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Per Francesco Tentori
(1931-2009)

Giovanni Corbellini



Francesco Tentori se n'è andato. Era uno dei maestri formatisi nello Iuav di Samonà e nella "Casabella" di Rogers. È stato il mio maestro, incontrato per un caso fortunato, e di tanti altri che lo hanno scelto per quella sua personalità torrenziale, per la serietà di studioso, per la capacità di sorprendere sempre con uno scarto improvviso.

In più di venticinque anni di frequentazione, dieci dei quali di intensa collaborazione nella ricerca e nella didattica allo Iuav, mi ha insegnato praticamente tutto. Molto di più della grande quantità di notizie, collegamenti e interpretazioni contenute nei suoi scritti su Le Corbusier, sul Friuli, sui modi insediativi spontanei, sul Brasile, sull'architettura italiana del Novecento e su tanti altri, disparati argomenti. E anche dei diversi spunti originali della sua non molto conosciuta attività di architetto, con lavori importanti (la sua casetta di Tarcento, il cimitero di Longarone e le altre collaborazioni eccellenti che non mostrava volentieri agli studenti: diceva che era meglio portare a esempio progettisti più bravi di lui).

Quello che ora ricordo con maggiore intensità è un modo di affrontare la vita senza risparmio, fatto di incredibile generosità, acutezza, passione e integrità fino ai limiti dell'autolesionismo. Una energia che oggi riesco ad attribuire a una sorta di innocenza infantile, magicamente conservata negli anni della maturità e che solo la tragedia del figlio morto ammazzato aveva potuto incrinare. Era capace di investire chiunque con insulti feroci, persino di fare le boccacce al malcapitato che gli si trovava a tiro nel momento sbagliato, fosse un uomo di potere, un collega o l'ultimo degli studenti. Proprio per questo, le espressioni di stima e gli slanci di affetto che comunque esprimeva non lasciavano spazio a sospetti di ipocrisie o piaggerie. Ho capito poi che sotto al dato caratteriale vi era paradossalmente un profondo rispetto per gli altri, sempre trattati su un piano di assoluta parità, nelle forme, anche estreme, e nella sostanza.

Per me si è trattato di una condizione impagabile, rarissima dentro le scuole italiane di architettura, così gerarchizzate e fatte di circoli chiusi. Collaborare con Francesco significava essere continuamente buttato in acqua senza salvagente, stimolato a intraprendere percorsi eterodossi e a verificare le ipotesi più improbabili, persino a seguire persone, temi e pratiche verso le quali esprimeva indifferenza se non una palese contrarietà. Ma significava anche essere sostenuto concretamente, nella vita di tutti i giorni di un assistente squattrinato (non c'era verso di offrirgli qualcosa e nemmeno di pagare alla romana, fosse un tramezzino o un ristorante di lusso) così come nelle possibilità di pubblicazione e nell'accesso ai fondi di ricerca.

Voleva discutere, polemizzare, conoscere punti di vista nuovi: voleva essere costretto a cambiare idea. Ripeteva il verso di Walt Whitman sulla contraddizione e ne faceva pratica didattica. Amava gli studenti genialoidi, soprattutto quelli palesemente strani, capaci di infrangere le regole e di spostare il suo sguardo. Uno sguardo peraltro particolarmente ampio, esteso sulle più varie manifestazioni artistiche e sulle tendenze del costume e della società. Tutte venivano sistematicamente monitorate ritagliando articoli dalla stampa quotidiana e dai più diffusi settimanali che si accumulavano su ogni superficie disponibile del suo studio, il cui disordine creativo scoraggiava ogni possibile coabitazione.

Gli anni spesi in Africa e Sud America a seguire grandi lavori lo avevano portato a mettere in prospettiva le cose. Non sopportava l'eccesso di intellettualismo di molte ricerche recenti (all'uscita delle mie prime "parole chiave" mi disse che era molto preoccupato per me...) e nemmeno gli architetti "orafi", come chiamava quei progettisti impegnati a guardarsi l'ombelico in estenuate ricerche linguistiche. Pensava l'architettura come un atto sistemico e sintetico, legato alle necessità sociali e in grado di sorprendere la mente e gli occhi. Una pratica fondata su una comprensione profonda delle condizioni di realtà e sulla loro paradossale semplicità: quando mi lamentavo perché volevano dipingere di rosa il condominio nel quale abitavo mi disse che sarebbe stato peggio se lo avessero fatto sul condominio di fronte: "Quando sei in casa tua, mica la vedi...".
Ciao Francesco. Ci mancherai.

Giovanni Corbellini
[5 luglio 2009]

 

 

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