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Slowenien Architektur. Meister & Szene

Pietro Valle



La galleria Architektur im Ringturm XVII di Vienna, sotto la guida di Adolph Stiller, ha organizzato negli ultimi anni una quindicina di mostre che esplorano aspetti dell'architettura moderna e contemporanea in paesi appartenenti alla sfera culturale della Grande Austria (Slovacchia, Romania, Croazia) e in altre nazioni europee solitamente non considerate dalle principali tendenze internazionali (Finlandia, Lussemburgo). Quest'attività ha fatto scoprire vivaci realtà regionali che non si lasciano condizionare passivamente dalle mode internazionali ma che, anzi, le rielaborano per definire un proprio contestualismo e operare una critica al livellamento mediatico che caratterizza gran parte dell'architettura contemporanea.

L'appartenenza storica di queste regioni a realtà soprannazionali come l'Impero Asburgico o al Patto di Varsavia ha condizionato e condiziona ancora oggi la loro produzione architettonica orientandola verso un orizzonte più vasto di quello regionale. Questi paesi presentano una tensione culturale tra locale (circoscritto in uno specifico luogo), soprannazionale (appartenente a un'area storico geografica più vasta di una singola regione monoculturale) e globale (influenzato da tendenze internazionali importate e mediatizzate) che condiziona la rappresentazione pubblica dell'architettura. Queste aree di confine tra culture e religioni diverse non confrontano l'internazionalizzazione dal punto di vista di un'identità omogenea ma dall'assommarsi di una pluralità di storie moderne fatte di molteplici dominazioni, appartenenze e definizioni identitarie. Esse sono state soggette a progetti politici continuamente interrotti, ognuno dei quali le ha esposte a influenze che vanno oltre ai loro confini regionali.

[21 settembre 2008]
  Questa stratificazione culturale ha prodotto ferite, divisioni e confini ma anche una coscienza della propria identità proiettata verso un orizzonte interculturale privo di continuità storica e quindi continuamente ridefinibile. È quindi impossibile spiegare la cultura di questi paesi come il semplice risultato di una dialettica tra un microcosmo stabile di sapore nostalgico-preindustriale e delle influenze internazionali che si presumono livellatrici. La differenza tra locale e soprannazionale è qui più ambigua e la definizione d’identità più complessa: non sempre l'idea di appartenenza è determinata dal qui e ora, non sempre si importano modelli per subirli passivamente. La caduta del Comunismo nell'Est Europa e la creazione di nuove nazioni ha smembrato un blocco politico-ideologico e ha orientato molte regioni verso l'economia di mercato.

Dopo un primo periodo di omologazione passiva e di veloce allineamento a quello che è stato chiamato Turbo-Capitalismo, molte nazioni si interrogano su come definire una propria collocazione culturale in un contesto europeo mutato e in un'economia che proietta ogni atto su un mercato globale. Tutto ciò influenza profondamente l'architettura, la definizione di luoghi, dell'abitare e delle istituzioni. La vivacità culturale e l'incertezza identitaria che caratterizza le nuove nazioni dell'Est si rilevano in pieno nell'ultima riuscita mostra prodotta dal Ringturm: Architettura Slovena - I Maestri e la Scena, curata da Stiller insieme con Luka Skansi. Dopo avere aperto a Vienna in primavera, la mostra sta ora girando per l'Europa accompagnata da una pubblicazione in tedesco e inglese che si propone come una prima mappatura della scena architettonica slovena del Novecento e di questo inizio millennio (recentemente la mostra è stata ospitata allo IUAV di Venezia). La rassegna di edifici presentati è divisa in tre momenti storici: primo riguarda il periodo di appartenenza della Slovenia al Regno di Yugoslavia (1918-1940) dopo la caduta dell'Impero Asburgico, la seconda riguarda gli anni della Yugoslavia Socialista (1945-1991) e il terzo il presente (dal 1991 a oggi) con la Slovenia per la prima volta nazione indipendente.



I primi due periodi sono contrassegnati da due grandi progettisti che dominano completamente il dibattito e la scena architettonica, stabilendo una vera e propria "scuola" alla Facoltà di Architettura di Lubiana e filtrando, attraverso la loro sensibilità, le tendenze internazionali che hanno sperimentato durante la loro formazione all'estero. Joze Plecnik (1872-1957) è il protagonista del primo periodo: allievo di Otto Wagner a Vienna all'inizio del Novecento e attivo a Praga nel decennio successivo, Plecnik arriva a Lubiana negli anni Venti e, con la sua forte personalità, diviene in breve tempo il principale architetto pubblico influenzando la pianificazione di tutti i punti nevralgici della nuova città. Plecnik elabora un personalissimo linguaggio monumentale e antimodernista, fatto di frammenti di Classicismo arcaicizzante, di sensualità figurative manieristiche e di molteplici materialità che rileggono il principio Semperiano del rivestimento studiato a Vienna. Il trait d'union dell'eclettica produzione di Plecnik è la capacità di legare qualsiasi gesto architettonico a una visione urbana e paesaggistica dai grandi orizzonti legata alla Grossstadt Wagneriana.


Ivan Vurnik, Banca Commerciale Cooperativa, Lubiana 1921-22.


Joze Plecnik, biblioteca universitaria, Lubiana 1931-41.

Plecnik inventa per Lubiana una nuova mitologia, immaginandosi architetture fatte come frammenti archeologici, stratificazioni materiali e riflessi del passato. La sua sistemazione del lungofiume della Lubljanica con la sequenza delle rive, dei parchi, del complesso dell'Università, dei tre ponti, del mercato e della salita al castello è un capolavoro di pianificazione realizzato attraverso brani di architettura. Nel proiettare la Slovenia verso il mito classicista (pur riveduto e corretto), Plecnik sconfigge il vernacolo folclorico di architetti come Ivan Vurnik ma anche le tendenze moderniste che, come visibile in mostra, sono relegate a singoli interventi residenziali in periferia o fuori città, pur presentando pregevoli esempi di residenze disegnate da progettisti come Josip Costaperaria e France Tomazic.


Joze Plecnik, lungofiume Lubljanica, Lubiana 1935-36.

Plecnik è stato riscoperto negli anni Ottanta in Europa e considerato un antesignano di un certo postmodernismo storicista. Questa lettura "operativa" è limitata e la sua figura dovrebbe oggi essere riconsiderata alla luce della complessità dei suoi riferimenti culturali e delle sue manipolazioni linguistiche. Non vi è, infatti, nella sua opera nessun ammiccamento "provinciale": i lessici architettonici che egli assume sono elaborati in modo talmente originale che essi perdono ogni valore normativo e diventano libere parole. La nuova Lubiana di Plecnik si prefigura come luogo d'incontro che riassume Vienna, Roma, Atene e Parigi superandole in una nuova sintesi internazionale.


France Tomazic, villa Oblak, Lubiana 1931-35.


Herman Hus, il piccolo grattacielo, Lubiana 1931-32.

Edvar Ravnikar (1907-1993), l'allievo di Plecnik inviato dal maestro a Parigi a lavorare da Le Corbusier, è il protagonista che domina la scuola di Lubiana durante il periodo del nazionalismo Iugoslavo. Anche lui tornato a Lubiana dopo l'apprendistato all'estero, diviene in breve tempo la guida intellettuale dei giovani architetti che si aprono al modernismo internazionale. Ravnikar conia una personalissima sintesi tra strutturalismo brutalista di matrice tedesco-anglosassone e declinazioni "artigianali" nel trattamento dei rivestimenti. Questa dualità è capace di definire i grandi complessi urbani come stratificazioni di segni materiali che si rivelano gradatamente (in questo rielaborando con un linguaggio industrializzato l'idea "archeologica" e cinetica delle architetture di Plecnik). Béton Brut e texture di mattoni si mescolano nel bellissimo complesso Ferant Garten a Lubiana (1964-73), capace di dialogare con la città barocca e ottocentesca attraverso la rottura della propria volumetria ad alta densità in successivi redent.


Edvar Ravnikar, piazza della Rivoluzione, Lubiana 1960-82.


Stanko Kristl, asilo Mladi Rod, Lubiana 1972.


Stanko Kristl, edificio commerciale-residenziale, Velenje, 1960-63.

Ma è con il complesso della Piazza della Rivoluzione (1960-82) che Ravnikar dona a Lubiana la sua icona alla scala geografica, portando al culmine una sensibilità per le megastrutture sviluppata in successivi progetti urbanistici. Due grattacieli a base triangolare si ancorano su un basamento che ospita sale teatrali, centri culturali e una galleria commerciale. Questo basamento definisce una piazza pubblica che ricuce la città barocca con quella ottocentesca e media il fuori scala delle torri. In parte social condenser, in parte microcittà, il complesso della Piazza della Rivoluzione rinuncia alla sua autonomia insediativa e mostra come il modernismo sappia dialogare con il contesto a più livelli, sia stabilendo un nuovo orizzonte sia modificando l'esistente.


Edo Mihevc, complesso Residenziale Kozolec, Lubiana 1953-57.


Edvar Ravnikar, complesso Ferant Garten, Lubiana, 1964-73.


Edvar Ravnikar, piazza della Rivoluzione, Lubiana 1960-82.

Ravnikar non è, tuttavia, solo: diviene capofila di una fortunata generazione di architetti chiamati a progettare le nuove istituzioni dello stato Iugoslavo e che adottano il modernismo tecnologico come linguaggio ufficiale. Negli anni Sessanta e Settanta, Savin Sever, Stanko Kristl, Milan Mihelic e Oton Yugovec sono progettisti di edifici industrializzati che usano il componente prefabbricato come frammento formale "disegnato" con cura artigianale e capace, con la sua figuratività, di definire la forma dello spazio nonché la rappresentazione dell'istituzione ospitata in esso. La scuola di Lubiana si distingue per la tensione dialettica tra modernismo "astratto", inventiva strutturale e rappresentatività materica, raggiungendo altissimi risultati che sono ancora poco conosciuti al di fuori dell'area culturale slavo-tedesca (nel catalogo ci sono due testimonianze di Friedrich Achleitner e Friedrich Kurrent sull'influenza di Ravnikar in Austria negli anni Sessanta e Settanta).



Il terzo periodo analizzato dalla mostra, quello contemporaneo dal 1991 a oggi, è contrassegnato dall'esplosione di una nuova generazione di giovani quarantenni (Bevk-Perovic, Sadar-Vuga, OFIS e altri) che proiettano la nuova architettura slovena sul palcoscenico internazionale con edifici di grande presenza visiva. Anche questi progettisti hanno una formazione internazionale e hanno studiato presso le grandi scuole di tendenza (Berlage Institute, Architectural Association). Il loro successo, facilitato dai nuovi investimenti del neonato stato e dalla diffusione dell'economia di mercato, non è tuttavia casuale. Sin dagli anni Ottanta, lo scambio con i paesi europei da parte degli architetti sloveni, la presenza di istituzioni culturali come l'Associazione/Galleria Dessa e l'opera di alcuni progettisti più anziani (Vojteh Ravnikar, Jurij Kobe, Matej e Vesna Vozlic), avevano preparato il terreno per un'esplosione a livello internazionale. Questa è prontamente avvenuta a pochi anni dall'indipendenza con l'improvviso successo della Camera di Commercio di Sadar-Vuga (1992-96), il primo edificio della nuova generazione. A differenza dei primi due periodi della mostra, non sembrano per ora emergere singole figure come Plecnik e Ravnikar capaci di monopolizzare l'intero dibattito dell'architettura slovena. Si assiste semmai a una pluralità di voci che articolano la produzione architettonica recente secondo linee di sviluppo parallele.


Enota, Hotel Sotelia, Podcertek, 2004-6.


Ofis, complesso residenziale, Cerklje, 2005-07.


Bevk-Perovic, case popolari, Lubiana-Polje, 2002-05.


Ofis, residenze, Bohinijska Bistrica, 2006-07.

Una sommaria analisi delle corrispondenze tra gli edifici della giovane generazione slovena rivela:
- un'influenza della scuola olandese con l'impiego di diagrammi a definire l'assemblaggio di unità funzionali diverse che scompongono il programma dell'edificio in parti discrete (la suddetta Camera di Commercio di Sadar-Vuga è un buon esempio). Le cellule di queste volumetrie aggregative sono spesso caratterizzate da un riduzionismo formale che ne sottolinea la schematicità;
- un'attenzione agli involucri come unità iconiche significanti spesso separate dagli spazi interni. Le facciate uniscono a volte un minimalismo di matrice austriaco-tedesca e la locale tradizione moderna di attenzione al dettaglio, con l'impiego di materiali naturali quali il legno e la pietra (tutte le architetture di Bevk-Perovic sono caratterizzate da questa cura materiale come pure gli involucri lignei di OFIS). Parallelamente vi è la tendenza a un certo decorativismo grafico erede della pulsione a "stratificare" la "pelle" dell'edificio con i rivestimenti già presente in Plecnik e Ravnikar, per quanto riletta attraverso i nuovi pattern del design internazionale (le residenze di Sadar-Vuga lungo la Lubljanica adottano questa strategia come pure quelle di Bevk-Perovic a Lubiana-Polje).

Queste due tendenze, quella funzionale-aggregativa e quella iconica, possono convivere nello stesso edificio, segno questo di una disinvolta autonomia dell'immagine dalla realtà spazio-materiale che è in linea con gli orientamenti di molta architettura internazionale. Tuttavia, nelle eleganti esercitazioni dei giovani architetti sloveni, manca per ora la tensione a definire un linguaggio proprio che possa testimoniare una posizione identitario-culturale ed è, soprattutto, assente un'idea di città o di insediamento a grande scala. Essi sembrano troppo intenti a definire dei begli oggetti isolati e a declinare i trend internazionali invece di manipolarli. In questo, sono interpreti di una stagione di liberismo culturale in cui la definizione di identità passa necessariamente attraverso la riduzione mediatica e il suo riconoscimento in singoli segni sradicati da parte di un generico pubblico. Mentre Plecnik e Ravnikar mostravano la deformazione dei linguaggi internazionali per fini espressivi identitari, i giovani sloveni sembrano disperdersi in essi per creare varietà visiva. Può questa essere una strategia culturale che evita di usare il linguaggio architettonico come elemento definitivo per dispiegare le innovazioni spaziali dietro ad esso? È troppo presto per dirlo, le prove costruite presentano uno stacco troppo vistoso tra un'immagine spettacolare e una rigidità distributiva per testimoniare un rapporto dialettico tra le due: non vi sono per ora posizioni chiaramente definibili di resistenza a modelli chiaramente importati.

Tutto ciò stride non poco con la presunta "identità" della giovane architettura slovena come annunciata dai progettisti e critici a Lubiana, salvo che per identità non si identifichi la capacità di impiegare i linguaggi internazionali senza limiti, il che permette di essere riconosciuti dal mercato dell'immagine dell'architettura globalizzata. In realtà i pur abili progettisti sloveni portano in evidenza i limiti di un'architettura che riduce tutto a formule e diagrammi, che si preoccupa più della diffusione invece di riflettere sul proprio significato. Persa in loro è quella dialettica tra locale, soprannazionale e globale che caratterizzava le generazioni precedenti. Forse esse anelavano a una possibilità di espressione all'interno di sistemi politici estranei che li dominavano, mentre ora, nella pacificazione liberista della nuova nazione slovena, questa tensione culturale non è più sentita. Tuttavia, il proiettarsi immediatamente in una dimensione internazionale senza definire una propria specificità rischia di disperdere le capacità costruttive dei giovani progettisti sloveni in un'anonima genericità. Definire un'identità senza cadere nel tranello della riconoscibilità è forse la cosa più difficile all'interno della cultura dell'informazione. Ancora più difficile lo è per una giovane nazione che anela a porsi in evidenza agli occhi di una comunità internazionale. Forse i confini della Slovenia si sono troppo ristretti e i suoi cittadini ricorrono troppo spesso a riferimenti importati per evitare di definire una propria dimensione, per paura che essa gli stia troppo stretta. È questo il rischio più grosso che sta correndo la nuova architettura slovena, quello di cadere in un provincialismo globalizzato che guarda solo all'esterno senza definire un territorio proprio.

La storia moderna della Slovenia, così come documentata ne I Maestri e la Scena, mostra invece che il misurarsi con la pluralità culturale, quella presente nel quotidiano di una nazione moderna multietnica, può produrre la tensione a definire una propria posizione senza annullarsi. La Slovenia dovrebbe forse recuperare un proprio ruolo come cerniera culturale tra mondi diversi, quelli presenti al suo interno e ai propri confini, invece di guardare unicamente oltre ad essi. Il pregio de I Maestri e la Scena sta proprio nel sovrapporre i diversi periodi di crescita di questa piccola nazione e mostrare come la sua identità sia sempre stata definita a partire da un dialogo con le diverse genti presenti all'interno della propria storia. La condanna della Slovenia a proiettarsi sempre al di fuori di se stessa è stata usata da architetti come Plecnik e Ravnikar come una risorsa e mai come chiusura o passiva imitazione. Anche la sfida contro il livellamento di un'architettura mediatizzata può essere usata come elemento di resistenza che definisce un'identità contemporanea. Speriamo che le fortunate occasioni costruttive dei giovani architetti sloveni portino sempre più verso una riflessione sulla loro specificità culturale e superino l'ingenuo entusiasmo per le novità del libero mercato. La storia si può comunque riscrivere e la vicenda della Slovenia ne è testimonianza.

Pietro Valle
pietrovalle@hotmail.com

Matej e Vesna Vozlic, uffici Linde MPA, Lubiana 2002.


Sadar-Vuga, Camera di Commercio della Slovenia, Lubiana 1996-99.


Bevk-Perovic, casa dello studente, Lubiana 2004-06.

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Matevz Celik
"New Architecture in Slovenia"
Springer, 2007
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