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La città estrusa. Alle radici dell'architettura radicale

Gilberto Corretti



 
Il prossimo 22 settembre alle ore 18:00 sarà inaugurata a Firenze, presso la Sala Borghini dell'Ospedale degli Innocenti, la mostra ARCHIZOOM ASSOCIATI 1966-1974. Dall'onda pop alla superficie neutra, curata da Roberto Gargiani. ARCH'IT introduce alcuni dei contenuti della mostra attraverso una testimonianza di Gilberto Corretti, membro del celebre gruppo protagonista dell'avanguardia radicale.



 
Ho l'abitudine di annotare idee udite o pensieri improvvisi in quadernetti d'occasione sui quali poi rimugino sviluppando altre idee o ripensamenti su quelle espresse. Nel 1963 usavo un'agenda fuori corso, formato undici per ventuno, logo aziendale in calce ad ogni pagina, copertina in finta pelle rossa, che conserva fra le sue pagine un evento, cioè un fenomeno improvviso e sconvolgente. L'evento riguardava la mia vita di giovane studente d'architettura ed era destinato a condizionare tutto il mio futuro lavoro d'architetto. In quegli anni la freccia dello sviluppo dell'economia italiana era ancora rivolta verso l'alto ma aveva quasi del tutto esaurito l'impulso propulsivo della ricostruzione postbellica. L'Italia, paese prevalentemente agricolo, aveva compiuto il "miracolo" di raggiungere le prime file dei paesi industriali. I più accorti mettevano in guardia dalle contraddizioni del sistema: occorrevano nuove idee e riforme di struttura per affrontare la nuova fase dello sviluppo. Le classi lavoratrici, che al prezzo d'emigrazioni di massa e d'urbanizzazioni feroci avevano sostenuto sulle proprie spalle il peso più gravoso dello sviluppo, chiedevano la loro parte di merito: salari più alti, migliori condizioni di vita e lavoro, sicurezza sociale e futuro per i propri figli. Fra i giovani, finita l'autarchia e aperto il confronto con altri popoli e culture, maturavano nuove idee, aspirazioni e stili di vita.

[16 settembre 2008]
 

Il futuro degli studenti universitari, più numerosi per la crescita del reddito medio delle famiglie e della loro aspirazione alla promozione sociale, appariva incerto. I pessimisti annunciavano disoccupazione per i non garantiti dalle eredità familiari. Il luogo comune della spensieratezza studentesca, il "carpe diem" goliardico, ancora ostentato da qualche nostalgico fuori corso, appariva ai neofiti una pratica ridicola avvilita da infantili smutandate imposte alle matricole più sprovvedute. Ugualmente obsoleti apparivano i metodi e i programmi didattici dei corsi di studio.
L'incendio partì dalla facoltà di Sociologia di Trento che nel 1963 fu occupata dagli studenti. Nel dopoguerra italiano erano gli sfollati che occupavano le case sfitte e gli operai le fabbriche in via di liquidazione, i primi per avere un tetto sulla testa, i secondi per non perdere il posto di lavoro. Che senso aveva occupare una facoltà universitaria?
-Significa farsi male da soli. Si perde tempo, sessioni d'esami e la stima dei professori-, dicevano i più.
-No, anche lo studente è un soggetto politico, un investimento economico e una risorsa sociale e come gli operai deve difendere il diritto a una formazione valida, nell'interesse suo e della società –rispondeva la minoranza dei più avvezzi alla lettura politica del mondo.

 

Alla Facoltà d'architettura di Firenze, dove ero iscritto al terzo anno di corso, la decisione di occupare fu presa nel marzo del 1963 alla fine di un'affollatissima assemblea di studenti e professori nell'aula di Minerva, fra i gessi impolverati dell'Accademia di piazza San Marco. Aderii con entusiasmo e corsi a casa a procurarmi cibarie e un sacco a pelo per passare la prima notte sul legno di due tavoli da disegno accostati a formare uno scomodo giaciglio. Iniziò così il mio apprendistato di studente impegnato non solo nello studio delle materie d'esame ma anche a riflettere sulla mia condizione di studente e di futuro architetto. L'occupazione durò poco più di una settimana, il corpo accademico avviò subito una trattativa morbida e dilazionata nel tempo. Furono sospese le lezioni e attivato un comitato di coordinamento che comprendeva studenti e professori. Furono fatte delle commissioni di studio. Le riunioni si alternavano alle assemblee, i giorni scorrevano come sabbia nella clessidra. Era una strategia, usuale sotto i cieli nazionali, tesa alla conservazione dell'esistente. Più passavano i giorni e più si bagnavano le polveri della "rivoluzione". Incalzavano gli esami di giugno, il rischio di perdere una sessione restando a mani vuote convinse anche i più riottosi a mollare e tutto ritornò normale.





Non proprio tutto in verità. Nelle materie inerenti alla progettazione furono consentiti gli esami di gruppo. L'iniziativa, scaturita dalla furia ideologica delle assemblee studentesche e demagogicamente assecondata dai docenti, aprì pericolose scorciatoie per gli studenti meno dotati. Accade nelle rivoluzioni d'ogni tempo. Questa concessione rafforzò la pratica virtuosa di studiare insieme e favorì la costituzione di gruppi di progettazione affiliati per affinità elettive e non solo per alleggerirsi il carico d'esami.



Le pagine dell'agenda di cui parlo in testa a questo articolo registrano, con cadenza quasi quotidiana, le idee, le letture, le considerazioni che agitavano la mia mente nel corso degli eventi descritti. Avevo appena ventidue anni. Mi ero aperto a nuove letture e nuove amicizie, la mia vita di giovane studente era radicalmente cambiata. Scorrendone oggi le pagine mi viene da sorridere per il linguaggio involuto, farcito di neologismi spigolati da corpose letture d'economia e filosofia politica affrontate con giovanile baldanza, che svelano voglia di capire e maturazioni precoci nelle quali mi riconosco in pieno. L'anno successivo fu proposto agli studenti l'accorpamento di più esami di progettazione per lavorare ad un tema che doveva riassumere lo spirito della passata rivoluzione: la sede della nuova facoltà di architettura da erigersi ai Moccoli, una collina nei pressi del casello autostradale Firenze sud. Il tema proposto e la scelta del sito, poi caduta in oblio, ci sembrò una proposta debole e una beffa alle nostre aspettative.



Sull'onda critica a questa scelta formammo un gruppo di lavoro d'otto studenti, molti dei quali si ritroveranno in seguito fra le fila dell'Architettura Radicale fiorentina, un gruppo eterogeneo e trasversale nelle vocazioni e nelle competenze. Un gruppo impossibile da gestire se non nella condizione di tensione intellettuale che animava la nostra vita di studenti. Riuniti in una delle nostre camere -quelle dei fuori sede erano le preferite perché sottratte al controllo dei familiari, ma anche in qualche prato all'aperto: era marzo e la stagione era propizia- discutevamo appassionatamente d'architettura estendendone il significato ben oltre i confini imposti dagli esami di corso. Ogni riunione in realtà era uno psicodramma nel quale le tensioni e le frustrazioni personali s'intrecciavano alla lettura critica della condizione presente e alle visioni oniriche sulla condizione futura. I più bravi nel disegno a mano libera traducevano all'istante, in una sorte di trance psichico, le idee espresse in visioni improvvisate e vergate con furia su grandi fogli di carta burro. I commenti e le chiose s'intrecciavano alle prospettive a volo d'uccello di architetture fantastiche, i modelli di cartone delle stesse erano improvvisati in mezza giornata di lavoro. Ci definivamo i figli traditi del razionalismo, svuotato ormai della sua carica rivoluzionaria fino a scadere nel praticantato accademico dei corsi di laurea e sostenevamo che il progetto d'architettura, privo d'inibizioni, preconcetti, formalismi e scuole, era l'unico strumento che ci apparteneva e su cui contavamo per capire il presente e immaginare il futuro.



Da questo salutare bagno d'idee, provocazioni, illuminazioni improvvise nel quale il gioco intellettuale ebbe la sua buona parte di merito per stimolare e carburare i nostri entusiasmi, ne uscì una ambiziosa visione profetica dello sviluppo possibile e futuro di tutto il territorio a valle di Firenze condensato in una cinquantina di tavole disegnate con cura di formato AO, ma alcune superavano i due metri di lunghezza, ed un plastico enorme che raffigurava la "Città estrusa". (1) Questa definizione compare nella mia agenda il quattro settembre ed è accompagnato da una nota esplicativa: "estrusione = concetto produttivo industriale esteso a tutto l'esistente, compresa la cultura". Seguono cinque pagine di precisazioni e chiarimenti che risparmio al lettore. L'esame, cui arrivammo con una quantità indescrivibile di disegni, plastici, foto e documenti vari, si svolse nell'aula di Minerva, a chiudere un percorso iniziatico avviato l'anno prima in quell'aula, il ventisette di novembre del '64. Di fronte a noi, seduti e difesi da una lunga serie di tavoli piani da disegno, stava una commissione di una quindicina di persone fra professori e assistenti. Dietro di noi si era riunita per l'evento una folla di studenti. I più lontani per non perdersi lo spettacolo erano in piedi sui tavoli. In mezzo stavamo noi, otto studenti spaesati e frastornati per le inevitabili nottate. Dopo un'esposizione animata, una vera e propria rappresentazione teatrale che non fu mai interrotta da nessuno quasi fosse un concerto di virtuosi solisti, la commissione si ritirò per alcune lunghe ore, quasi fosse stata la giuria di un processo un processo politico nel quale, per la natura dei reati imputati, era quasi impossibile trovare un accordo. Alla fine passammo a pieni voti. Per me e per altri del gruppo era solo l'inizio di un percorso che in seguito è stato chiamato Architettura Radicale.

Gilberto Corretti
NOTA:

1. Gli elaborati grafici della Città Estrusa sono conservati nella collezione Archizoom del Centro Georges Pompidou di Parigi. Alcuni originali saranno esposti nella mostra Dall'onda pop alla superficie neutra che si svolgerà nel salone Borghini dell'Istituto degli Innocenti di Firenze, dal 22 settembre al 22 ottobre 2008. Il gruppo della Città estrusa era formato da Andrea Branzi, Gilberto Corretti, Massimo Morozzi, Alì Navai, Sergio Pastorini, Cristiano Toraldo di Francia, Piero Spagna e una ragazza, bravissima fotografa, di cui purtroppo non ricordo il nome. Se per caso leggesse questa nota sarei felice di rincontrarla.

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Roberto Gargiani
"Archizoom Associati 1966-1974. Dall'onda pop alla superficie neutra"
Mondadori Electa, 2007
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