Infrastrutture,
architettura: alcune precisazioni Nicolò Privileggio |
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Ormai
da diverso tempo l'infrastruttura è un tema assiduamente frequentato
dal dibattito architettonico. Ciò in parte si deve anche al rilievo
assunto negli ultimi anni, entro il dibattito politico dei paesi europei,
dai grandi progetti infrastrutturali che ridisegnano la mappa delle
relazioni tra le maggiori aree urbane. Come tutto ciò che riguarda la modificazione fisica di un territorio per opera dell'uomo, le infrastrutture sono un tema d'architettura. Tuttavia, di là da questa oramai ovvia constatazione, che rimbalza nelle diverse pubblicazioni e occasioni di confronto, risulta assai difficile riconoscere delle posizioni, o delle strategie che vadano oltre l'empirismo del progetto caso per caso o l'apprezzamento estetico, romantico e un po' decadente, proprio del pittore di paesaggio di fine Ottocento. È innegabile che esista, specie nel nostro Paese, un problema serio d'insipienza costruttiva diffusa che fa d'ogni atto di trasformazione del territorio un'occasione mancata e che pone con urgenza la necessità di promuovere una cultura diffusa della progettazione. (1) Tuttavia, oggi, l'interesse per una rinnovata attenzione dell'architettura nei confronti delle tematiche infrastrutturali, risiede altrove. Simbolo di una modernità eroica nella prima metà del 900 l'infrastruttura è successivamente diventata il supporto ordinario di un processo di normalizzazione dello spazio, che ha contrassegnato con la figura dominante dell'estensione le più recenti trasformazioni della città europea. Nelle sue diverse forme, l'estensione territoriale dello spazio urbano ha in un certo senso radicalizzato una delle questioni da tempo presenti nella cultura architettonica contemporanea, vale a dire il confronto con la "grande dimensione", ovvero la capacità del fenomeno architettonico di costruire relazioni di senso entro un campo territoriale vasto. Ma rispetto alle posizioni che avevano in passato animato il dibattito sulla grande dimensione, il significato di una riflessione sulle forme dell'estensione come campo operativo dell'architettura si salda oggi alla possibilità di confrontarsi con il progetto dello spazio ordinario e con i modelli infrastrutturali che lo supportano. Una riflessione che può essere condotta a partire dalla comprensione della progressiva distanza che si è venuta creando tra il progetto infrastrutturale da una parte e la tradizione del disegno urbano dall'altra. INDIVIDUO E CITTÀ. Nella sua complessa articolazione di scale e manufatti, il progetto infrastrutturale può essere letto come un vero e proprio diagramma delle modificazioni del rapporto tra individuo e società, avvenute a cavallo tra '800 e '900. Tecniche e configurazioni dell'infrastruttura hanno accompagnato nello spazio materiale la progressiva affermazione del soggetto individuale sulla scena metropolitana. A partire dalle trasformazioni urbane nel periodo della prima industrializzazione, l'infrastrutturazione della città ha, di fatto, supportato la manifestazione del comportamento individuale nello spazio, attraverso oggetti e luoghi che scardinano dall'interno, a partire dal cuore stesso della città preesistente, il funzionamento dello spazio pubblico tradizionale, segnando così il progressivo indebolimento dei legami tra individuo e collettività. L'autonomia del singolo, la sua capacità di movimento e la sua volontà d'autorappresentazione nello spazio, segneranno in seguito anche la transizione tra differenti ipotesi d'infrastrutturazione della città, aprendo la strada ad una ricerca su principi compositivi dello spazio urbano alternativi a quelli della città ottocentesca. Nell'arco della prima metà del secolo scorso, all'interno delle sperimentazioni progettuali "elementariste" attraverso le quali la città è letteralmente smontata nelle sue componenti costitutive, l'infrastruttura è trattata come "componente" dotata di una propria autonomia formale. Il tema della separazione tra infrastruttura e spazio abitabile, conseguente a questo atteggiamento, era inizialmente funzionale ad un azzeramento delle tradizionali figure dello spazio urbano. Nelle successive sperimentazioni del dopoguerra, esso diviene parte di una prassi codificata che sancirà la completa autonomia del progetto infrastrutturale rispetto al disegno della città, dando seguito ad una lettura dei fenomeni urbani attraverso due categorie distinte e complementari: da una parte l'infrastruttura come manufatto continuo, principio d'organizzazione strutturale del territorio legato all'immagine dei flussi, dall'altra lo spazio abitabile come entità discreta e dotata di una propria autonomia formale. Interpretazione che troverà la sua espressione più chiara nella concezione del quartiere autonomo, che contrariamente ai presupposti rifondativi dell'anteguerra, rappresenterà una limitazione della scala d'intervento sulla città. Non stupisce pertanto che, attraverso questo passaggio, si siano fatte strada alcune interpretazioni riduttive che vedono nel disegno dell'infrastruttura l'unico dispositivo formale in grado di cogliere e controllare la dimensione estesa della città: non è un caso che molte delle visioni sinottiche e aggregate presenti in piani e progetti d'area vasta degli anni recenti siano centrate sul disegno del telaio infrastrutturale. Così come non è casuale che l'interesse prevalente dell'architettura si sia rivolto al disegno dei grandi telai infrastrutturali o di loro singole parti, riconoscendo in essi una "forma simbolica" della nuova condizione urbana, di una collettività mobile e frammentata che nel sistema infrastrutturale trova un principio di coesione. MONUMENTO CONTINUO. Entro il presupposto ideologico di una nuova monumentalità legata al movimento e allo scambio, si collocano buona parte delle strategie messe in atto all'interno della cultura architettonica nei confronti dell'infrastruttura, alimentando l'interpretazione di quest'ultima come "monumento continuo" alla scala geografica. Interpretazione che in qualche modo ha origini lontane e che ritroviamo ad esempio nel lavoro di due protagonisti del dibattito "revisionista" a cavallo degli anni '60, Alison e Peter Smithson. Nei diagrammi per Cluster City, vero progetto manifesto di quegli anni, così come nei testi che lo accompagnano, si profila l'identificazione del significato e dell'immagine della città con la struttura relazionale continua della rete infrastrutturale. Uno scheletro costituito dal sistema autostradale al quale è affidato un ruolo unificante non solo sul piano del funzionamento complessivo, ma anche sul piano visuale e simbolico. È il rapporto tra individuo e società ad essere in qualche modo messo in scena, ma forse anche sovrainterpretato, attraverso questa ricerca di una nuova monumentalità del manufatto. L'accento è posto sul sistema infrastrutturale inteso come metafora di una società che fonda paradossalmente la propria coesione sulla maggiore libertà e autonomia individuale. (2) Alison e Peter Smithson, Cluster city, diagram 1955. Il tema della libertà individuale è in quegli anni oggetto di una riflessione allargata e va inteso in senso ampio, anche come libertà di scelta, libertà di comportamento, ricerca di un affrancamento dai vincoli del sistema dominante. L'influenza esercitata dalle riflessioni di H. Lefebvre e M. De Certeau, porterà l'attenzione allo studio dei comportamenti individuali e del loro potenziale creativo e sovversivo come "produttori di spazio", interpretando la città come esito di tattiche ludico-comportamentali. Negli stessi anni, inizia a farsi strada un pensiero visionario che cercherà di interpretare il mito di un ambiente urbano finalmente liberato dai condizionamenti dell'architettura e disponibile ad essere plasmato dalle pratiche e dai comportamenti di una società emancipata dal sistema produzione-consumo. Mito che pur nelle straordinarie elaborazioni plastiche e spaziali di alcuni suoi protagonisti come Constant e Yona Friedman, finirà per irrigidirsi sul piano fisico e materiale in una nuova narrativa architettonica che diventa essa stessa infrastruttura ludica, programmaticamente senza scopo alcuno se non quello d'essere metafora di una rete infrastrutturale aperta e continua; una narrazione senza fine di spazi labirintici come delle macchine immaginarie, spettacolare intuizione del carattere autoreferenziale dell'infrastruttura. HARDWARE E SOFTWARE. Nelle interpretazioni degli anni '60 l'infrastruttura è anche un dispositivo d'affrancamento dalla città, quest'ultima identificata come espressione delle tendenze "totalitarie" dell'architettura, di un'architettura del controllo, cui contrapporre profeticamente un'"architettura dell'assenza". Nel dibattito di quegli anni il tema della comunicazione assumerà un ruolo centrale, e diventerà la chiave di lettura dei rapporti tra individuo e società. Nel 1968 J. Baudrillard pubblica Il sistema degli oggetti, una ricognizione dell'universo domestico che propone l'ipotesi di una ridefinizione del rapporto tra l'uomo e gli oggetti, non più affidata solo all'uso e alla mediazione gestuale ma ad una complessa struttura di relazioni affidata ad una serie di messaggi, il cui senso risiede nel sistema di rapporti sociali. Non più una società che si riconosce nel suo essere radicata entro un ambiente fisico, una comunità "del contatto fisico", ma piuttosto differenti forme di collettività fondate su altrettante forme o pratiche di comunicazione. L'influenza della teoria dell'informazione sulle nuove teorie estetiche segnò in quegli anni anche un radicale scarto nei modi di interpretare il significato dell'opera d'arte, riorientando l'attenzione dalla struttura formale dell'oggetto al sistema comunicativo del quale esso viene ad essere partecipe. In tal senso possiamo spiegare, all'interno del dibattito architettonico, la fiducia un po' ingenua nel potere salvifico delle tecnologie della comunicazione, così come l'interesse per l'universo simbolico legato all'elettronica, per la città come prodotto di pratiche relazionali, temi presenti nel lavoro degli Archigram. Instant City (1968), uno dei loro progetti più noti, è infatti una complessa infrastruttura comunicativa il cui dinamismo legato alla moltiplicazione di eventi, tende a sovvertire il significato dell'architettura come "presenza", conformazione permanente dello spazio. Ne emerge un'interpretazione caricaturale della dialettica tra spazio e società, laddove lo spazio materiale è infrastruttura di supporto per la manifestazione euforica delle "libertà" individuali. Ma più che nella mistica megastrutturalista, questa visione emerge in tutta chiarezza in altri progetti meno appariscenti sul piano formale, come quello contrassegnato dall'acronimo L.A.W.U.N. (Locally Available World Unseen Network, 1969). Qui vediamo prospettarsi la riconquista di uno scenario "naturalizzato" ma al tempo stesso interamente robotizzato e servito da un network infrastrutturale invisibile che è supporto di nuove pratiche relazionali. Archigram, L.A.W.U.N. Project, Foto archivio Archigram, 1969. Questa volontà di azzeramento dell'architettura è associata in forme diverse alla contrapposizione tra infrastruttura e messaggio, colta retoricamente sotto forma di opposizione tra hardware e software (3), e presentata come chiave interpretativa di una nuova condizione urbana. Sono i termini opposti di una dialettica inconciliabile che contrappone alla materia "sorda" dei manufatti e delle reti materiali "hard", le tensioni liberatorie della nuova estetica dell'informazione. Tra individuo e società, l'unico anello di congiunzione è dato dalle infrastrutture della comunicazione, viste come il solo livello di coerenza accessibile per la città. OGGETTI E NARRAZIONI. Il progetto dei manufatti fisici che compongono il telaio infrastrutturale è stato assunto in un passato recente come "nuova frontiera" della sperimentazione architettonica. In questa attenzione c'è in realtà qualcosa di diverso rispetto al passato, che consiste nell'abbandono di quella spinta "visionaria" e "rifondativa" che era presente in alcune delle posizioni degli anni '60 e che ne costituisce ancora oggi il tratto più interessante. Una sperimentazione, quella più recente, che consta di un'attenzione localizzata, episodica, legata a problemi molto ben circoscritti, nella quale l'infrastruttura è trattata per singoli frammenti ove si dispiega la dimensione narrativa dell'architettura, il più delle volte attraverso una serie di operazioni di dettaglio, di adattamento al contesto, di inserimento paesaggistico. Un segnale evidente di ciò è nelle strategie messe in atto in numerose città europee, dove si assiste al sistematico utilizzo dell'architettura come dispositivo retorico per interpretare il ruolo simbolico di alcuni nodi o punti discreti. Nel migliore dei casi, ciò che avviene è un'operazione di upgrading rispetto ad alcune "tipologie" spaziali la cui logica di funzionamento, espressa nei termini di un vero e proprio layout, non può essere messa in questione, ma elegantemente riformulata con parole diverse, più aggiornate: la stazione, il parcheggio, il cavalcavia, lo svincolo, ma anche la dotazione infrastrutturale degli spazi produttivi. Sono, queste, operazioni che depositano nello spazio grandi oggetti come "macchine" autosufficienti, surrogati dello spazio urbano contemporaneo e che, prese di per sé, sono del tutto irrilevanti rispetto alla ben più forte razionalità che l'intero sistema spaziale del quale fanno parte imprime nello spazio della città. Esse rivelano un'inclinazione sostanzialmente tautologica del progetto di architettura nei confronti delle dinamiche infrastrutturali e dei problemi derivanti dal loro rapporto con la costruzione della città. Questa predilezione per l'oggetto, o meglio per il singolo frammento, ancorché sovraccaricato di significati, trova il suo corollario nel sostanziale riconoscimento del progetto infrastrutturale come "altro", come qualcosa che è "dato", che non compete all'architettura se non a posteriori, quando è messo in opera, e il cui valore estetico, qualora sia presente, si esaurisce nel fascino del ready-made su scala territoriale. ESTENSIONE, STRUTTURA. Al contrario, il progetto infrastrutturale impone all'architettura un difficile confronto con il tema dell'estensione e in particolare con la necessità di mettere a punto categorie concettuali e operative per indagare le forme strutturanti dell'estensione. La difficoltà con la quale l'architettura riesce a stabilire un orizzonte critico dal quale affrontare le questioni infrastrutturali non dipende in sé dalla natura del progetto d'architettura come operazione "discreta", quanto piuttosto dal problema di individuare, nei diversi materiali che compongono il territorio, un campo operativo entro il quali la costruzione della forma architettonica, ancorché discontinua, può assumere un significato. Questione che risente oggi di una deriva interpretativa che si è originata all'interno del processo di revisione delle teorie funzionaliste, deriva che in qualche modo ha portato a individuare nel tema dell'estensione la necessità di un salto di scala dell'architettura. L'immagine del monumento continuo è da questo punto di vista significativa di come, ancora oggi, il progetto del manufatto infrastrutturale sia visto come l'occasione per compiere questo salto di scala. Ne discende un ulteriore problema interpretativo nei confronti dello spazio urbano contemporaneo, che coincide con una troppo semplicistica interpretazione del concetto di struttura, spesso identificata con l'immagine di un supporto fisico continuo (ad esempio, la metafora dello scheletro o quella più aggiornata della rete), "spazio servente" di connessione, oggetto unico e indivisibile, facilmente identificabile ora con l'infrastruttura, ora con un'architettura concepita come infrastruttura. W. Barker, Plat of the Seven Ranges of Townships being Part of the Territory of the United States NW of the River Ohio, Philadelphia, 1796 (dettaglio). William L. Clements Library, University of Michigan. Una delle caratteristiche essenziali e più dirompenti sul piano della forma della città, propria del manufatto infrastrutturale è la sua continuità, e, attraverso di essa, il suo essere un potente dispositivo di "produzione" dello spazio attraverso la reiterazione di un medesimo principio, di una stessa regola d'ordine. Nella città, il ruolo "formativo" dell'infrastruttura consiste pertanto non già nel suo carattere di eccezionalità, o nella pretesa monumentalità di alcune sue componenti, ma al contrario nel suo essere un efficace meccanismo di "banalizzazione" dello spazio, nel senso di una riduzione di quest'ultimo ad una struttura di relazioni elementari. Ne sono un esempio le grandi opere di bonifica, che in un certo senso comportano una semplificazione o una riduzione della complessità ambientale. Frank Lloyd Wright, Broadacre City, annotated plan (sketch), 1934-35. The Frank Lloyd Wright Foundation, Scottsdale, Arizona. La colonizzazione del territorio degli Stati Uniti sotto la guida di Jefferson, uno dei più imponenti progetti di infrastrutturazone di un territorio, giunto a compimento nel secolo appena trascorso, si basa sulla ripetizione (idealmente senza fine) di un dispositivo spaziale elementare, la quadra di 1 miglio per lato, fisicamente costituita da una strada, quanto di più semplice esista sul piano tecnico-costruttivo. Questo è forse l'esempio più evidente del potere dell'infrastruttura di "costruire" un territorio esteso, di innescare un nuovo sistema di relazioni che in prima battuta comporta una riduzione della complessità del supporto geografico, della sua originaria morfologia, quasi una sua radicale sostituzione. La sua forza risiede nel fare tabula rasa e nell'esprimere perentoriamente un nuovo modello di relazioni, principio di suddivisione del suolo che arriva a negare lo "spazio-substrato" per costituirsi come "spazio-progetto" (4). Un progetto spaziale, quello di Jefferson, che discende da un'ideale di vita antiurbano, ma che, agli inizi del secolo scorso attraverso il filtro della visione utopica di Broadacre City diventerà espressione di un ideale urbano alternativo a quello della città europea. Ludwig Hilberseimer, La nuova città. La metropoli come città giardino, schizzi, 1927 circa. Prima ancora di assumere un significato come manufatto, l'infrastruttura è enunciazione di un principio distributivo, e il suo autentico significato estetico consiste nell'essere "scrittura" dello spazio fisico, così come vere operazioni di scrittura ci appaiono anche la griglia lecorbusieriana di Chandigarh o i progetti americani di L. Hilberseimer, che riflettono sul sistema infrastrutturale come vero e proprio diagramma che ridefinisce lo spazio della città attraverso un progetto di riscrittura dei rapporti elementari tra i suoi elementi costitutivi. Ludwig Hilberseimer, Piano di Chicago, dettaglio della zona tra il lago Michigan e il fiume Fox, 1963. Alvaro Siza, insediamento Quinta de Malagueira, Evora, 1975, piano d'insieme. In altre parole, nel progetto infrastrutturale è insita una componente di astrazione, nella quale si rappresenta un'idea di città, un modello di relazioni tra le cose e le persone, enunciazione formale di un campo vasto di relazioni e al tempo stesso "misura" dello spazio ravvicinato. CITTÀ ORDINARIA E PROGETTO. Nell'Europa del dopoguerra, a seguito di un'estesa politica del welfare che ha caratterizzato la fase di espansione metropolitana nei paesi occidentali, l'infrastruttura come manufatto fisico dismette il proprio carattere mitico e monumentale entro il tessuto della città, per diventare principio di costruzione di un paesaggio ordinario, quello delle grandi espansioni "orizzontali" delle città, che ha trasformato in larga misura la struttura e la forma del territorio europeo. Sulla scorta della vasta letteratura accumulatasi a partire dagli anni '60 sui temi del quotidiano, quella dello spazio ordinario è la dimensione nella quale si registrano i principali cambiamenti della società, una dimensione per molti versi inquietante, nella quale affiorano le principali tensioni e contraddizioni insite nell'attuale modello di sviluppo, in primo luogo la tensione irrisolta tra benessere individuale e sentire collettivo, tra prestazioni infrastrutturali e costi sociali da esse derivanti. Una dimensione spesso trascurata dall'architettura, impegnata su altri temi più spendibili sul piano della comunicazione, e che invece richiede di essere riconcettualizzata entro un progetto di ampio respiro per queste porzioni consistenti della città. Così ad esempio, buona parte della dotazione infrastrutturale nel territorio italiano si è riprodotta attraverso graduali adeguamenti successivi dettati da crescenti domande di mobilità. È il caso delle reti minori, delle strade di lottizzazione, nate sul sedime dell'infrastrutturazione agricola, e successivamente trasformatesi su se stesse. La crescita incrementale di questo modello si è offerta come la risposta tecnicamente più facile e veloce ad una domanda insediativa sempre crescente, senza che fosse mai messa in discussione la sua adeguatezza nei confronti di un modello di sviluppo che si stava rapidamente trasformando, dopo la crisi della grande industria. L'aver fornito una risposta esclusivamente tecnica al problema della domanda di mobilità locale ha ridotto al minimo le possibili articolazioni spaziali tra il reticolo stradale e l'edificazione, consentendo il riprodursi di un modello insediativo fortemente introverso ed estremamente povero. L'assenza di una riflessione sui caratteri compositivi dello spazio urbano, sul rapporto tra edificio e strada, tra spazio pubblico e lotto privato, tra spazio dell'auto e spazio pedonale, tra strada e spazio aperto, ha impedito fino ad ora di assumere criticamente questo modello infrastrutturale o di contrapporre ad esso delle possibili alternative. Nel momento in cui si cerca di formulare il problema delle infrastrutture dal punto di vista dell'architettura, si dovrebbe forse ripartire anche dal mettere in discussione alcuni modelli d'infrastrutturazione che hanno il potere di "sovrascrivere" il territorio con il loro implicito progetto spaziale, modelli che invece nella recente cultura urbanistica e architettonica sono assunti come qualcosa di difficilmente negoziabile dall'interno delle due discipline, lasciando aperti numerosi interrogativi sui principi in base ai quali determinate strategie e modelli sono adottati, sulla condizione di surplus tecnologico nella quale spesso si attuano le dinamiche infrastrutturali, condizione che amplia lo spettro del possibile e che proprio per questo motivo richiama all'economia delle scelte progettuali, alla necessità di una loro più forte legittimazione sociale. Non è tuttavia possibile incidere sulla forma di un sistema infrastrutturale senza considerare il variegato campo di relazioni di cui esso è parte e la possibilità che detto campo di relazioni sia scomposto in una serie di dispositivi spaziali elementari. Giuseppe Samonà, progetto per l'Università di Cagliari, 1972. Da questo punto di vista, l'abbandono del paradigma della continuità spaziale che aveva sorretto le analisi e le teorie della città a cavallo tra gli anni '60 e '70 (5), segna al contempo la troppo rapida conclusione di una ricerca "strutturalista" sulla città, senza che siano state indagate fino in fondo le sue implicazioni nelle parti della città di più recente formazione. Ciò ha determinato in buona parte l'assenza di un'esplorazione delle possibili aperture progettuali dell'analisi strutturalista applicata a regioni formali più estese, mentre il controllo della grande dimensione rimaneva appannaggio delle sole politiche infrastrutturali, come prodotto di una gestione tecnocratica della forma urbis territoriale. Viceversa, proprio la rilevanza territoriale che hanno assunto i processi di costruzione della città colloca il rapporto tra architettura e infrastruttura al centro del problema della costruzione di forme significanti a partire da materiali minimi. Christopher Tunnard, Boris Pushkarev, "Possibilities of Residential Densities", Man-made America, Chaos or control? (Yale University 1963) Yale University Press, 1981. 1. "Typical existing development of detached single-families houses in a conventional street pattern with 5 families per net acre"; 2. "Semi-attached single-family houses in clusters with 7-5 families per net acre"; 3. "Attached two-storeys row houses with enclosed courts, 15 families per net acre"; 4. "Apartments towers, 60 families per net acre". Un problema di segno opposto a quello del "controllo totale". Ciò che rende l'infrastruttura un materiale operabile dal punto di vista dell'architettura è l'esplorazione del rapporto tra figure dell'estensione e dispositivi spaziali elementari; esplorazione che può essere condotta partendo ad esempio dall'indagine di figure compositive basate sui concetti di "ripetizione discontinua" (6), distanza e rarefazione o, riprendendo uno dei topoi della critica d'arte strutturalista, dall'indagine attorno al concetto di "forma aperta". Njiric+Njiric, progetto per un insediamento residenziale a Glasgow, 1996. Oggi il richiamo ad una posizione critica della disciplina architettonica nei confronti delle questioni infrastrutturali ha come oggetto solo in minima parte l'infrastruttura come manufatto in sé, rispetto alla più pertinente necessità di ricondurre la questione infrastrutturale entro una teoria della formatività del territorio, sensibile alle modificazioni delle quali è stato protagonista negli ultimi decenni. Una critica che assume il significato di opporre al rassicurante pragmatismo che viene contrabbandato come "ricerca" una riflessione più generale sullo spazio della città. Nicolò Privileggio studio@privileggio-secchi.com |
[15jan2006] | |||
NOTE: Questo testo è l'esito della rielaborazione di uno scritto dal titolo "Città e Infrastrutture, nuovi spazi teorici" presente in Forme Insediative, Ambiente, Infrastrutture, Marsilio Editori, Venezia 2003. 1. Si vedano al proposito le giuste osservazioni di Mauro E. Giuliani in "TAV: questo non è lo stato dell'arte" apparso su Abitare, 453, settembre 2005. 2. "...la mobilità è diventata la caratteristica del nostro periodo. La mobilità sociale e fisica, la sensazione di una certa libertà è una delle cose che tiene assieme la nostra società... La mobilità non riguarda solo le strade, ma l'intero concetto di una collettività mobile e frammentata...". Vedi "Uppercase A./P. Smithson", in Team Ten Primer, edited By A. Smithson, London 1964. 3. "Hard-Soft", (Archigram 8, 1968) in Archigram, Editions du Centre G. Pompidou, Paris 1994. 4. Si riprende qui la terminologia e alcune argomentazioni formulate da A. Corboz nel saggio "Un caso limite: la griglia territoriale americana o la negazione dello spazio-substrato" in A. Corboz, Ordine Sparso, a cura di P. Viganò, Franco Angeli, Milano, 1998. 5. Mi riferisco in particolare agli studi d'analisi urbana inaugurati da Saverio Muratori e Gianfranco Caniggia, successivamente portati avanti allo IUAV da C. Aymonino, A. Rossi e il Gruppo Architettura. 6. Il concetto di "ripetizione discontinua" è qui ripreso dalla relazione al progetto per l'Università della Calabria di V. Gregotti. |
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