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Al di là del declino: i premi della Triennale di Milano

Valerio Paolo Mosco



Il premio Medaglia d'oro 2006 della Triennale di Milano per l'architettura italiana (ideato da Luca Molinari, in seguito velocemente sostituito per troppa efficienza), nella sua articolazione tra vincitori, premi speciali e menzioni, ci presenta un quadro confortante; intendiamoci, non esaltante, ma confortante.

La ragione forse è semplice: una giuria dove su cinque membri, ben tre sono stranieri (David Chipperfield, Jean-Louis Cohen e Arata Isozaki), ha permesso di mettere tra parentesi la più sterile delle vertenze ancora aperte sulla architettura nazionale: quella della sua identità. Non presa in considerazione la soporifera questione, eliminate quindi le giaculatorie dei garanti accademici della nostra identità, ecco allora che si concretizza una architettura assertiva e decantata, solidamente radicata a terra e sobriamente elevata al cielo, ormai emancipata da quell'ansia prestazionale che per lungo tempo l'aveva resa succube di un non mai chiarito complesso di inferiorità.

Si inizia con un premio quasi dovuto, la Medaglia d'Oro all'opera, che va a Renzo Piano per l'High Museum of Art ad Atlanta. Un progetto del 2003 da poco completato che ci presenta il miglior Piano. Alla cerimonia di consegna del premio è proprio l'autore che conferma un ipotesi che già da tempo covavamo nel giudizio della sua opera. Piano infatti ammette che ad Atlanta il suo operato è stato quello di partire dal componente (in questo caso i lucernai-deflettori di fibra di vetro che scendono a determinare il disegno della facciata), per arrivare alla configurazione generale dell'opera. Dall'inizio della sua fortunata carriera, dai tempi dei capannoni sperimentali degli anni Sessanta, quando Piano percorre questa strada, quella della componentistica organizzata secondo il principio della serialità, convince.

[08jun2006]

Renzo Piano Building Workshop, High Museum of art, Atlanta, USA.


Renzo Piano Building Workshop, High Museum of art, Atlanta, USA.


Renzo Piano Building Workshop, High Museum of art, Atlanta, USA.

Il suo punto di forza, la sua cifra sia stilistica che operativa, sembrerebbe proprio risiedere in questa capacità di espandere il valore del singolo pezzo ad elemento generatore del progetto, rimanendo tra i pochi che riesce a tenere a bada l'ostentazione high-tech. Quando invece Piano opera al contrario, quando da una configurazione generale giunge all'elemento, il risultato è ben diverso. Il valore figurativo e plastico delle opere in questo caso risulta essere il più delle volte rabberciato, quasi una abborracciata media ponderata delle icone alla moda. La stessa componentistica, quando non informa l'opera, appare perdere il proprio ruolo, galleggiando in una sequenza di episodi che sfiorano l'aneddotico. Aver scelto di premiare questa opera e non il figurativo e ben più famoso Paul Klee Zentrum (ma di gran lunga meno riuscito), va considerata come una scelta significativa, che deve lasciar riflettere. Altro aspetto convincente del museo di Atlanta è la disposizione planimetrica dell'opera, che per integrare il preesistente museo di Meier e per configurare uno spazio pubblico a mo' di piazza, accetta un certo grado di informalità, fino a modulare un corpo di fabbrica di sua natura continuo in un sistema di padiglioni accorpati.

Scelta elementare, anzi tra le più elementari, ma efficace, secondo i dettami di quel pragmatismo low profile (alle volte un po' troppo scaltro), di cui Piano è campione. Il vincitore del Premio speciale per la committenza è stato assegnato ad un edificio che aveva già vinto il Premio in/arch-ANCE: il Centro Sviluppo Prodotto della Ferrari di Massimiliano Fuksas. Non è di certo azzardato considerare il Centro Sviluppo come una delle più convincenti realizzazioni italiane degli ultimi decenni e, con una certa generosità, quasi una summa concettuale delle migliori intenzioni della nostra prossima architettura: di impianto, assertiva, generica e di sfondo. Peccato che però lo stesso Fuksas è il progettista di un'altra opera menzionata, le barocche ed impacciate bolle della Nardini, ovvero l'esatto contrario della Ferrari. Certo è che se Fuksas finalmente scegliesse il proprio partito stilistico, abbandonando le suggestioni figurative e metaforiche anni Novanta, farebbe un gran servizio all'architettura italiana.

La novità è il Premio Speciale all'Opera Prima, consegnato al gruppo romano IaN+, per il padiglione per laboratori dell'Università degli Studi di Tor Vergata. Considero la scelta della giuria solo in parte relazionabile al valore del padiglione romano, troppo piccolo per legittimare appieno il premio, quanto un apprezzamento più generale all'operato del gruppo romano. Nella stessa sezione, come finalista, una bella opera: la Piazza Italia di Laura Mascino e Barbara Agnoletto, realizzata a Kobe. La piastra blu, arenata nell'ordinata confusione urbana giapponese, impone un calibrato scarto con il contesto; un ambientazione lunare, resa tale dal blu alla Klein, intenso ed assoluto. Il progetto risulta ancor più convincente se si considera il titolo: "piazza Italia", un titolo che in altri autori avrebbe scatenato la convulsiva ricerca di una italianità a buon mercato, tutta immagine e sentimentalismi iconografici e che invece le autrici interpretano in tutt'altra guisa, al di là delle rendite di posizione iconografiche, come commento critico alla astrazione giapponese, aggiungendo a questa il sapore della effrazione plastica.


Renzo Piano Building Workshop, High Museum of art, Atlanta, USA.


Massimiliano Fuksas, Centro sviluppo prodotto Ferrari, Maranello, Modena.


Canali Associati, Uffici SMEG, San Girolamo di Guastalla, Reggio Emilia.

Ultimo dei premi della Triennale è quello per il Restauro, consegnato all'ineccepibile ed ormai in poco tempo storicizzato restauro del Grattacielo Pirelli a Milano ad opera di Corvino+Multari e Renato Sarno. L'opera, se considerata insieme agli altrettanto riusciti interventi di Cherubino Gambardella alla Kunsthal a Napoli e quello di Garofalo e Miura della British School a Roma, testimonia ciò che gia da tempo sapevamo: quanto piace ai progettisti italiani entrare in sintonia con le preesistenze, farle proprie, commentarle, inserirsi in qualcosa che già esiste per officiarne il rispetto, se non la devozione. Scuola del restauro quindi, questa volta applicato al moderno, eccelsa ma sempre a rischio di esaltazione feticista.


Massimiliano Fuksas, Centro sviluppo prodotto Ferrari, Maranello, Modena.


Cino Zucchi Architetti, riqualificazione spazi pubblici a Gratosoglio, Milano.


Gianfranco Gianfriddo e Luigi Pellegrino, casa unifamiliare a Contrada Piana, Siracusa.


Luciano Giorgi con Andrea Bolini e Maria Dallera, Circolab, Vigevano.


Studio Italo Rota & partners, Sistemazione dell’area a mare Foro Italico, Palermo.


Marco Castelletti, Stabilimento balneare sul lago Segrino, Eupilio, Como.


IaN+, Edificio laboratori Università degli studi di Roma, Tor Vergata, Roma.


Laura Mascino e Barbara Agnoletto, Piazza Italia, Kobe, Giappone.


Cherubino Gambardella, Kunsthall “Mostra d’Oltremare”, Napoli.


Maria Giuseppina Grasso Cannizzo, casa unifamiliare a Ragusa.


Camillo Botticini e Giorgio Goffi, alloggi ALER per anziani, Castenedolo, Brescia.


Geza (Stefano Gri/Piero Zucchi), case e parco Natali Moratti, Tarcento, Udine.


Exposure architects (Oliviero Godi e Dorit Mizrahi), Zig Zag sewing factory, Patchbury, Bangkok, Thailandia.

Tra le innumerevoli menzioni d'onore svariati buoni propositi, alcuni acuti e poche cadute di tono, il tutto in perfetta controtendenza rispetto alla antologia al ribasso, dedicata sempre all'architettura italiana, vista negli stessi giorni al S. Michele a Roma. Innanzitutto le conferme. Ottimo, e non c'erano dubbi a riguardo, Italo Rota con il suo pop ambientale per il lungomare di Palermo, come pure quel campione di eleganza nazionale che è Cino Zucchi, meno leccato del solito a Gratosoglio (periferia di Milano), in situazioni ambientali difficili e con un budget ristretto. L'eleganza invece placa qualunque aspettativa negli assonnati uffici della SMEG di Guido Canali, mentre ritrova verve nella ristrutturazione romana di Labics e nel padiglione tutto cor-ten di Ferrini e Stella sempre a Roma, per poi tornare alla corretta scrittura architettonica nell'edificio Parfiri a Vado Ligure dei genovesi 5+1, che sembrano essersi impantanati in un architettura un po' troppo a modino.

Note positive tra le nuove entrate. I siciliani Gianfranco Gianfriddo e Luigi Pellegrino e la conterranea Maria Giuseppina Grasso Cannizzo, ci presentano due case che hanno il pregio di porsi oltre i pallidi e supponenti schemi minimali; specialmente la Grasso Cannizzo, con la sua architettura scabra (che è bene ricordare applicata al difficile restyling di una inguardabile palazzina esistente), sembra indicare delle sintesi stilistiche da tenere in considerazione e che trovano una sponda dall'altra parte della penisola, a Udine, dove GEZA (Stefano Gri e Piero Zucchi) presenta una delle migliori opere viste a Milano. Una casa dépendance in addizione ad un corpo edilizio preesistente; ruvida e nera, ma morbida nella ancora compatta articolazione plastica che conosce l'arte di prendersi gioco del vernacolo. Sulla stessa linea, anche se meno saporita, il Centro Sociale di Luciano Giorgi, Andrea Bolini e Maria dall'Era.

Buone anche altre opere come lo stabilimento balneare sul lago Segrino di Marco Castelletti, o le case di Camillo Botticini e Giorgio Goffi e la Centrale di teleriscaldamento di Siegfried Delueg; opere che però rimangono imprigionate in un insipido scatolarismo di maniera che, sebbene non offenda, è la sicura garanzia per narcotizzare ulteriormente l'architettura italiana.

In generale, quindi, una Triennale non male, ben oltre il vaniloquio su quel declino che dovrebbe affliggerci come una malattia degenerativa. Eppure un declino c'è, ma non riguarda tanto chi l'architettura la fa, ma chi la commenta e chi la rende pubblica. Da tempo ormai ci siamo abituati ad una pubblicistica fondata su un ecumenismo al ribasso, il cui slogan potrebbe essere: tutti insieme, (poco) appassionatamente. Il limite della architettura nazionale infatti non è tanto nelle opere che, nonostante le poche possibilità operative, riescono ad ispirare un seppur temperato interesse, quanto nello stentoreo ed appiattito dibattito al contorno, fatto di pochi confronti di idee e di molti scontri personali. Si spera allora che almeno coloro i quali erano presenti a Milano, poiché premiati, la smettano di comparire sempre ed in qualunque sbrindellata operazione culturale sul tema "architettura italiana". Non ne hanno più bisogno.

Valerio Paolo Mosco
valeriopaolomosco@virgilio.it
> LA TRIENNALE DI MILANO

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