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Twelve, l'ultima opera di Barbara Kruger

Federica Vannucchi, Sergio Mannino



[in english] La città contemporanea è disseminata di messaggi, spesso anonimi, rivolti a gruppi di persone più o meno definiti: messaggi dal contenuto prevalentemente commerciale, ma anche politico, sociale, di protesta, di comunicazione tra bande ecc. Dall'inizio degli anni Ottanta, Barbara Kruger crea delle opere, caratterizzate dalla combinazione di fotografia e testi, e le espone nella città occupando a pagamento i luoghi destinati alla pubblicità. Il contesto urbano, con i suoi contrasti, le sue contraddizioni e distrazioni, diventa il contenitore per l'arte, il presupposto dal quale quest'ultima assume i propri contenuti e la propria forma. Si crea così un rapporto di interrelazione tra l'espressione artistica e la condizione attuale e dinamica della città.

[30oct2004]


I messaggi di Barbara Kruger sono facilmente riconoscibili sotto il profilo grafico e contenutistico: la scelta dei colori, il font e l'uso di immagini in bianco e nero hanno creato un segno originale e definito, che non è sostanzialmente cambiato negli ultimi vent'anni. Il loro scopo è quello di farci riflettere su temi sociali e politici, sugli stereotipi e sui cliché creati dalla nostra società. Il consumismo (I shop therefore I am), il consenso (Pensa come noi, Look like us), la politica (Hate like us), l'amore (Thinking of you) e ancora Your body is a battleground, Love for sale ecc. sono solo alcuni degli slogan e dei temi privilegiati dall'artista americana.

Twelve, l'ultima opera di Barbara Kruger, invece della consueta combinazione di immagini e grafica, è una video-installazione presentata alla Galleria Mary Boone di New York dal 6 marzo al 24 aprile 2004. Se si esclude la retrospettiva al Whitney del 2000, erano 6 anni che la Kruger non esponeva in una galleria newyorkese. L'opera si organizza in una stanza e coinvolge le quattro pareti verticali su cui vengono proiettate contemporaneamente le immagini di un video. Si tratta di 12 storie diverse, 12 dialoghi ambientati in un qualsiasi caffè o abitazione privata. Ogni scena dura dai 6 secondi ai 2 minuti per un totale di circa un quarto d'ora, coinvolgendo 39 attori professionisti. Il video è organizzato in un loop in modo che lo spettatore che entra in galleria è immediatamente proiettato nella scena evitando l'attesa dell'inizio. Non ci sono titoli di coda né di testa, ci ritroviamo immersi improvvisamente all'interno di un dialogo apparentemente privato. La scena coinvolge due, tre o quattro persone, inquadrate a mezzobusto, che parlano nel tentativo di una qualsiasi interazione. Ognuna di loro occupa un'intera parete; lo spazio tra queste, vuoto, è presumibilmente riempito da un piano, probabilmente un tavolo, a cui si siedono gli intelocutori. La parte bassa delle immagini è poi delimitata da parole, brevi frasi, espressioni che l'artista definisce come "fetished frenzies of news" (1), le quali scorrono velocemente su una o due linee. Nonostante la posizione centrale, lo spettatore si sente estraneo alla scena, come se non fosse stata pensata per lui, quasi come fosse un intruso in una conversazione privata.



Gli argomenti delle conversazioni riguardano sia rapporti privati -come quelli di coppia, con i figli, di amicizia- sia temi più generali e mondani. In particolare una delle storie coinvolge i quattro componenti di una famiglia nel momento del pranzo. La moglie rimprovera il marito, perché legge il giornale mentre mangia, e al contempo discute animatamente con i figli. In questo frammento l'artista coglie il delicato rapporto madre-figlia e, mentre le due litigano per una banalità, i sottotitoli vocalizzano i pensieri della madre "Perché ho fatto figli?", e della figlia "Come posso evitare di diventare come lei?". Un'altra scena coinvolge una coppia nell'intento di affrontare una qualunque questione personale. In un primo momento lui sembra sentirsi colpevole di qualcosa e chiede il perdono di lei; ma via via che la discussione procede e aumenta di intensità, le scuse si trasformano in accuse e la donna soccombe alle angherie rivelando un atteggiamento di rassegnata sottomissione. Anche qui i sottotitoli riportano i pensieri intimi dei protagonisti come rivelato dall'espressione "Mi odio quando sono con te" riferita a lei.

Nel tentativo di seguire la scena appare evidente che non esiste comunicazione, le parole cadono come brevi dichiarazioni, affermazioni -spesso urlate- che non implicano necessariamente un senso relazionale. Il dialogo non sembra avere come motivo la reciproca comprensione ma esprime un personale disagio o una necessità di supremazia. Lo spazio tra le pareti, privato di quello interattivo, si appiattisce nella bidimensionalità dello schermo, come appare evidente nel dialogo a quattro a proposito dei meriti di un'artista donna, in cui ciascuno sembra tendere più a mettere in luce le debolezze e le contraddizioni del pensiero altrui che ad esporre il proprio. Le immagini appaiano come momenti estratti dalle news quotidiane e i personaggi del video sembrano emulare il telecronista televisivo. Come spiega la stessa Kruger "...ci sono dei sottotitoli scorrevoli in basso come nella CNN". (2)

Le scritte scorrono incessantemente descrivendo i pensieri dei personaggi, sovrapponendosi alle parole come un flusso di pensieri ridotti a semplici e fredde affermazioni, momenti fugaci, espressi nella loro forma più banale, negando qualsiasi singolarità del soggetto. Di fatto le espressioni utilizzate sembrano rubate da un sistema collettivo e, nel momento in cui sono utilizzate in una conversazione privata, sembrano ridurre l'originalità espressiva dell'individuo. La diffusione nella società moderna di un sistema generalizzato di informazione ha creato e continua a sviluppare un linguaggio comune costituito da segni semplici e di immediata comprensione. Si è sviluppato una sorta di codice che tende a facilitare ad ogni individuo l'accesso a servizi ed informazioni. Parole tipo "PLAY", "REWIND", "SAVE" o "GAME OVER" sono esempi di segni facenti parte di quel codice che diventa giorno dopo giorno sempre più comune. La sua diffusione si estende dal sistema dei media al linguaggio ordinario su cui si articola una comunicazione interpersonale, una base comune per la comprensione e lo scambio. Nel momento di interazione si riducono le differenze e le singolarità, creando una spersonalizzazione della discussione stessa fino al banale e allo svuotamento di senso.



I media creano quelli che Baudrillard definisce iperreali o più precisamente Simulacra -la copia senza l'originale. "Non è più una questione di imitazione, o di duplicazione, e nemmeno di parodia. È piuttosto una questione di segni sostitutivi del reale per il reale stesso". (3) Se i media sono il mezzo tramite il quale le informazioni si diffondono, l'informazione viene assimilata e modificata dai media, creando una realtà parallela. Il messaggio non solo modifica la percezione del reale, ma anche la percezione che l'individuo ha di sé. La visione personale viene quindi distorta seguendo un parametro iperreale: "You are not yourself", come Barbara Kruger ci ricorda. È interessante osservare il duplice rapporto che l'artista ha con i media, da una parte il contenuto della sua opera critica il mezzo, dall'altra ne fa uso. Negli anni Ottanta Barbara Kruger usa il poster, nel 2000 usa il video, come a sottolineare che l'arte non può non tenere conto dell'evoluzione del sistema di comunicazione e degli strumenti materiali che lo caratterizzano. La scelta del mezzo diventa scelta critica appropriata al momento contingente.

Dare una definizione di arte oggi è una questione complessa dal momento che il solo valore estetico non è più sufficiente a giudicare un'opera. "Nella prima metà del ventesimo secolo, ma ancor prima durante buona parte del diciannovesimo, critici e storici dell'arte e dell'architettura hanno fondato i loro giudizi su opere ed artisti su un'idea d'origine hegeliana: Hegel contrappose alla classica categoria dell'imitazione della natura quella della rappresentazione di un'idea: l'artista rappresenta qualcosa che va oltre la sua propria individualità, un'idea che lo trascende e che in qualche modo appartiene ad una sfera a lui superiore." (4) Enzo Mari intende l'arte come conforto di fronte a due grandi misteri: il concetto di infinito e il concetto di nulla; "le religioni risolvono questi problemi con atti di fede, ma concretamente rimane l'assurdità di questa condizione, e il fatto che l'unica dignità, l'unico conforto in questo vuoto sia dato da qualche poesia, da qualche opera d'arte... ciò che ci rende capaci di vivere con un incubo (vale la pena di ricordare l'etimologia del verbo incubare: giacere sopra)... È questo che intendo con il concetto di realizzazione di un'opera totale, quella che possa aprirsi alla nostalgia della vita" e ancora, "tendere alla forma totale corrisponde al desiderio di rappresentare ciò che implicito in Dio, indipendentemente dalla sua presenza o assenza." (5)



Molti artisti cercano di rappresentare il mistero dell'esistenza, della creazione, della morte, dell'amore ecc. Pensiamo a Francesco Clemente con i suoi corpi avvinghiati in abbracci impossibili, genitali enormi, uteri e bocche che racchiudono storie inspiegabili; pensiamo a Enzo Cucchi, a Dan Flavin e a molti altri. Pensiamo alle architetture o ai mobili di Sottsass, alle opere metafisiche di Aldo Rossi o a quelle silenziose di Louis Kahn. Pensiamo anche a Vanessa Beecroft che con le sue performance cerca in qualche modo di catturare il mistero che sta dietro alle persone, di catturare, cioè, quell'aura che si nasconde in ognuno di noi e che inevitabilmente sfugge quando si prova a rappresentarla sulla carta o sulla tela.

Ma ci sono artisti che seguono anche altri percorsi, che si sono incamminati su territori non del tutto esplorati; artisti che ritengono che l'arte abbia soprattutto un valore sociale, che serva a cambiare il mondo o per lo meno a farci riflettere sulle sue ingiustizie o incongruenze. Judith Malina e Hanon Reznikov del Living Theatre dicono che "la nostra civiltà ha probabilmente 6000 anni e se consideriamo per comodità che la vita media di un uomo è di 100 anni significa che 6000 anni sono soltanto 60 vite una dopo l'altra. È una civiltà, dunque, molto giovane e in quanto tale abbiamo molto da imparare per farla funzionare al meglio, c'è ancora speranza". (6) "Il Teatro ha una funzione sociale e, in quanto forma d'arte, deve battersi per migliorare il mondo". (7)

Barbara Kruger è sicuramente tra gli artisti che stanno provando questo cammino e dove porterà non lo sappiamo, non sappiamo cosa sarà di queste opere tra 100 o 500 anni, ammesso che questo abbia importanza. Non sappiamo se qualcuno le ricorderà ancora o se potranno essere lette nello stesso modo di oggi. È una strada rischiosa come tutte le strade di cui non si conosce lo sviluppo ma è un tentativo, a nostro avviso consapevole e profondo anche perché, fra l'altro, è il tentativo di rappresentare quel brevissimo e fugace istante che è il presente.

Federica Vannucchi
fedearc@yahoo.com

Sergio Mannino
sergiomannino@hotmail.com
Tutte le immagini sono riferite all'installazione Twelve di Barbara Kruger, Mary Boone Gallery, New York, marzo 2004.
Federica Vannucchi (Prato, 1973) si laurea in Architettura presso l'Università di Firenze con il prof. Alberto Breschi. Partecipa a diversi concorsi di architettura e nel 2001 riceve il secondo premio per la "Biennale dei Giovani". Nello stesso anno entra a far parte dello studio Eisenman Architects a New York, per il quale tuttora lavora. Ha collaborato alla realizzazione del Museo dell'Olocausto a Berlino ed è responsabile de progetto per la Città della Cultura a Santiago di Compostela in Spagna.

Sergio Mannino <www.sergiomannino.it> (Firenze, 1969) si laurea in Architettura presso l'Università di Firenze con Remo Buti ed Ettore Sottsass progettando una serie di case monofamiliari a Varsavia. Insegna nel corso di Arredamento di Remo Buti dove ha l'opportunità di approfondire i temi dell'architettura degli interni e del design. Partecipa a diversi concorsi di architettura e di design e nel 2000 vince, insieme a Lucia Gori, il "Concorso di idee per il recupero dell'area ex-Longinotti" a Firenze. Nel 2002 presenta la sua prima personale presso la Galleria Postdesign di Milano, esponendo 9 mobili e 100 acquerelli. Attualmente vive a New York, dove si occupa di architettura, design e grafica, con uno speciale interesse per l'aspetto sensoriale della progettazione e per lo studio dei cambiamenti della struttura urbana come risultato della coesistenza di diverse culture e tradizioni.

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