardo con lentezza notiamo in progressione i segni che intrecciano le storie degli uomini agli edifici, le relazioni che ne intrecciano i destini, che ne complicano il miraggio di libertà. Alcune finestre aperte senza una traccia di armonia di disegno –in fondo sono aperte a caso, non ci si chiede perché l'apertura delle finestre non segua un tracciato consono al disegno della facciata– teorie di aste di bandiera coi i drappi orgogliosamente scossi dal vento cittadino, e poi ancora una insegna luminosa o un grande cartellone pubblicitario: la semplicità della libertà e delle linee rarefatte lascia lentamente il posto alla complicazione della città occupata ancor prima che vissuta.

Una città che si lascia travestire dai linguaggi del mercato: l'uomo ancora non c'entra nulla, non è colpevole del rapporto tra edifici e linguaggi applicati, ne è semplicemente spettatore. Lassù, ancora, proprio là dove gli edifici non sono né all'inizio né alla fine, dove i marcapiani segnano il ritmo di passaggio fra la strada e la copertura, dove l'edificio se fosse un uomo avrebbe il suo ventre e poco più su il cuore, esiste il senso della città nord americana fatta di uniformità che si ripetono. Un piano sopra l'altro, e ancora un piano, tutti uguali, tutti importanti e tutti mediocri: rappresentano il fondamento della democrazia, dell'uguaglianza ma, non senza la stessa intensità, la noia della regola. È come se la voglia di essere uguali non sapesse resistere alla necessità di essere tutti diversi, un uomo dall'altro, una finestra dall'altra. Il linguaggio del mercato violenta questa percezione così pura ma nello stesso tempo rende umano e quindi possibile la vita degli uomini fra questi giganti urbani. Quanta alienazione in una città dell'est prima della caduta del muro di Berlino! La purezza delle forme degli edifici urbani non era corrotta da nulla, nessuna contaminazione dei linguaggi, solo puro ideale... città spirituali non adatte alla vita quotidiana, fatta di cose normali e di distrazioni.



Scendiamo ancora: la città scompare sostituita da spazi uccupati da uomini. I limiti non sono certi –fra interno ed esterno, una vetrina, un muro di persone, una barriera di veicoli in semimovimento– e nulla è attendibile o affermabile con sicurezza. Ecco, proprio così, non cerchiamo sicurezze nel parterre delle città nord americane: non una razza, non un'idea, non una regola, ma mille razze/idee/regole. Non applichiamo statistiche ai comportamenti, agli abbigliamenti, agli stili alimentari, piuttosto centrifughiamo i contenuti in un brusio di sottofondo che miscela tutti gli imprevisti. Forse un trait d'union che relaziona tutto c'è, ed è il denaro, e si potrebbe pensare che il motore di ogni cosa sia proprio quello: ma come catalogare tutto, uno sguardo, una carezza, un istinto, di un americano, di un ispanico, di un africano, di un latino, nella spietata classifica dell'economia e dell'edonismo?

Dalle fotografie di Nico Colucci qui allegate tutto appare più candido, quasi involontario: non è uno sguardo disincantato il suo, piuttosto la ricerca, sì, se così si può dire, dell'innocenza. La città nord americana del 2000 appare ritratta con la volontà di ritrovare i valori associativi delle città dei Comuni, quando nel '200-'300 in Italia si stavano formando i valori di fondo della convivenza civile. È una convivenza differente quella della nuova Roma (la città americana), eterogenea e contraddittoria, ma non diversamente da quella che le genti di un tempo avrebbero voluto e che la coeve società moderne hanno modificato secondo nuovi costumi e nuovi valori. La città che cambia è lacerante per la memoria di chi ne ha ricordi d'infanzia, ma lo è ancor di più per chi deve subirne i soprusi discriminatori di vecchie mentalità.



Ecco perché la città americana è come Roma: perché non ha nostalgia di ciò che non è ancora stata ed ha l'ansia di contaminare il mondo con la bellezza della democrazia. Diceva il Presidente John F. Kennedy nella parte conclusiva della sua tesi di laurea ("Why England slept"): "Perché esattamente il sistema democratico è il migliore? [...] È il migliore perché consente il pieno sviluppo dell'uomo come individuo. Tuttavia [...] questo sta ad indicare soltanto che la democrazia è una forma di governo 'più piacevole'. Non che essa è la migliore per affrontare gli attuali problemi del mondo. Può essere un sistema all'interno del quale vivere è grandioso, ma le sue debolezze restano importanti".

Alessandro Bianchi
alessandro.bianchi@polimi.it

Fotografie di Nico Colucci e Linda Spada.

Alessandro Bianchi (1969), architetto e dottore di ricerca, è docente presso la Facoltà di Architettura Società del Politecnico di Milano e l'Istituto Europeo di Design della stessa città. Consegue il Dottorato in Disegno nel 2001, la Laurea in Architettura nel 1996 e l'abilitazione all'esercizio professionale nel 1997, presso l'Università degli Studi di Firenze. Dopo aver svolto attività professionale e di ricerca fra le province di Pesaro, Rimini e Firenze, nel 1999 apre lo studio [abianchi:architecture+design] a Milano. È autore di numerosi articoli e saggi tra i quali si ricorda: La città riconoscibile (Raffaelli Editore, Rimini 1999, vincitore del Premio internazionale "Nuove Lettere" 2003), e Building by Signs/Costruire per Segni: disegno, memoria, progetto (Editrice Librerie Dedalo, Roma 2003). È stato presidente della sede di Firenze dell'Associazione Dottori e Dottorandi di Ricerca Italiani (ADI) dal 1999 al 2000 e responsabile nazionale delle relazioni fra ADI e società di consulenza aziendale.

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