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L'importanza del vuoto

Alberto Iacovoni e Marialuisa Palumbo



Difficile negarlo. Negli ultimi anni i nostri occhi si sono abituati a vedere scomparire gli spazi. L'orizzonte si è fatto denso, solido e pieno. Pieno di immobili, palazzine, palazzoni, villette, muri, recinzioni, divieti d'accesso. Architetti ed urbanisti conoscono bene il fenomeno di cui parla Ilvo Diamanti nell'articolo Italia, condominio degli estranei apparso su "la Repubblica" il 24 agosto scorso, quell'esplosione della città nel territorio in una miriade di insediamenti separati, chiamata sprawl, che dalla fine del Novecento sembra affliggere la città come una malattia incurabile. Quartieri che crescono ovunque, che si replicano con lo stesso nome, la stessa forma (o la stessa assenza di forma, come nelle piazze ridotte ad aree di parcheggio o rotonde di circolazione), la stessa palazzina (replicata all'infinito dal costruttore per ridurre al minimo tempi e costi di progettazione).

Se in parte ciò si deve naturalmente all'automobile, che rende accessibili porzioni di territorio assai distanti (ed altrimenti completamente sconnesse) dai centri cittadini, la responsabilità di un uso del territorio così chiaramente antiecologico (dal punto di vista del consumo di suolo, cioè di aree ancora libere da costruzioni ed utilizzate per coltivazioni o parchi, ma anche dei consumi energetici, di produzione di Co2, nonché della continuità della trama sociale della città) è ovviamente di natura fondamentalmente politica. Oltre che, evidentemente, anche e propriamente architettonica.

Un caso esemplare di questo fenomeno, recentemente venuto violentemente alla ribalta con la discussa puntata di "Report", I re di Roma (4 maggio 2008), è quello della più recente trasformazione di Roma, quella coincidente con la fase storica che va dalla prima giunta Rutelli nel 1993 alla approvazione del Nuovo Piano Regolatore da parte dell'ultima amministrazione Veltroni. La ragione per parlarne ancora è che proprio il caso di Roma è probabilmente davvero emblematico di questa crisi della città ma, anche, della via per venirne fuori. A Roma dunque si succedono in circa quindici anni tre amministrazioni di centrosinistra che spendono molte energie e talenti per rivitalizzare la città e indirizzarne lo sviluppo futuro, con l'intenzione dichiarata di andare contro la tendenza dissipativa della metropoli contemporanea, attraverso strumenti quali la Variante di salvaguardia, approvata per ridurre le cubature previste dal vecchio piano e risparmiare grandi superfici di aree verdi vincolandole a parco, o l'individuazione delle nuove centralità, pensate per dare un forte sviluppo policentrico alla città, e inserire nei tessuti periferici nuovi interventi ad alta intensità d'uso –non solo dunque i cosiddetti "quartieri dormitorio" totalmente dipendenti dal centro, ma veri e propri nuovi centri urbani dotati di servizi, uffici, attività commerciali.

Eppure la città concreta, quella che in questi anni abbiamo vissuto e osservato ogni giorno lavorando o andando a fare shopping, è cambiata in tutt'altra direzione. Quando tre anni fa, insieme a un gruppo di architetti, abbiamo deciso di promuovere una sorta di osservatorio pubblico sullo sviluppo urbano, Laboratorio Roma, la cui prima iniziativa fosse quella di andare a vedere come era stata costruita l'ultima città, attraverso una serie di esplorazioni collettive in alcuni dei più significativi nuovi quartieri della capitale, il panorama che abbiamo osservato coincideva esattamente con quello descritto da Diamanti, una città "condominio di stranieri". Anche qui, infatti, il suolo si è consumato in fretta (negli ultimi quindici anni, una quantità pari a quella della città dentro l'anello ferroviario), permettendo a pochi di guadagnare molto (proprietari di terreni, immobiliaristi, banche) dando ben poco in cambio alla comunità: immobili su immobili, in nuovi quartieri sempre più dispersi in quel poco che resta di una campagna a sua volta sempre più frammentata in brandelli assediati da palazzine, quartieri raggiungibili esclusivamente con la propria auto, impossibili da raggiungere a piedi. E se con l'automobile si può arrivare fin proprio dentro casa (desiderio niente affatto nascosto della maggior parte degli italiani il cui amore per l'automobile è certamente pari a quello per l'immobile), camminare a piedi per questi quartieri è altrettanto poco probabile: certo non lo si fa per andare a fare compere dato che la stragrande maggioranza dei negozi (sloggiati progressivamente dai piani terra delle case dove è molto più comodo ospitare le automobili) sono concentrati nei giganteschi centri commerciali che, come i quartieri residenziali, sono apparsi come funghi intorno al Raccordo anulare.

Se architetti ed urbanisti sono soliti –e a ragione, in gran parte– indicare come fonte di ogni male della città italiana la debolezza costituzionale delle leggi che regolano lo sviluppo del territorio nei confronti della proprietà privata, i politici a loro volta lamentano la scarsezza delle risorse economiche delle amministrazioni pubbliche. Eppure, ciò di cui si parla poco ma che è assolutamente evidente a una semplice e diretta esplorazione dell'ultima città romana, è la scomparsa dello spazio pubblico, di quel tessuto connettivo che, indipendentemente dalla qualità delle nuove costruzioni, nella città storica ha sempre ricucito insieme tra loro le differenti individualità in una comunità. Nella città paradigma delle forme più diverse di spazio pubblico (dalla religiosa Piazza San Pietro alla sfarzosa Piazza di Spagna, dal colorato Campo dei Fiori alla vasta Piazza del Popolo, dalla piccola Piazza del Fico alla oblunga Piazza Navona e il catalogo potrebbe certo proseguire), la mancanza di una volontà e di una capacità progettuale in tal senso è paradossalmente evidente.

Delle parole chiave che avrebbero dovuto rivoluzionare in positivo la città a venire, in questi brandelli isolati di ultima città non si percepisce neppure l'eco, spentasi probabilmente nelle contrattazioni tra costruttori e gli uffici comunali preposti al controllo ciò che emerge, al contrario, è la perdita totale della capacità di tradurre nella forma minuta della città e dei suoi spazi un'idea del vivere collettivo. Eppure, se non si dà società se non sulla base di un terreno comune, di un luogo comune che è altro ed almeno altrettanto importante del luogo proprio, allo stesso modo non si dà città se non attraverso la continuità di quella struttura connettiva che è lo spazio pubblico. Connettiva appunto della molteplicità di singolarità che sono i luoghi privati, gli spazi delle nostre esistenze individuali. È di questo terreno comune che la città contemporanea ha disperatamente bisogno. Un terreno fatto non solo di piazze ma anche e soprattutto di percorsi, di marciapiedi, di piste ciclabili, di piccole attenzioni come i raccordi di quota nelle pavimentazioni come di attenzione, alla grande scala, alla continuità del sistema complessivo che lega insieme piazze, parchi, giardini e percorsi. E, nonostante le visioni apocalittiche sulla irrimediabile perdita dello spazio pubblico abbiano negli ultimi anni dominato il pensiero architettonico, molte esperienze europee dimostrano che con una sensibilità propriamente ecologica verso il sistema di relazioni o, con le parole di Bateson, verso "la struttura che connette", ovvero, ancora, verso ciò che è "tra" e "oltre" gli edifici di una città –il suo negativo, il vuoto, lo spazio pubblico- è ancora possibile a quel luogo fisico geografico che è l'urbs, divenire civitas, un insieme di individui associati nel diritto, nella legge e nella politica.

Questa sensibilità per il vuoto è la speranza delle nostre città. Occorre salvare quello che resta ma anche e soprattutto costruire una cultura, una sensibilità comune, diffusa in ogni cittadino e certamente tra tutti gli amministratori, i progettisti e i tecnici coinvolti quotidianamente nel farsi della città, per l'importanza dello spazio vuoto, non solo come negativo del pieno, ma come spazio delle relazioni, tra le cose e tra le persone. In questi giorni si inaugura a Venezia la Biennale di Architettura intitolata appunto "Beyond Building". Potrebbe essere un'occasione importante (per gli architetti ma più in generale per chiunque abbia a cuore il destino del nostro spazio e della nostra società) per tornare ad affermare (al di là degli edifici, appunto) il valore dello spazio pubblico: l'unica arma possibile non solo contro lo sprawl ma soprattutto contro una esistenza da apolidi. Persone senza città, in un mondo interamente costruito.

Alberto Iacovoni e Marialuisa Palumbo
[17 settembre 2008]

 

 

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