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La città monumento.
Intervista a Elia Zenghelis

Gabriele Mastrigli



 
"È sconvolgente constatare come, dopo un secolo di grande fermento politico, la nostra comprensione dei valori dell'architettura sia oggi deformata da una confusione senza precedenti: la incondizionata fiducia nelle virtù della democrazia liberale riguardo al futuro delle città sembra ignorare l'evidente paradosso del conflitto irrisolto tra una idea di democrazia come processo decisionale amministrato pubblicamente e l'attuale fede cieca nei diritti (e nel potere assoluto) dell'individuo. Dovrebbe tuttavia essere ormai chiaro che la celebrata "informalità" delle città contemporanee (lo sprawl, l'urbanistica bottom-up, l'auto-organizzazione e altre simili mitologie) è nella maggior parte dei casi un cavallo di Troia per le politiche manipolative di sfruttamento urbano, tanto più informale quanto più rinforza il potere del mercato -un potere nel quale ciascuno è libero di partecipare come consumatore, ma nessuno è invitato quando si tratta di tracciarne le regole".

[18 aprile 2008]
Non nasconde il suo atteggiamento polemico nei confronti dell'odierno stato dell'architettura e dell'urbanistica Elia Zenghelis, architetto, classe 1937, una vita trascorsa (come progettista, ma soprattutto come docente) nei luoghi seminali della costruzione del pensiero sulla città: dalla Grecia, dove è nato, al Sudafrica, dalla Londra degli anni '60, all'America degli anni '70 e poi di nuovo l'Europa. Di questo percorso il baricentro è senz'altro l'elaborazione teorico-progettuale condotta all'interno dell'Office for Metropolitan Architecture (OMA), lo studio che ha fondato nel 1975 con un suo ex studente olandese, Rem Koolhaas, e che ha abbandonato dodici anni dopo, in disaccordo con il partner. Centro della riflessione è il ruolo dell'architettura nella costruzione della città, "un ruolo che oggi viene negato all'architettura, proprio quando la si riduce a un problema di stili, di futili preoccupazioni estetiche, di competizione tra firme individuali che rappresentano il precipitato dell'attuale potere economico del pluralismo, di cui le cosiddette archistar sono i primi schiavi", ci dice nel corso di un incontro a margine del simposio La dimensione politica dell'architettura organizzato nei giorni scorsi a Firenze dalla Syracuse University e dall'Osservatorio sull'architettura/Fondazione Targetti.

GABRIELE MASTRIGLI. In quale contesto si è formato il suo interesse per l'architettura e quale idea di città lo ha incarnato?

ELIA ZENGHELIS. Nel 1948, quando avevo undici anni, Atene era una città devastata dall'occupazione italo-tedesca, in preda a una guerra civile che aveva consegnato il paese nelle mani di una destra estremamente autoritaria. Fu proprio nel 1948 che decisi di diventare un architetto, quando per la prima volta andai a trovare mio padre in Sudafrica, a Johannesburg, e vidi quello che all'epoca mi parve un miracolo: una metropoli fatta di costruzioni alte e imponenti, che esprimevano un incredibile senso della città. Cominciai allora a sentire il fascino dei grandi edifici come ingredienti necessari per la struttura urbana. Una dimensione grande, espressione dello spazio denso e compatto della città, in netto contrasto con ciò che città non è, con la campagna; uno spazio altamente artificiale che preserva e alimenta il senso di urbanità, destinato a scomparire quando gli edifici si fanno piccoli e radi come nello sprawl che domina oggi nei territori suburbani.


Vista del centro dalla Stazione Centrale. Da Brussels—A Manifesto: Towards the Capital of Europe, p. 143. Per gentile concessione del Berlage Institute.

Come è avvenuto il suo primo contatto con la cultura architettonica ufficiale?

A Londra, dove ero andato a studiare all'Architectural Association, scoprii che l'ideologia dominante era l'opposto di quello che andavo cercando: l'apoteosi della piccola scala e poi del verde, prima con il Team X poi con la stagione degli Archigram, che, a mio avviso, dissolvevano ogni idea di urbanità. Rem Koolhaas entrò nella scuola nel 1968, rimanendo del tutto distante da questo clima giocoso che per esempio si respirava nel corso di Tony Dugdale, un amico degli Archigram, da lui frequentato al primo anno. Scappò da lì per venire nella mia unit e trovammo subito un terreno di riflessione comune. Partecipammo così insieme al concorso La Città come ambiente significante indetto nel 1971 dalla rivista "Casabella", per il quale proponemmo il progetto Exodus: una città lineare definita da due lunghi muri paralleli e sovrapposta al tessuto di Londra come una sorta di Muro di Berlino invertito; una metafora dell'inversione critica delle categorie di bellezza e bruttezza, di libertà e prigionia, di ortodossia e moda, di ipocrisia e politica. Fu l'inizio di un percorso comune che sarebbe durato quindici anni.

Quali erano i temi su cui lei e Koolhaas convergevate in quel periodo? E come nacque l'OMA?

A unirci era certamente il tema della grande dimensione dell'architettura, ma anche l'interesse per il costruttivismo russo e per la figura di Leonidov. Rem aveva già abbozzato l'idea di un libro insieme a Gerrit Oorthuys e penso sia stato questo a spingerlo a occuparsi di architettura e a venire a Londra all'AA. I suoi primi progetti dovevano molto a Leonidov, fra gli altri il progetto La superficie del 1969, uno storyboard in cui si immaginava la costruzione di una città composta da grandi piattaforme artificiali programmaticamente differenti. Poi ci fu l'incontro con New York, grazie alla fascinazione di Rem per Manhattan.

In quel periodo, mentre io insegnavo alla Columbia University e alla Syracuse, facemmo una serie di progetti immaginari ispirati proprio da Manhattan. Rem e io lavoravamo quindi insieme già da anni quando, nel 1975, decidemmo di chiamare lo studio OMA. Il nome venne trovato durante una discussione in un ristorante di New York: Madelon Vriesendorp, la moglie di Rem, che faceva parte del gruppo come anche la mia ex-moglie Zoe, propose di enfatizzare il termine "metropoli", il cuore della nostra riflessione. In sostanza Manhattan diventò l'ingrediente principale del nostro approccio all'architettura. Rem era arrivato a New York prima di me per iniziare a lavorare a quello che sarebbe diventato il suo libro più importante, Delirious New York. Io seguii poco dopo vivendo un'esperienza analoga a quella che avevo fatto a Johannesburg, ma cento volte più intensa.

Quale fu il motivo della sua separazione dall'OMA?

Era la metà degli anni Ottanta e mentre stavo divorziando da mia moglie, compresi che questo avrebbe coinciso con un divorzio dallo studio. Rem non voleva crederci. Tuttavia la nostra distanza era inevitabilmente aumentata da quando lui aveva aperto uno studio a Rotterdam e aveva cominciato a lavorare a progetti olandesi come la riqualificazione dell'IJ plein di Amsterdam o il teatro di danza a L'Aja, sui quali io avevo espresso delle riserve, mentre io realizzavo l'edificio al Checkpoint Charlie a Berlino, insieme a Mathias Sauerbruch. Più in generale, mi sembrava che nella impostazione del nuovo studio mancasse quello spirito di riflessione intensa che aveva caratterizzato i progetti teorici dei primi anni, in particolare quelli che avevamo realizzato per New York e che erano diventati la "conclusione immaginaria" del libro di Rem. In quel periodo Rem era estremamente ansioso di ottenere incarichi. All'opposto io me ne curavo meno e avrei voluto continuare con quel genere di progetti.


Vista del piano pubblico del Circo Massimo e del Quartiere Nord. Da Brussels—A Manifesto: Towards the Capital of Europe, p. 125. Per gentile concessione del Berlage Institute.

Dunque gli anni successivi all'abbandono dell'OMA sono stati anni dedicati soltanto alla professione con il suo nuovo studio Gza (Gigantes-Zenghelis Architects), ma anche anni di rinnovato interesse per l'insegnamento.

Dall'AA sono andato alla Kunstakademie di Düsseldorf e poi all'Accademia di Mendrisio e al Berlage Institute, che da Amsterdam si è successivamente spostato a Rotterdam. Ad accomunare tutte queste esperienze didattiche è stata l'investigazione di grandi progetti urbani, con edifici di notevoli dimensioni. È stato il mio modo di reagire alla constatazione che la città si stava progressivamente dissolvendo, in maniera inversamente proporzionale alla crescita del paesaggio suburbano. In particolare, al Berlage Institute ci siamo occupati per lo più di progetti urbani che prevedevano complessi architettonici di grandi dimensioni, allo scopo di "densificare" in maniera coerente il centro cittadino. Questo ha progressivamente portato all'idea che in un gruppo di lavoro tutti gli studenti partecipano a un unico progetto collettivo, piuttosto che formulare ipotesi alternative.


Gruppo di discussione durante il corso di master "Form and the City", condotto da Elia Zenghelis, Joan Ockman, Pier Vittorio Aureli nella primavera 2007 al Berlage Institute. Foto di Mick Morrsink. Per gentile concessione del Berlage Institute.

Eppure l'idea dominante oggi è che queste grandi strutture -in Italia si parla spesso di "ecomostri"- siano la rovina del paesaggio.

  Ma proprio questo è il problema. L'idea di concentrare le costruzioni in strutture urbane ad alta densità è, al contrario, la soluzione più ecologica al problema dell'espansione delle città. Possiamo affermare che lo sprawl sia ecologico? Si tratta di comprendere a fondo il filo rosso che lega inestricabilmente il concetto di limite della città a quello di grande dimensione dell'architettura. Non si dà città senza una chiara identificazione dei sui limiti e dunque senza chiarezza sulla forma dell'architettura che la costituisce. E non c'è dubbio che, oltre una certa dimensione, gli edifici assumono automaticamente caratteri di monumentalità. Da qui l'importanza di riflettere sul tema dell'architettura come monumento, non tanto nella sua accezione banalmente retorico-celebrativa, ma come quel dispositivo architettonico che consente da una parte di rigenerare la città e la sua dimensione urbana, dall'altra di salvaguardare l'idea stessa di natura come condizione altra dalla città. Così come non c'è dubbio che, proprio in virtù delle sue grandi dimensioni, questa architettura non può essere il campo di gioco per gli esercizi di stile delle archistar, ma deve presentare un sufficiente grado di semplicità, quasi di anonimato delle forme -simile, per fare un paragone con l'arte, all'effetto che procurano le grandi tele di Rothko.

È possibile un orientamento di questo genere nell'attuale contesto politico?

Molto di quello in cui credo è oggi difficile da applicare al contesto politico. Prima che dell'architettura il problema è della cultura, che dovrebbe essere qualcosa di profondamente condiviso dalla collettività e in cui la collettività si riconosce. Ma questo è impossibile senza una precisa volontà politica che supporti tale istanza. D'altra parte se il significato dell'architettura è ancora quello di rappresentare la dimensione politica della città, il suo catalizzatore formale continua a essere la riflessione sulla modernità. E la modernità non ha a che fare con l'avanguardia, ma con un continuo riarticolare e reinventare le convenzioni che ci sono state lasciate dalle precedenti modernità.


Dopo gli studi alla Architectural Association di Londra, Elia Zenghelis, nato a Atene nel 1937, è diventato uno dei docenti più stimolanti della stessa scuola. Nel 1975 ha fondato l'Office for Metropolitan Architecture (OMA) insieme a Rem Koolhaas, e alle loro rispettive compagne di allora, le pittrici Zoe Zenghelis e Madelon Vriesendorp. Insieme hanno dato vita a una serie di "progetti immaginari", molti dei quali si trovano in appendice del primo libro di Koolhaas, Delirious New York. Poco dopo il progetto di OMA per il Parc de La Villette a Parigi (secondo classificato, ma da molti considerato vincitore morale), nel 1982 Zenghelis ha aperto una sezione di OMA a Atene. Cinque anni dopo, nel 1987, Zenghelis ha lasciato OMA e si è associato con Eleni Gigantes, ma la sua attività si è concentrata sempre di più sull'insegnamento. Docente a Düsseldorf, Zurigo, Mendrisio e presso il Berlage Institute di Rotterdam, Zenghelis nel 2000 ha ricevuto il prestigioso Annie Spink Award for Excellence in Education dal Royal Institute of British Architects.
La presente intervista è stata originariamente pubblicata su "il manifesto" del 25 marzo 2008. Le immagini dei progetti sono tratte dal libro Brussels - A Manifesto. Towards The Capital of Europe (Rotterdam, NAi Publishers, 2007) basato sul progetto Brussels Capital of Europe, prodotto al Berlage Institute durante l'anno accademico 2004-2005. Il progetto è parte del programma Capital Cities condotto da Pier Vittorio Aureli al Berlage Institute fin dal 2004. L'obiettivo del programma è la ridefinizione politica e culturale della nozione di città all'inizio del 21esimo secolo. Il programma, che oltre a Bruxelles ha prodotto ricerche e progetti su Tirana, Mosca, Brasilia e Seoul, si concluderà nell'anno accademico 2008-2009 con un progetto strategico su Roma.

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