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Parole di sabbia

Domenico Cogliandro



Il mio amico è partito per andare a fare delle cose, per un lavoro. Alla sua maniera, per fare una serie di lavori convergenti all'obbiettivo che lui solo conosce mentre i suoi collaboratori ne conoscono frammenti parziali. Quando il mio amico parte va a fare tante cose, quando torna, e ci vediamo, non parliamo mai del suo lavoro, del lavoro che ha fatto, ma di quello che resta da fare o di quello che dovrà esser fatto. Nelle cose che fa per gli altri è accurato e preciso, le cose che fa per sé possono essere fatte meglio per cui rimanda il momento in cui le si potrà far meglio, avendo tempo. La settimana prima di partire ci siamo incontrati, per caso, e mi ha detto che una volta tornato avremmo progettato meglio una certa cosa di cui avevamo parlato a lungo.

Il due novembre c'è stato il sole. Il cimitero di Cannitello, in Calabria, si affaccia verso il mare, sta su un piano elevato e guarda verso lo Stretto di Messina. Lì, molti anni fa, ho progettato e realizzato una piccola cappella nel lotto che avrebbe previsto un colombaio. La colombaia per i colombi, il colombaio, o colombario, per i defunti. Probabilmente la radice sta nello scuro kelainòs. Quest'anno, di fronte alla cappella, ne ho trovato un'altra che ne ha copiato i tratti, sbagliando solo nell'uso dei materiali. Avrei preferito una copia conforme. La cappella di famiglia, della mia famiglia, invece, è una sorta di pastiche stilistico di inizio novecento, e accanto ve ne sta una gemella, di altra famiglia. Non uso andare spesso al cimitero: i miei morti li penso da lontano, e ne tratteggio il ricordo. Quando capita di andarci, preferisco guardare le cappelle anziché i colombai.

Ecco, per esempio, ricordo che la tomba, il tumulo, di Carlo Scarpa sta dentro la Cappella Brion a San Vito d'Altivole. Lì riposa il corpo del maestro, in una porzione del suo progetto. Non so se Scarpa, non credo, avesse previsto quello spazio, quella porzione di spazio, per tumulare un corpo. Non so se abbia preferito, egli stesso, quella porzione di spazio. Ma sta lì. Tranne il caso estremo del suicidio, non si decide da soli di morire. E quando ci si rende conto che sta accadendo, e i motivi per rendersene conto, come le circostanze, sono molti e differenti, si pensa ai propri cari, o a quel che si lascia a metà, non certo al posto in cui si verrà ospitati. Non mi piace il morire, sono legato alla vita, ma sono un fatalista ottimista. Ha cantato Gaber che "anche l'avventuriero più spinto, muore, dove gli può capitare, e neanche tanto convinto". Bel tema, avrebbe detto Pasquale.

Il mio amico non è tornato, perché è morto. Ritengo che la cosa non fosse nei suoi programmi e che, anzi, avesse previsto altre cose, da fare con altre persone. Ho saputo che sarebbe dovuto andare a fare un sopralluogo in un cantiere; che avrebbe pranzato in compagnia, ordinando solo pasta con l'olio che lui chiamava "all'inglese", mi pare; che nel fine settimana aveva programmato di andare in campagna, da mattina a sera, senza fermarsi (la settimana precedente ci era andato pure), per raccogliere olive; che avrebbe riunito la famiglia attorno ad un pranzo, come tutte le domeniche; che avrebbe giocato con i nipoti, e sorriso come sapeva fare lui. Invece è morto, in una di quelle maniere che non lascia il tempo di pensare a cosa stia accadendo. Per fortuna che è successo così, hanno detto alcuni; è una sfortuna che sia successo, allora, ho pensato io.

"Pensai che è molto difficile essere capiti. Essere capiti vuol dire essere presi e accettati per quello che siamo. Il pericolo più triste che noi corriamo con le persone, non è tanto che non vedano o non amino le nostre qualità, ma che invece suppongano che le nostre qualità reali abbiano proliferato in noi numerose altre qualità che sono in noi assolutamente inesistenti. E pensai che la cosa più bella che aveva Felice Balbo, nel suo stare con le persone, era non travisarle mai e non guarnirle di doni che esse non possedevano, ma cercare invece nel prossimo che aveva davanti a sé il suo nucleo più vitale e profondo, scegliere e liberare il meglio che l'altro aveva dentro di sé e quello solo, senza mai un'ombra di sorpresa, di disprezzo o di scherno, dinanzi alle limitazioni e alle povertà dell'altro. Egli infatti viveva con il suo prossimo nell'unico luogo dove l'intelligenza del suo prossimo poteva seguirlo senza limitazioni".

Sono parole di Natalia Ginzburg. Ognuno ci metta, al posto di Felice Balbo, il nome che vuole. Io ci metto quello del mio amico. Il suo funerale gli somigliava. Non so dire fino a che punto, però. C'era il sole, non faceva freddo, e qualcuno sulla spiaggia del paese dove s'è svolta la cerimonia s'è prodigato, per motivi suoi, a realizzare una di quelle cose che artisti e architetti inseguono dal momento in cui prendono coscienza della propria arte: una cosa bella e inutile. Una cosa per andare da nessuna parte, o la speranza di un andare sapendo, in scienza e coscienza, che non ci si potrà muovere d'un millimetro. L'auto sta sulla battigia, lì si è arenata, oppure si potrebbe scrivere che l'auto è la battigia ed è arenata nella misura in cui "l'arena" è anche "la rena". L'etimo lo denuncia, arenarsi sta per insabbiarsi. In questo caso sabbia e auto sono la medesima cosa, nella prima –direbbe Borges- è insito il cambiamento lento, la seconda dovrebbe far pensare, invece, al moto. Ma l'auto arenata convergerà, nella sua trasformazione, verso il punto esatto da cui essa è partita, l'informe, e il moto sarà ondoso perché se ne possa avere contezza. Andare, restando.



Il mio amico è stato salutato da tutti i suoi amici. Tutti è più di tanti, molto di più. Sta in un colombaio, e lo scrivo perché è lì che lo penso. Oppure, penso che ho visto inserire nel colombaio un feretro ma non ho pensato per un attimo che lì ci fosse qualcuno. Dipende dal fatto che sono legato alla vita. Ho scritto altrove di come si muore, e come questa morte, questa, possa essere interpretata. Quando nasciamo, me lo ha ricordato Marcello, veniamo nominati, e il nostro nome ci fa riconoscere, siamo il nostro nome e la sua storia. Per quelli che si portano appresso un nome da generazioni, si può dire che esistano prima di nascere. Quando moriamo quel nome viene tracciato, come un solco, nel cemento fresco, e lì rimane impresso come negli occhi e nel cuore. Ora, visto che si è compiuto il gesto, devo accettare il fatto che Pasquale Culotta, non Felice Balbo, sia lì. Lui, non la sua storia. Per questo, qui, chiedo soccorso ad Alvaro Mutis, e mi rifugio nelle sue parole.

"Penso a volte che sia arrivato il momento di tacere,
ma il silenzio sarebbe allora
un premio smisurato,
una grazia ineffabile
che non credo di avere ancora meritato."

Domenico Cogliandro
cogliandro@virgilio.it
[27nov2006]

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