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Fiera, Fiera delle mie brame...

Pietro Valle



Una recente visita alla vecchia Fiera di Milano ha dischiuso un mondo parallelo cresciuto disordinatamente all'interno della città. I vecchi padiglioni sono stati suddivisi, superfetati, sostituiti parzialmente, nuovi volumi si sono aggiunti e tutto ciò è avvenuto all'interno di un recinto separato dalle strade urbane ma contiguo ad esse. La Fiera è così un pezzo di città ma è altro rispetto ad essa, un hortus conclusus, un sistema random interstiziale, additivo, casuale. Lo spazio ha frammenti d'ordine in assi carrabili qua e là ma il resto è spesso un vuoto di risulta tra contenitori neutrali. Nel camminare tra essi ci siamo persi senza sapere dove erano fronti e retri, siamo penetrati in collegamenti sotterranei tra edifici separati e siamo riemersi in posizioni diverse da quelle che ci aspettavamo. È tuttavia affascinante pensare che un luogo fieristico, ordinato dai ritmi effimeri (ma iperprogrammati) delle manifestazioni temporanee possa invecchiare, accumulare disordine, casualità, proliferare senza piano.

[15apr2005]
La Fiera ci si è rivelata, in un giorno qualsiasi, come un locus solus, un terreno di possibili meraviglie, un'eterotopia abitabile da molteplici forme d'immaginazione perché una logica generale non era data, o forse si era persa per strada nel corso dei decenni. Nello spietato efficientismo immobiliare della Milano ottocentesca e moderna, quest'isola fieristica era lo specchio della città, quello che essa avrebbe potuto essere. Tuttavia, questa potenzialità non si rivelava subito, non era programmabile, emergeva a caso. Nella vecchia Fiera ci si doveva perdere per capirne la portata. L'uso del tempo nelle frasi precedenti è al passato: la Fiera c'è ancora ma il suo destino è segnato. Sarà sostituita da un nuovo quartiere direzionale segnato dalle tre torri sghembe di Arata Isozaki, Zaha Hadid e Daniel Libeskind. Intanto si è trasferita a Rho-Pero nel nuovo complesso progettato da Massimiliano Fuksas.

Questa nuova fiera si lega forse all'urbanizzazione diffusa che prolifera nel territorio ma è decisamente fuori città. Si legherà al centro in maniera virtuale, attraverso la comunicazione degli eventi ma non lo invaderà più: nei prossimi anni il Salone del Mobile, il Macef o la Settimana della Moda non creeranno ingorghi di traffico e non popoleranno i quartieri di coloriti visitatori ma li faranno fluire in un non-luogo simile ad un'infrastruttura di transito più consona a far dimenticare che a creare sorprese.

 
24 novembre 2004. Vista aerea del Nuovo Polo Fiera Milano.

Simile ad un aeroporto, la nuova Fiera di Fuksas è un gigantesco sistema lineare terminale. Un'asse centrale lunga 1,3 chilometri serve una serie di capannoni disposti simmetricamente. La prima radicale differenza con la vecchia fiera sta tutta in questa scelta: lì ci si poteva perdere, qui no: si va da qui a lì, dall'inizio alla fine del mall e poi non si può che tornare indietro, gli incroci sono vietati. Certo, ci sono gli anelli stradali perimetrali, i tapis roulant e tutti gli artifici per saltare le puntate intermedie ma da qui bisogna sempre tornare: la gerarchia è inesorabile ed è enorme perché è stata programmata per accogliere future crescite senza aggiunte. Anche il tempo, quello di lunga durata è eliminato in partenza.


12 marzo 2005. La vela all'alba.

Oltre che lineare il sistema è binario: la Fiera si presenta con una doppia identità in vari aspetti. L'asse centrale lineare è coperto dalla vela, un artificio di forma organica e molle composto da una struttura reticolare metallica riempita di pezzi di vetro tutti diversi. Posta ad un'altezza da terra variabile, essa tuttavia non copre il percorso terreno ma un viadotto pedonale elevato al primo livello che serve in fast forward i vari padiglioni con tappeti mobili. Scopriamo che il piano nobile è riservato a coloro dotati di pass mentre il terreno è per i rimanenti, i comuni mortali. La vela splende dunque lassù, anzi quasi abbaglia (e riscalda) grazie all'effetto serra del vetro che si avvicina pericolosamente alla passeggiata superiore. A livello terreno essa è schermata da un viadotto di cemento, opaco e pesante sotto il quale sono posti banali corpi al neon. Certo, i due livelli sono continuamente collegati da scale ma l'effetto totale della vela è negato ad entrambi: da quaggiù è invisibile e lassù è troppo vicina e con le gambe mozze. Per donare un po' di luce al livello inferiore, Fuksas ha collocato degli specchi d'acqua intorno ai capannoni (molto high-modernism anni '50, già impiegati negli headquarter Ferrari a Maranello) che riflettono il vetro in alto. Grazie a questi, il portico inferiore si anima di momenti di luce inattesi e risulta forse più atmosferico dell'abbaglio continuo del percorso elevato.


24 marzo 2005.

Il giorno dell'inaugurazione il livello superiore era negato a coloro sprovvisti di invito speciale per assistere alla passeggiata ufficiale del Presidente del Consiglio e la gente si accalcava al di sotto controllata da decine di guardie che sbarravano i punti di risalita. La divisione in livelli e l'accesso negato mi hanno fatto pensare alla potenziale discriminazione che può assumere lo spazio. Nell'adottare in maniera rigida la divisione di flussi su più livelli, la separazione tra spazi serventi e serviti e la successiva compensazione di questa esclusione con il dono dell'acqua, Fuksas ha creato un perfetto analogo dell'Italia Berlusconiana, quell'Italia che ha tanto denigrato nelle sue dichiarazioni ufficiali (o almeno nelle polemiche ad effetto che ha imbastito nei giorni dell'inaugurazione). Sopra scorrono gli eletti, i titolati, gli autorizzati (gli imprenditori forse?) che rifulgono nell'abbaglio della vela, sotto arrancano gli altri ai quali è donato qualche colpo di luce che gli ricorda che, se sono competitivi, possono salire la scala sociale. Forse questa interpretazione può sembrare esagerata ma ben si accompagna alla logica dello spettacolo che divide l'architettura della vela da quella del restante complesso, e qui entriamo nel secondo sistema binario. Certo, ci sono alcune sale riunioni che sembrano astronavi elevate su zampe ma in generale il linguaggio dei padiglioni e delle palazzine ad uffici si adegua ad un anonimo ipermodernismo ortogonale, materialmente cheap e Koolhaasiano. I padiglioni espositivi sono enormi scatoloni con struttura metallica e reticolari a vista, le palazzine dei reticoli di curtain-wall. La vela invece no, è il colpo di scena, il blob reso fisico, il post-effetto che copre l'asse centrale come una ragnatela calata su una realtà che potrebbe vivere di vita propria anche senza di essa. L'architettura della Fiera si divide così in struttura (anonima) e sovrastruttura (spettacolare), non cerca di integrarle ma gioca sulla loro opposizione.

Un recente articolo di Valerio Paolo Mosco su "L'Industria delle Costruzioni" denuncia la doppia natura ipermodernista ed espressionista di Fuksas polarizzandole nelle due recenti realizzazioni della Ferrari (una glass box molto fifties) e dello showroom Nardini (un theme park preistorico-fantascientifico con dischi volanti e caverne). Qui alla Fiera le due identità sono riunite, hanno precisi ruoli ma Fuksas non sceglie. La sua architettura copre tutte le opzioni e offre un doppio servizio un po' come facevano i maestri eclettici di fine Ottocento: quello funzionale, efficace e sfuggente e quello rappresentativo, teatrale e retorico.


24 febbraio 2005. Il lucernario visto dall'interno del padiglione.

Naturalmente l'attribuzione dei ruoli segue anche una logica di efficienza economico-comunicativa: il blob ti catapulterà sulle riviste internazionali ma costa: meglio quindi limitarlo nel luogo più pubblico. Il resto va con la vecchia produzione di serie, ripetitiva e squadrata. L'opportunismo di Fuksas che pesca a piene mani dallo spettro di opzioni formali presenti sulla scena architettonica contemporanea raggiunge qui l'apice: il cinismo di Koolhaas che accetta lo status-quo si unisce al gesto organico che crea la nuova agorà pubblica per il tempio del commercio. A questo punto la camaleontica personalità dell'architetto romano è patibile di molteplici paradossali interpretazioni. Proviamo ad immaginarne alcune:
- Fuksas è il rappresentante di un pragmatismo che gioca sul confine tra riconoscibilità e anonimato. I suoi pezzi sono segni forti ma non sono riconducibili a un trademark unitario. Cambiando registro, si adattano alle occasioni creando una continua novità senza memoria. Per fare questo l'architettura deve giocoforza divorziare tecnica e immagine;
- Fuksas è un campione di ironia postmoderna che dichiara la schizofrenia dell'epoca dell'informazione giocando sulla separazione tra immagine e realtà;
- Fuksas è un personaggio fondalmentamente tragico che cammina sul baratro del consumismo sopravvivendo grazie a continui ed effimeri colpi di scena che vengono velocemente dimenticati e lo condannano a una eterna performance.


11 marzo 2005. Porta Est, parcheggi e ingresso pedonale.

In questa attività, funzionale, manipolatoria o necessaria che sia, Fuksas delinea due tipi di anonimato: il silenzio funzionale di un modernismo semanticamente svuotato e il formless del blob, sensuale ma non riconducibile ad un unità. Tuttavia, queste sono forse due facce della stessa medaglia ed entrambe opzioni possibili per un luogo come una fiera, teatro di spettacoli effimeri destinati ad allestimenti temporanei. Sono anche due delle molteplici identità di Fuksas, asso pigliatutto e spugna assorbente di tutti i trend dell'architettura internazionale in voga. Questo talento così derivative (per usare un termine anglosassone efficace ma intraducibile) cos'ha a che fare con la situazione corrente dell'architettura italiana? Probabilmente molto poco, visto che sembra sempre guardare all'esterno senza mai fissare un'identità. E tuttavia Fuksas in questo è forse più italiano di tanti italiani, divenendo la proiezione dei desideri esterofili e modaioli di tanti operatori del settore di casa nostra: quelli che sono perennemente informati ma non elaborano un pensiero, quelli che negano il proprio intorno e legittimano solo quello che viene dai centri di produzione internazionali, quelli che chiamano la superstar straniera e non costruiscono una ricerca con chi opera sul territorio. Fuksas incarna tutte queste ambizioni (e frustrazioni) cercando di inseguire troppi desideri: abbiamo bisogno di lui per sapere chi siamo ma non sappiamo certo dove andremo a finire.

Pietro Valle
pietrovalle@hotmail.com
Si ringrazia l'ufficio stampa della Fondazione Fiera di Milano per gentile concessione delle immagini.
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