La città come testo critico Nicolò Privileggio |
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Lo scorso 13 maggio è stato presentato, presso la Facoltà di Architettura civile del Politecnico di Milano, il volume La città come testo critico a cura di Nicolò Privileggio. Si tratta di una raccolta di scritti (gli autori sono Pier Vittorio Aureli / Martino Tattara, Marco Biraghi, Cesare Macchi Cassia, Antonio Monestiroli, Franco Purini, Daniele Vitale, Guido Zuliani, oltre al curatore) che offre, "una riflessione sul modo in cui oggi possa essere inteso l'impegno della ricerca architettonica verso la società, impegno motivato dalla consapevolezza delle responsabilità etiche e collettive dell'architettura nei confronti dei processi che stanno radicalmente cambiando l’immagine della città contemporanea." ARCH'IT presenta l'opera attraverso un estratto dal saggio conclusivo di Nicolò Privileggio. |
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"Molti registi e molti operatori credono di fare delle belle inquadrature in ambienti naturali filmando due terzi di prato verde e un terzo di cielo blu, mentre in proiezione il sole non sarà più il sole, ma una superficie biancastra e giallastra, che lascerà intravedere le cuciture dello schermo, che di solito è di pulizia assai dubbia. Ad ogni modo, credo che un film non abbia interesse ad essere naturale al cento per cento, e che debba mantenere una componente artificiale". François Truffaut |
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Con queste parole tratte da una delle sue numerose lettere François Truffaut (1) affrontava il problema del rapporto tra realtà e linguaggio cinematografico. Si tratta a ben vedere di una questione di portata più vasta che riguarda il modo in cui il linguaggio dell'arte e quindi anche il linguaggio dell'architettura assimila la realtà come oggetto specifico di lavoro. La sostanziale mistificazione del cinema "verista" messa in luce da Truffaut rivela il fatto che la realtà è inafferrabile se non dall'interno di uno specifico linguaggio. Il senso autentico del realismo non è pertanto la "presa diretta" della realtà e l'azzeramento del mezzo espressivo ma la ricostruzione della realtà entro una struttura linguistica che nel cinema come in architettura trasforma la nostra esperienza della realtà in un fatto culturale. Lo sguardo sulla realtà sviluppato dalle pratiche artistiche a partire dalla seconda metà del Novecento è attraversato da una profonda riflessione critica sul linguaggio ovvero su quel sistema di convenzioni espressive attraverso le quali l'opera si manifesta in quanto tale e sulle quali si fondano le categorie del giudizio estetico. Ma nel percorso compiuto dall'avanguardia specie a partire dagli anni Sessanta, il progressivo radicarsi dell'opera nella realtà dell'esistenza, il suo trasformarsi in "situazione vissuta" o la sua appropriazione dell'universo simbolico delle merci non sono dettati da una ricerca di "verità" ma si rivelano all'opposto come una riflessione dell'arte su se stessa, sui propri strumenti e sulle proprie strutture discorsive. È la realtà stessa che diventa "linguaggio" specifico nel farsi dell'opera. Questa identificazione dell'opera con la realtà dell'esperienza, lungi dall'annullamento delle convenzioni artistiche, ripropone piuttosto la necessità di riformulare queste convenzioni su di un piano differente, di sottoporre cioè a una critica radicale il processo formativo dell'opera ovvero le modalità di costruzione del proprio significato. Si tratta di una questione che investe anche il ruolo che la città come "presenza" concreta di elementi fisici svolge nella costruzione del linguaggio architettonico. La necessità di mettere in discussione una serie di convenzioni e di pregiudizi disciplinari che impedivano di stare al passo con le trasformazioni della città e del corpo sociale –in primis l'idea di progetto in quanto imposizione di una ratio totalizzante– è stata per molti anni il cavallo di battaglia di quella che potremmo chiamare la svolta etnografica e antropologica del recente dibattito architettonico, protagonista di una vasta letteratura che ha fatto dell'"ascolto" e della "mappatura" –dalle cronache alle interviste ai documentari ai reportage fotografici– le sedi principali per una ridefinizione dello sguardo degli architetti sulla città. Ma in questo dialogo ravvicinato tra l'architettura e altre discipline per loro natura eminentemente "descrittive" si è perso di vista il fatto che ogni descrizione produce un senso solo in quanto "narrazione". Dal punto di vista dell'architettura la lenta costruzione di una diversa consapevolezza sulla città raggiunta negli anni recenti non può esprimersi se non attraverso delle specifiche narrazioni, attraverso cioè la costruzione di un diverso ordine delle cose. Il richiamo alla dimensione narrativa è qui funzionale a riproporre il problema di una struttura del discorso architettonico, questione che gode di una propria autonomia e che prescinde dall'oramai ovvia constatazione del tramonto delle verità definitive e delle certezze assolute che avevano permeato e legittimato il grande racconto della modernità. Di fatto l'onda lunga della postmodernità ha portato con sé in tutti i settori della cultura e dunque anche nella pratica architettonica, la convinzione "ingenua" che di fronte all'inconsistenza di ogni fondamento di carattere universale non sia più possibile qualsivoglia generalizzazione o distinzione significativa poiché tutto è relativo, tutto ha senso o valore solo nella propria specificità e singolarità. Questa forma di relativismo che negando ogni verità dispone sullo stesso piano l'universo dei valori e delle forme come segni equivalenti e intercambiabili è paradossalmente il nuovo fondamentalismo della cultura postmoderna, laddove, per usare le parole di Emanuele Severino, «la negazione della verità presume di essere la verità autentica». (2) La costruzione di un orizzonte narrativo che assuma la forma della città come proprio oggetto è dunque un'alternativa che si oppone alla deriva del segno architettonico, al suo fluttuare nell'infinito gioco delle equivalenze e dei possibili che solleva la pratica architettonica dalla responsabilità del giudizio e della critica. In questa prospettiva una riflessione critica che attraversi la struttura del linguaggio architettonico non può che ripartire dalla città, non già come proiezione di un ordine trascendente ma come insieme di fatti estremamente concreti e contingenti, il senso dei quali non può essere colto, né può essere esplorato e ricostruito, in definitiva non può esistere se non entro un'ipotesi narrativa. Narrazione dunque non come modellizzazione della realtà, né come racconto mitico ma come strategia di ricerca e interrogazione sulla città. In altre parole, i mutamenti in corso nella configurazione delle città non vanno solo "registrati" ma sollecitano un vero e proprio ripensamento dei principi strutturali della formatività architettonica: l'estensione del territorio urbanizzato, l'alternanza di concentrazione e dispersione degli insediamenti, l'eterogeneità dei processi che governano la crescita urbana, le questioni ambientali ed energetiche, ma anche le crescenti disparità sociali tra territori urbanizzati altro non sono se non i segnali tangibili di una diversa sintassi spaziale entro la quale gli assetti politici ed economici si stanno riorganizzando, producendo nuovi conflitti che si intrecciano ai fatti fisici. Con tutto questo il processo formativo dell'architettura deve confrontarsi. Non si tratta tanto di chiedersi come "rappresentare" o "significare" la condizione urbana attraverso il singolo fatto architettonico, mimandone dal proprio interno la complessità o la frammentazione ma all'opposto si tratta di capire come l'architettura possa costruire un "linguaggio della città", linguaggio cioè attraverso il quale la forma della città si manifesti come luogo concreto e visibile della coscienza sociale. Mi sembra questo un modo di impostare la questione che vede la disciplina architettonica come un sapere dai contorni aperti e il cui centro, ove si accumulano le esperienze lungo l'asse della storia, è costantemente attraversato e messo alla prova da condizioni "limite", condizioni cioè che spingono verso un allargamento o una trasformazione del campo estetico e operativo dell'architettura e nelle quali si manifesta il carattere parzialmente eteronomo della ricerca architettonica. (3) Ciò che la città contemporanea mette in discussione non è pertanto l'autonomia del linguaggio architettonico in sé ma piuttosto l'insieme di rapporti all'interno dei quali il linguaggio si dà come possibile. Qualcosa che riguarda il "modo di formare" in rapporto al modo di essere nel mondo e di osservare la realtà. Nicolò Privileggio |
[15 maggio 2008] |
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NOTE: 1. Truffaut F., (1973) "A un giornalista", in Autoritratto. Lettere 1945-1984, a cura di Toffetti S. (1989), Einaudi, Torino, (pag. 211). Il contenuto della lettera ruota attorno alle problematiche relative al progressivo abbandono da parte dell'industria cinematografica delle riprese in studio in favore delle riprese in contesti "reali" e al riflesso di questo passaggio sulla tecnica cinematografica. La tesi sostenuta da Truffaut è che l'uso sempre più diffuso delle riprese in contesti reali, lungi dall'avvicinare il cinema alla "verità" del reale, implica piuttosto una diversa capacità di controllo sulla costruzione della scena e dell'inquadratura e ripropone dunque il problema della tecnica di regia ovvero del linguaggio cinematografico. 2. Severino E. (2002), Lezioni sulla politica, Christian Marinotti Edizioni, Milano (pag. 167) 3. La questione dell'autonomia dell'architettura soffre di alcune interpretazioni riduttive che da un lato confondono l'autonomia con la rivendicazione di una generica libertà espressiva, dall'altro sostengono le ragioni dell'interdisciplinarità contro quelle dell'autonomia, individuando nella prima l'unica risposta alla complessità della città. In realtà si tratta di un falso problema: è ovvio che il discorso architettonico gode di una propria autonomia come disciplina, ma questa autonomia non ha valore se non nel continuo confronto dialettico con i fatti contingenti e nuovi che spostano di volta in volta il centro della disciplina stessa. Cfr. Anceschi L. (1936), Autonomia ed eteronomia dell'arte, (1992) Garzanti, Milano. |
ARCH'IT
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