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Il progetto della città: critica, politica e architettura. Prime tesi

Pier Vittorio Aureli, Gabriele Mastrigli, Martino Tattara



Si inaugura oggi a Roma, presso l'Academia Belgica, la mostra Una Visione per Bruxelles che presenta una sintesi del progetto per Bruxelles capitale dell'Europa elaborato tra il 2004 e il 2007 dal Berlage Institute nell'ambito del programma ricerca sulle città capitali. Il 14 novembre, sempre presso l'Academia Belgica è in programma la giornata di studi Giudizio Critico: Critica Architettonica e Politiche della Forma Urbana che intende discutere il ruolo della critica disciplinare nei confronti delle trasformazioni urbane che stanno investendo la città contemporanea. Questi due eventi, organizzati dal Berlage Institute in collaborazione con l'Academia Belgica, traggono origine e al contempo costituiscono un preludio al progetto per Roma, in corso di elaborazione, e che sarà presentato al pubblico alla fine del 2009. Lo scopo di questi eventi e del progetto ad essi sotteso, è quello di mettere a tema la possibilità di un ritorno al progetto della città come il nesso tra la critica, la politica e l'architettura. Il testo che segue costituisce un'introduzione alle tre parti di questo progetto e mira ad illustrarne, in forma polemica, le premesse teoriche.



 
È arrivato il momento di porci una domanda. È possibile intravedere, nelle confuse fattezze del momento che stiamo vivendo, la forma di un passaggio storico? Nella stasi delle ultime decadi, l'amplificazione mediatica prodotta ad ogni starnuto della storia consiglierebbe rigorosa prudenza. Da lungo tempo siamo abituati al susseguirsi di allarmi, di presunti "stati di eccezione", di svolte epocali o di cambiamenti irreversibili, tanto che ci sembra di vivere un tempo in cui "tutto deve cambiare affinché tutto rimanga uguale". Inoltre, se a detta di molti siamo da anni (anzi da decenni) nella fase storica del "post", dell'"after" e dell'"ex", cioè in un vero e proprio limbo da "fine della storia", come è possibile intravedere la forma di un passaggio storico?

Va da sé che questa domanda implica un discorso inevitabilmente complesso. Tuttavia è proprio di fronte a questo genere di interrogativi che si impongono improvvisi dopo lunghi periodi di letargo storico, che occorre provare a semplificare le cose invece di renderle più complesse. Proviamo, allora, a semplificare i termini e le ragioni che ci spingono a chiederci se di fronte ad alcuni segni importanti che sono emersi negli ultimi mesi –tra cui la crisi economica che ha investito il mondo– sia legittimo provare ad intravedere la forma di un possibile passaggio, vale a dire la forma di una possibile crisi, e dunque la possibilità di liberarci da quella lunga post-moderna fine della storia che è stata una confortevole prigione di molti pensieri negli ultimi decenni.



1. L'attuale crisi economica è solo la punta di un iceberg che da qualche anno ha iniziato a conformarsi e che possiamo identificare con la fine del neo-liberismo. Il neo-liberismo è stato quella particolare forma del capitalismo sorta dalla crisi del Welfare State negli anni '70, e che ha sancito il primato pieno del mercato sulla politica. Se la crisi energetica del 1973 è stata eletta a simbolo del passaggio storico dal capitalismo del Welfare State al capitalismo liberal-democratico del mercato, non sarebbe difficile designare l'attuale crisi del mercato finanziario, se non come il simbolo, quantomeno come il segno di un passaggio ulteriore dal capitalismo neo-liberista ad un capitalismo che sarà costretto a darsi delle regole, a porre dei limiti politici alla sua forza espansiva ed accumulatrice.


Vista del centro dalla Stazione Centrale. Da Brussels—A Manifesto: Towards the Capital of Europe, p. 143. Per gentile concessione del Berlage Institute.

Vista in questa prospettiva storica, l'attuale crisi economica è tutto fuorché improvvisa e s'inscrive in quel continuo processo di ristrutturazione che il capitalismo stesso è costretto ad affrontare ciclicamente per garantire la propria egemonia. Non siamo alla fine del capitalismo; siamo alla fine della forma post-moderna ovvero alla fine della grande illusione che il libero mercato e la competizione costituiscano il luogo in cui magicamente si risolvono tutte le contraddizioni. Siamo alla fine dell'idea che lo sfruttamento di persone e di risorse naturali siano solo un effetto collaterale dello sviluppo economico e non la sua causa (e il suo incentivo) fondamentale. Da qui è possibile immaginare che il mercato futuro e l'economia non saranno più la stessa cosa. L'economia dovrà tornare a politicizzarsi, ovvero ad essere lo strumento di un progetto politico a grande scala.



2. Noi pensiamo che la fine del neo-liberismo costituisce un terreno fertile per mettere in discussione una delle fondamentali forme organizzative del capitalismo, i cui tratti sono riconoscibili nella forma della città. Questa forma organizzativa è il paradigma gestionale, ovvero quella declinazione economica del potere che si risolve nella ricerca di equilibri, nell'amministrazione e nel management piuttosto che nella messa in forma di conflitti e in una azione politica. Nel paradigma gestionale "tutto ciò che è solido si dissolve nell'aria" ovvero il governo diventa la governance, il conflitto la negoziazione, il macro diventa micro, la forma urbana diventa spazio di relazione.

Nel campo della città e della sua architettura, il paradigma gestionale si è manifestato a partire dagli anni settanta e ottanta nel laissez-faire urbano, nello sprawl o nella nostra città diffusa, e in un fenomeno solo apparentemente opposto a quello dello sprawl, ovvero nella crescente discretizzazione e segregazione dello spazio abitato e nella sua riduzione ad isole impenetrabili di ricchezza circondate da un mare urbano abbandonato a se stesso.


Vista del piano pubblico del Circo Massimo e del Quartiere Nord. Da Brussels—A Manifesto: Towards the Capital of Europe, p. 125. Per gentile concessione del Berlage Institute.

Noi crediamo che la pressione sociale di questo mare ha ormai raggiunto un livello tale da minare nel profondo l'unità disgiuntiva del potere economico che gestisce lo stato delle cose. Non è facile immaginare che il potere economico per sopravvivere a se stesso debba ricorrere ad esplicite decisioni politiche, cioè a ripensare in termini generali e non settoriali e segreganti la città. Questo vuol dire che gli scenari quali il progetto della città non sono più improbabili come lo erano pochi anni fa. Per chi vuole assumere una posizione critica nei confronti del capitalismo non si tratta di rifiutare questo scenario. Si tratta invece di metterlo a tema, e dunque di prevederlo in forme teoriche di lungo termine che si liberino dai luoghi comuni degli ultimi decenni: la cultura del frammento, della flessibilità, del bottom-up, della complessità e dell'informalità. Occorre, soprattutto, liberarsi da tutte quelle immagini-feticcio della complessità urbana che implicano una accettazione fatalista, una resa senza condizioni di fronte al modo in cui la città è trasformata dalle forze in campo.



3. La fine del neo-liberismo e la conseguente possibilità di una critica al paradigma gestionale hanno un riflesso importante nel modo stesso in cui il sapere della città e l'architettura sono comunicate. Il potere gestionale ha infatti avuto un importante riflesso in luoghi e figure ricorrenti della cultura architettonica e artistica. Uno di questi luoghi è l'idea di "ricerca", così come è stata declinata nelle inchieste fatte dagli architetti, spesso fondate sulla riduzione della città all'informazione, all'attualità giornalistica, alle statistiche ed alle mappature, ovvero una serie di attività che da molti anni hanno completamente eclissato l'idea stessa di progetto e di teoria condannando entrambi quali arroganti vessilli di una obsoleta modernità.

Noi crediamo che queste "ricerche" nascondono un errore di fondo, ovvero il riconoscimento dell'essenza della città come un fenomeno di flussi, cioè circolazione e consumo, dimenticando che il presupposto della città contemporanea è la produzione che, se da un lato avviene in termini diversi da quelli della città industriale, dall'altro rimane produzione e quindi lavoro. Si vive nella città per lavorare e per essere forza produttiva a tutti i livelli di produzione, dal lavoro industriale a quello culturale, da quello "creativo" a quello intellettuale, fino a giungere a quello, oggi dominante, del lavoro "precario".

Occorre tornare a pensare la città come lo spazio che massimizza queste forme di produzione, favorendo lo scambio interpersonale, la cooperazione, la comunicazione, lo spostamento di cose e persone, fenomeni sociali e culturali che oggi non costituiscono un surplus al lavoro, ma sono parte integrante del modo in cui si lavora e della produzione. Di fronte a questo fatto, che diventa sempre più esplicito, il fissarsi sulla città sfornando continuamente inutili tassonomie, aggettivi e nuove immagini per descriverla, mistifica il presupposto della città, e cioè che dietro i suoi continui cambiamenti essa si preserva e riproduce come luogo per la produzione. Mettere al centro il tema del lavoro come tema dominante della città vuol dire superare tutte quelle immagini che frammentano il corpo urbano e recuperare uno sguardo radicale di sintesi. Il piano su cui poggiare questo sguardo di sintesi è la possibilità di nuove forme di welfare.



4. Recupero dello sguardo di sintesi vuol dire anche muovere una radicale critica alle forme di produzione culturale contemporanea. Questo vuol dire scorgere il riflesso del paradigma gestionale come esso si incarna, ad esempio, nella figura del curatore. Oggi il curatore ha soppiantato la figura del critico e del teorico quale agente di produzione culturale, ma a differenza di questi ultimi, esso ha per definizione un ruolo super partes, di carattere gestionale e dunque relazionale. Da colui che in passato proveniva dal mondo della critica, della storia, e della pratica artistica o architettonica, il curatore è oggi una figura altamente specializzata e di grande potere simbolico, il cui sapere è iscritto in quella che il curatore francese Nicolas Bourriaud (uno dei maggiori "teorici" di questa pratica) ha definito come "estetica relazionale" e fenomeno della "post-produzione". Al centro di questi fenomeni vi è l'elevazione dell'idea di pratica sociale –intesa soprattutto nelle sue valenze produttive- a vera e propria forma artistica. Cultura artistica e architettonica diventano un fatto di transazioni, di scambi, di interazione, dove il nuovo demiurgo non è un creatore ma una figura assimilabile all'intrattenitore, all'amministratore, al bricolouer ed al DJ.

In questo senso il curatore eleva, o meglio sublima, l'attitudine (impolitica) gestionale del management a vera e propria forma di gestione e produzione della cultura. Il trionfo del curatore significa che se un tempo il management aveva una forma tecnocratica e burocratica, oggi esso assume una forma "creativa", vale a dire si avvale di sfere simboliche in cui la rappresentazione, la cultura e dunque l'arte hanno un peso fondamentale nel riprodurre il potere economico. Come la ricerca riduce le contraddizioni della città allo spazio liscio dell'informazione, così il curatore riduce l'arte e l'architettura alla gestione della cultura in cui i valori esaltati sono quelli della creatività, della molteplicità e della differenza svincolati da ogni responsabilità critica e dunque politica.

Di fronte a questo stato delle cose, occorre affermare che la crisi del paradigma gestionale significa anche la possibilità di una messa in questione del paradigma curatoriale. Messa in crisi non tanto della figura in sé, ma del suo regime discorsivo o, sarebbe meglio dire, "performativo". In questo senso critica dell'ideologia curatoriale non significa semplicemente critica demagogica ad una pratica che è ovviamente necessaria, ma critica alle rappresentazioni culturali della città e dell'arte che questa pratica contribuisce ad alimentare e che spesso coincidono con la spoliticizzazione e sublimazione delle contraddizioni che reggono l'ordine economico delle cose.



5. È giunto il momento in cui, al trionfo delle pratiche relazionali, post-produttive e gestionali, che hanno alimentato il discorso sulla città e l'architettura, si opponga l'idea di progetto. Per progetto s'intende una pratica fondata sull'ideazione di qualcosa a venire, cioè sulla previsione e, soprattutto, sullo sforzo programmatico di elaborare i mezzi e le forme attraverso cui rendere effettiva l'ideazione stessa. Il progetto non è solo l'idea, esso è la messa a fuoco di un apparato di strumenti, di forme e di figure in grado di rendere intelligibile e, dunque, pubblica ed effettiva, l'idea. È l'intelligibilità l'obbiettivo più concreto del progetto perché il suo scopo non è quello di essere una semplice istanza di cambiamento, ma l'istanza di cambiamento che più si vuole potente quanto più si deve concepire come programmaticamente analizzabile.

È proprio per questa ragione che il progetto, ancor prima che essere discusso sul piano della sua realizzabilità, oggi si trova a scontrarsi con un potente apparato retorico, o meglio, con un immaginario diffuso (specialmente tra gli intellettuali) che vuole l'idea stessa di intelligibilità –di chiarezza esemplare delle forme- come impossibile se non riduttiva. Contro questo immaginario occorre ricordare non solo che l'idea di progetto è sempre critica della complessità, ma è anche un modo di pensare che procede su due registri complementari e paralleli. Da una parte vi è il registro della complessità, che non deve essere complessità di strumenti e di forme, ma complessità di pensiero, cioè attitudine a problematizzare. Dall'altro vi è il registro della semplicità, che non deve essere riduzione sic et simpliciter della realtà a schemi interpretativi di facile comunicazione, ma semplicità di forme e punti di riferimento sui quali impostare l'azione progettuale.

È proprio sull'idea di questo doppio registro che deve essere recuperata l'eredità del Moderno per non abbandonarlo ad una interpretazione che ne ha inteso gli esiti come manifestazione di un disegno tecnocratico, deterministico o politicamente reazionario. Per far questo occorre affiancare al progetto della città, un vero e proprio progetto critico, storico e teorico di recupero delle forme in cui si sono manifestati i progetti precedenti. Di questi progetti va messo a fuoco il nesso spesso controverso, ma sempre essenziale, tra forma del progetto –che spesso è forma dell'architettura– e forma politica delle istanze che hanno mosso, ispirato o semplicemente favorito l'attuarsi di questo progetto. Questo nesso non va ricercato nella banale rappresentazione semantica della politica come stile dell'architettura. Categorizzazioni e confronti quali quelli sovente usati dalla critica come architettura democratica vs. architettura reazionaria, architettura progressista vs. architettura storicista, sperimentazione vs. tradizione, sono categorizzazioni non solo inutili ma anche mistificanti. Il nesso tra critica, politica e architettura va ricercato nella possibilità del progetto, cioè nella sfera che è più propria del nostro sapere, che è quella di definire forme e riferimenti che pur nel loro ambito specifico di progetto di architettura contribuiscono a portare avanti la città.

Infine. Né inutili appelli all'ordine, né miraggi di un mondo "là fuori". Ritorno al progetto significa ritornare a riflettere sull'architettura, sui suoi strumenti, sulle sue forme e sulla sua storia È solo nel vivo della forma architettonica, nella sua capacità e responsabilità di istituire una idea della città e del suo spazio, che finalmente possiamo ritrovare le motivazioni più profonde per impegnarci nel nostro lavoro.

Pier Vittorio Aureli, Gabriele Mastrigli, Martino Tattara

[13 novembre 2008]

La mostra A vision for Bruxelles: imagining the capital of Europe è stata presentata per la prima volta al Bozar di Bruxelles nel marzo del 2007, ed è curata da Pier Vittorio Aureli e Joachim Delclerk. La mostra è stata accompagnata dal volume Brussels a Manifesto: Towards the Capital of Europe pubblicato da Nai Publisher, Rotterdam nel 2007. Il progetto, oggetto della mostra, e la pubblicazione sono stati sviluppati all'interno del programa Capital Cities: City as Political Form diretto da Pier Vittorio Aureli e Martino Tattara presso il Berlage Institute. Durante il suo svolgimento questo programma ha incluso studi e progetti su Bruxelles, Mosca, Brasilia, Seoul e Roma.

> THE BERLAGE INSTITUTE
> ACADEMIA BELGICA

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Pier Vittorio Aureli
"The Project of Autonomy: Politics and Architecture Within and Against Capitalism"
Princeton Architectural Press, 2008
pp. 80, $24.95 $16.47


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