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Reale o virtuale?

Luigi Prestinenza Puglisi



Reale o virtuale? Potremmo chiudere subito la questione notando la non risolvibilità del dilemma. È impossibile, infatti, afferrare compiutamente il senso del primo termine: da secoli i filosofi cercano, senza successo, di farsi una idea soddisfacente di cosa sia il reale. Se non ci sono riusciti in tanto tempo, è difficile che in così poco riusciamo a farlo noi. E, non essendoci una chiara definizione del primo termine, tanto meno possiamo pensare di comprendere il secondo che altri non è che il negativo dell'altro: non ci vuole una grande scienza per arrivare alla conclusione che il negativo di un indefinibile è a sua volta indefinibile. Ciò in via filosofica; in via empirica ovviamente è tutto un altro discorso perché nella vita di tutti i giorni, abbiamo una certa idea di cosa sia la realtà e di conseguenza la virtualità. E pazienza se vi sarà una certa confusione nei termini; l'ambiguità, se poco gioca alla perfetta comprensione, crea allo stesso tempo una affascinante aura che ispira artisti e creativi. Si pensi per tutti al recente trilogia di Matrix, giocata sullo scontro tra corpo e avatar, dove non si riesce mai a capire –se non forse alla fine, ma con una perdita di intensità narrativa- se il protagonista Neo sia vero o sia falso, un personaggio come noi o un prodotto del computer. E come l'interrogativo alla fine metta in crisi le stesse certezze degli spettatori. Cosa è il reale? Si chiede, in un vertiginoso ragionamento, il personaggio che recluterà Nio: un po' come faceva nei suoi romanzi degli anni Sessanta quel geniale schizofrenico di Philip Dick o, molto prima, il vescovo di Berkeley quando nel settecento voleva convincere i suoi lettori al solipsismo, dimostrando l'assenza di qualsiasi realtà esterna alla mente. Un po' come oggi continua a fare Jean Baudrillard che nel libro Il delitto perfetto denuncia la crescente assenza di una realtà (ma questa realtà –ci chiediamo- è mai esistita nei termini da lui rimpianti?) che sempre di più fuggirebbe nascondendosi dietro i simulacri della virtualità. O come catastroficamente accenna Virilo nei suoi libri apocalittici che vedono il mondo perdersi dietro i ritmi sempre più accelerati che la cultura dei simulacri e del tempo reale imporrebbe.

Dato per scontato un approccio empirico, vediamo allora se riusciamo capire meglio che funzione possa avere la virtualità nella definizione del nostro spazio esistenziale e sino a che punto possiamo valutarne positivamente il contributo. Notiamo subito che per tale termine il dizionario da due definizioni, tra di loro diverse. Virtuale, infatti, è ciò che esiste in potenza e anche ciò che è fittizio, irreale, pura immagine. Lasciamo subito la prima definizione anche se notiamo di passaggio che il richiamo alla potenzialità di un Evento (lo scrivo con la maiuscola in omaggio ai fenomenologi) contribuisce a dare alla parola un'aura per certi aspetti magica: la virtualità come prefigurazione di qualcosa che deve venire, come segno di una Realtà Altra (maiuscolo sempre per la stessa ragione) che sta dietro l'immagine. Un critico accorto non può non intravedervi il segno di speranze, sicuramente eccessive, che molti ripongono nelle immagini di sintesi e nel web sino a trasformarla in una sorta di cyberplatonismo. Ma questo è un altro discorso che spero avremo modo, forse in altra sede, di affrontare. E veniamo alla seconda definizione di virtuale: fittizio, irreale, frutto della fantasia, o meglio, del gioco della duplicazione dell'immagine tramite uno strumento riflettente. Se volessimo risalire all'antichità ci verrebbe in mente il carattere magico attribuito agli specchi e il mito di Narciso che guardando se stesso riflesso nell'acqua annega, punito certo dalla sua vanità ma soprattutto dall'aver scambiato il falso dell'immagine con il vero del corpo. Forse è eccessivo vedere già da questo racconto frutto della saggezza greca la nascita o la prima cristallizzazione di un atteggiamento, ricorrente nella cultura occidentale, contrario alla riproduzione del reale, ostile alla virtualità. Ma certo non è difficile rintracciare, in quasi tutte le epoche, almeno dei sospetti nei confronti dei simulacri accusati di celare ciò che, invece, viene rivendicato come giusto e vero. E come, nello stesso tempo, a questo atteggiamento se ne contrappongono altri contrari che rivendicano la bontà del simulacro, sia per scopi pratici che conoscitivi. Panofsky, nel suo fondamentale saggio Idea.Contributo alla storia dell'estetica mi sembra che, attraverso il concetto di copia derivato dalla filosofia di Platone, abbia messo in evidenza una tra le tante di queste dispute, mostrando per di più come, nel corso del tempo, una stessa concezione filosofica possa essere ribaltata, trasformandosi da strumento di lotta alla mimesi in strumento di sua giustificazione teorica.

Ritornando alla virtualità, mi sono sempre chiesto cosa è che rende un oggetto somigliante a un altro. Poiché la mia formazione è da architetto, ho dato una risposta in termini di geometria proiettiva. Un oggetto è immagine di un altro quando ne rappresenta una proiezione: un po' come succede quando si disegna una pianta di un appartamento e ad ogni punto della rappresentazione ne corrisponde uno dell'oggetto reale. Naturalmente non sempre avviene che le proiezioni, come invece accade nel caso della geometria descrittiva, sono esatte nel senso che ad ogni punto della realtà ne corrisponde uno e uno solo del simulacro e viceversa. A volte le proiezioni sono, per così dire, deformate, quasi delle anamorfosi. Come accade con una caricatura. A volte sono squisitamente metaforiche, come accade alla finestra di un computer rispetto alla finestra vera: ma qui andiamo oltre la virtualità della semplice apparenza.
Cosa è che si proietta da un oggetto a un suo simulacro? Direi una forma, cioè il modo in cui certe cose sono organizzate. L'epistemologo Gregory Bateson ha mostrato nei suoi saggi, ritornandovi con una certa insistenza, che i termini forma, relazione e struttura possono esser considerati come sinonimi. Tanto è vero che la frase di prima -un oggetto proietta la propria forma sul simulacro- potremmo anche esprimerla, senza che questa perda il suo senso, in altri due modi: un oggetto e un suo simulacro hanno tra di loro delle rilevanti relazioni in comune, oppure la struttura di un oggetto e quella del suo simulacro hanno tra di loro rilevanti affinità.

Del resto che debba esserci una analogia tra realtà e sua immagine, non lo metterei proprio in discussione. Mi sembra che sia questa una conclusione alla quale si arriva da numerosi punti di vista, anche tra loro diversi. Gli scienziati quando parlano di modelli fanno riferimento al concetto di proiezione e lo stesso Wittgenstein, per esempio, nel Tractatus parla più volte di proiezione tra la struttura della realtà e quella del linguaggio nel momento in cui vuole stabilire un nesso tra le parole e le cose (mi piace pensare che questo approccio derivi da una propensione all'architettura che lo porterà a realizzare la casa della sorella concependola come una forma di virtualizzazione del proprio pensiero).

Insomma, e anche a costo di ripetermi: ammesso che un oggetto virtuale sia riconosciuto come il modello di uno reale, dobbiamo ipotizzare che esiste una relazione, una struttura comune, una analogia di forma, una proiezione verificabile se no non sarebbe possibile alcuna valutazione intersoggettiva: ognuno di noi potrebbe vedere quello che vuole e, per usare un esempio famoso, scambiare la propria moglie per un cappello.

Ma prima di sviluppare ulteriormente questo argomento vorrei fare un passo indietro e analizzare un'altra equivalenza messa in luce da Bateson: tra forma e informazione. Li lega un fatto tanto profondo quanto banale: che la comunicazione si può produrre solo attraverso differenze (una parola significa perché si differenzia dalle altre, un evento mi dice qualcosa perché ne esclude altri) e non c'è altro modo di produrre differenze che attraverso una forma cioè una struttura che, grazie a un sistema di relazioni suo caratteristico, si –per così dire- autodelimita chiaramente rispetto al resto del mondo. Per capire questo concetto che sembra astruso ma che in realtà è semplicissimo pensiamo a un'orma nel deserto: i granelli da soli non significherebbero molto ma costituitisi in forma e relazionati in un certo modo ci danno una informazione, ci dicono che è passato qualcuno.

Qualunque oggetto noi vediamo, proprio perché ha una forma, è latore di informazioni. Mi accorgo, per esempio, che in lontananza sta venendo una persona perché ha una certa sagoma, cioè ha una certa immagine. A volte le forme non sono visive; possono essere acustiche- un certo rumore mi dice per esempio che sto vicino al mare -o olfattive- riconosco la fuga di gas da un certo odore -oppure tattili- sento un corpo nel buio toccandolo -e infine gustative- riconosco la torta che mi ha preparato la tal persona anche a occhi chiusi. È, per farla breve, attraverso i sensi che si trasmettono i dati che servono al riconoscimento delle forme, sono loro che trasmettono le informazioni al cervello che le dovrà processare.
Cosa succede con la realtà virtuale? Direi che i nostri sensi raccolgono informazioni che provengono da un modello e le comunicano al cervello che le confonde per informazioni che invece provengono da un oggetto reale.

Il processo, naturalmente ha diversi gradi. Prendiamo, per esempio una statua di cera. Se è grossolana e la guardo da vicino mi accorgo subito che si tratta di un simulacro. Le informazioni che mi darebbe il corpo di un essere vivente non sono, infatti, uguali a quelle che mi provengono da questo oggetto rudimentale. Ma se, per esempio, pongo la stessa statua a una debita distanza, allora può darsi che mi inganni: in questo caso le informazioni che mi fornisce potrebbero coincidere con quelle che mi fornirebbe un soggetto in carne e ossa visto in lontananza. Ammettiamo adesso che la statua sia eseguita con grande abilità e sia pertanto molto somigliante. In questo caso mi potrebbe ingannare anche se posta a pochi metri. Come faccio a accorgermi che si tratta di un falso? Cerco altre informazioni: vedo se respira, se si muove, se interagisce con me.

Ammettiamo adesso di entrare in contatto con un robot con le nostre fattezze. Il gioco diventa più difficile. Posso tentare di risolverlo ricorrendo a informazioni molto più sofisticate, per esempio ricorrendo all'olfatto nell'ipotesi che ci sia dell'olio per lubrificarne i meccanismi e questo emani un particolare odore, oppure cominciando a interrogarlo: per esempio con il test di Turing oppure, ricorrendo ai suggerimenti datici da Dick per smascherare gli androidi.

Naturalmente potremmo pensare ulteriori raffinatezze messe in atto dal falsario sino a presupporre simulacri che ci trasmettano informazioni tali da essere totalmente indistinguibile da quelle emesse dall'oggetto reale. A questo punto dobbiamo fermarci perché ciò vuol dire o che reale e virtuale sono diventati pressoché la stessa cosa oppure, come è più probabile, che noi, allo stato attuale della conoscenza, non siamo più in grado di distinguere tra copia e vero. Lasciamo questo ultimo interrogativo, che ci si presenta come caso limite, a una riflessione successiva. Notiamo però subito che la nostra risposta agli stimoli che riceviamo è sempre ipotetica e falsificabile perchè le informazioni richiedono sempre una interpretazione e, in linea di principio, ve ne sono sempre numerose possibili. Anche se non tutte sono ugualmente probabili come ci dimostra, in un recente film di intrattenimento (il film è Shall we dance?) il colloquio tra un detective e la moglie preoccupata la quale cerca di spiegare i ritardi del piacente marito e le tracce di profumo nelle sue camicie con la partecipazione a riunioni d'affari in sale addobbate con fiori profumati.

Se torniamo, ora ai casi più concreti e più comuni di virtualità che ci si presentano ogni giorno, notiamo che tra questi vi è sicuramente quello delle immagini di sintesi. Oramai se ne riescono a creare via computer tali che sembrano in tutto e per tutto fotografie di oggetti reali e in alcuni film –penso per esempio al film Final Fantasy- non siamo più in grado di riconoscere se l'attore è in carne e ossa o un pupazzo 3D. Occorre però dire che tali effetti sono, in un certo senso, relativamente facili da perseguire. L'inquadratura dello schermo riduce, infatti, la richiesta di informazioni a una serie limitata di dati visivi, mentre non entrano in gioco informazioni più complesse che, invece, richiederemmo a un oggetto che si colloca nel nostro mondo di tutti i giorni quale, per capirci, la statua di cera dell'esempio precedente.
Facciamo un'ulteriore osservazione, notando che il riconoscimento non dipende solo dalla quantità di informazioni ricevute ma anche e soprattutto dalle capacità del soggetto di riconoscerle, cioè della sua abilità, esperienza e cultura. È infatti noto, almeno dagli studi della Gestalt in poi, che le informazioni sono trattate da ciascuno in un modo diverso, a seconda dei propri modelli mentali. Prova ne sia che quando ne riceviamo di realizzate ad hoc per mettere in crisi le nostre aspettative –è il caso degli effetti ottici prodotti da false prospettive- le processiamo in modo errato per volerle inserire a tutti i costi all'interno di categorie interpretative a noi consuete e ciò anche a costo di visoni paradossali che producono orribili mal di testa. Insomma non solo noi interpretiamo sempre la realtà secondo concezioni che sono in un certo senso a priori, cioè che sono preesistenti la nostra particolare esperienza, ma opponiamo anche molta resistenza a modificarle.

Che noi procediamo al riconoscimento di un modello virtuale mediante uno o più modelli mentali era, d'altronde, facilmente prevedibile. Chiunque abbia una minima dimestichezza con la scienza e la tecnologia sa che la verificazione di un modello fisico tramite uno concettuale è la condizione di qualsiasi conoscenza, non solo scientifica ma anche storica e/o sociologica, se vogliamo dar retta a Weber, a Simmel e alla loro teoria dei tipi ideali. La virtualizzazione, la modellizzazione appare quindi come qualcosa in più che un gioco di occultamento della realtà, essa è infatti la proiezione all'esterno di ciò che noi operiamo all'interno della nostra mente. In questo senso rappresenta il destino di una civiltà, quella umana, che senza procedere per modelli avrebbe fatto ben poca strada. La scienza si sarebbe fermata al mito e forse neanche a questo perché anche in questo tipo di cultura operano in forma, a mio avviso primitiva, molti dei meccanismi tipici della modellizzazione (l'argomento, mi rendo conto, ci porterebbe lontano e quindi lo tronco qua).

Dicevamo che l'avatar, il simulacro è in tutto e per tutto un modello. D'altronde basta avere pratica di un computer per sapere quanti programmi –aventi a che fare con la geometria, la teoria della luce e dei colori ecc… ecc…- occorrano per realizzare una buona immagine di sintesi. Da qui due avvertimenti.

Il primo è che –diversamente da ciò che avviene in Matrix- non bisogna mai scambiare il simulacro con la realtà, le parole con le cose. Anche se –come sembra certo da Kant in poi- non sapremo mai cosa siano le cose, dobbiamo sempre ammettere che i modelli che ce le descrivono sono strumenti e come tali sempre soggetti a revisione. Non solo nel senso che si possono trovare forme di rappresentazione sempre più complesse ma che i criteri che ne stanno alla base possono essere messi radicalmente in crisi per far posto ad altri completamente diversi che ci permettono di vedere la realtà da un altro punto di vista, anche radicalmente diverso. Né più né meno di come i modelli newtoniani sono stati messi in crisi da quelli einsteniani e questi da quelli probabilistici. Sembra quasi inutile ricordare che se per la scienza c'è una certezza, è quella di non averne: motivo per il quale appaiono profondamente ingenui coloro che credono che si sia raggiunta o si possa raggiungere in un futuro più o meno lontano l'ultima frontiera della virtualità. Il virtuale –lo ripetiamo- è sempre giudicato, in ultima istanza, dai nostri schemi mentali e questi, come la storia ci ammonisce, sono storici cioè precari. Magari non cambiano così velocemente e repentinamente, come vorrebbero i kuhniani, ma sicuramente non sono nè statici né immobili, soprattutto in epoche come queste soggette a una incredibile accelerazione (in proposito mi sembra molto interessante la sintesi che Freeman Dyson tenta tra i modelli sostanzialmente a priori dei paradigmi kuhniani e la concezione antagonista di Gerald Holton di una scienza che cambia attraverso il perfezionamento dei suoi mezzi di indagine,cioè in cui lo strumento, costruito in relazione a un modello mentale, opera in feedback sul modello stesso modificandolo).

Il secondo avvertimento è che, da un punto di vista euristico, di regola è bene che il modello sia limitato a poche relazioni. Se sono tante se ne perde l'utilità. Per capirci con un esempio sempre ripreso dall'architettura: se in una pianta mi limito a disegnare cinque o sei categorie di oggetti, questa mi sarà di grande giovamento ma se voglio rappresentare ogni tipo possibile di relazione allora correrò il rischio di fare la fine dei geografi del racconto di Borges che, accecati dal mito di realizzare una mappa perfetta, alla fine fecero un inutile doppione di ciò che volevano rappresentare. Inoltre per motivi pratici, può essere opportuno deformare certe relazioni per farle venire meglio alla luce. Chi si occupa di statistica sa che a volte un grafico con una ordinata fuori scala dice molto di più che un grafico canonico e che una TAC, grazie ad una deformazione cromatica, mette in evidenza malattie che altrimenti sfuggirebbero alla vista.

Detto questo però non bisogna, a mio avviso, neanche esorcizzare le rappresentazioni più vere del vero. Non sempre il rischio stigmatizzato dal racconto di Borges è effettivo. Pensiamo in proposito alla fotografia: quando nacque alcuni ingenui pensavano che rappresentasse inequivocabilmente il vero. E i pittori la accusavano di essere uno strumento che grazie a un accecante realismo nascondeva piuttosto che svelare. Non c'è voluto molto, invece, per verificare quanto l'occhio fotografico fosse interpretativo più che descrittivo, soggettivo più che oggettivo, storico più che assoluto. Allo stesso modo possiamo dire che chiunque abbia anche un minimo di dimestichezza con la virtualità sa distinguere tra esperienza e esperienza, modello e modello esattamente come un fotografo percepisce subito la differenza tra gli scatti di due epoche diverse. Motivo questo per chiudere con una nota di tranquillità, che diventa ottimismo quando ci rendiamo conto che la proliferazione di rappresentazioni virtuali, di modelli e di occhi meccanici ci permette di vedere il mondo in modo sempre nuovo. Oggi per esempio grazie alla virtualità dell'immagine guardiamo in contemporanea la realtà da mille punti di vista. Ci godiamo le gare di automobilismo con gli occhi dei piloti; ingrandiamo, rimpiccoliamo e rivediamo gli eventi rallentati o accelerati; atterriamo negli aeroporti con la nebbia e operiamo senza avvicinarli e con precisione millimetrica i pazienti più gravi. Mi rendo conto che tutto questo spaventi. E capisco anche le ragioni dei profeti di sventura alla Virilio. Ma, personalmente, non posso non valutare gli aspetti positivi e le potenzialità di una virtualità che moltiplicando l'informazione sta rendendo sempre più intellettualmente sofisticato il nostro modo di rapportarci con il mondo.

Luigi Prestinenza Puglisi
l.prestinenza@agora.it
[22dec2004]
> LUIGI PRESTINENZA PUGLISI

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