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Valerio Olgiati. Autore, autorità e avatar della modernità in un mondo di oggetti variabili

Mario Carpo



 
Il 17 febbraio 2009 l'Accademia di Architettura di Mendrisio inaugurava una mostra dedicata all'opera di Valerio Olgiati, curata da Laurent Stalder per la Scuola Politecnica Federale (ETH) di Zurigo. Questo è il testo rivisto della conferenza presentata la sera dell'inaugurazione. La conferenza rinvia al saggio dell'autore nella monografia edita in concomitanza con la mostra: Valerio Olgiati, a cura di Laurent Stalder, Colonia: Walther König, 2008; con saggi di Laurent Stalder, Bruno Reichlin e Mario Carpo. (1)



 
La sera del 10 maggio 1921 la prima di Sei Personaggi in Cerca d'Autore, al teatro Valle di Roma, non fu un successo. In quest'opera cautamente sperimentale Luigi Pirandello si interrogava, come si sa, sulla crisi moderna del principio classico della mimesi, che da Aristotele in poi è stato alla base del teatro occidentale (e non solo). I sei personaggi, che l'autore ha lasciato non-finiti nel suo manoscritto, intervengono in prima persona sul palcoscenico, per presentarsi da soli in assenza dell'autore inadempiente, dell'autore che non c'è, e non si sa perché né dove sia andato a finire. In un rovesciamento del principio mimetico, il suggeritore del teatro è allora costretto a diventare stenografo; a registrare quel che i personaggi dicono, non a suggerire le battute di un testo già scritto. Ed alla fine, quando uno dei sei, il figlio, si spara in scena, nessuno capisce se il colpo di rivoltella sia realtà o finzione. Oggi l'opera è considerata un testo fondatore del modernismo del ventesimo secolo, ma la sera del 10 maggio 1921 il pubblico del teatro Valle tirò sul palcoscenico monete e oggetti vari, e al sipario cominciò a gridare "manicomio, manicomio".

[8 novembre 2009]
  La crisi dell'autore (e della sua autorità) è stata a lungo uno dei topoi della cultura modernista. Nelle arti visuali la stessa interrogazione si impose, all'inizio del ventesimo secolo, anche a causa di sviluppi tecnici estranei alla cultura ed alla teoria letteraria. La grande novità dell'epoca era la riproducibilità meccanica dell'opera d'arte, che modificava drasticamente il rapporto tradizionale fra originale e riproduzioni. Da secoli (con poche eccezioni marginali) l'opera d'arte era un'opera fatta a mano, un pezzo unico; e più o meno a partire dal Rinascimento questo manufatto irripetibile era sovente firmato dall'autore che cominciava a rivendicarne, come diremmo oggi, la proprietà intellettuale. Ma la nuova civiltà delle macchine andava contro questa tradizione secolare. Come spiegherà, fra gli altri, Walter Benjamin nel 1936, le nuove opere d'arte--le opere moderne-- devono essere concepite per essere riprodotte meccanicamente, come ogni articolo prodotto in una serie industriale. Questa nuova condizione di riproducibilità confonde la paternità autoriale e la nozione stessa di originale. Cosa sia un originale è evidente nel caso di opere fatte a mano. Ma qual è l'originale di una serie di stampe d'autore, tutte identiche tranne che nel numero di serie? È come chiedere quale sia l'originale di una automobile uscita da una catena di montaggio che ne ha prodotte in serie migliaia di copie identiche. Questo originale in realtà non c'è; e se non c'è l'originale, chi ne è l'autore? E l'autore di cosa, se l'originale non c'è più?

Dall'inizio del ventesimo secolo, il paradosso dell'autorialità nella concezione di opere destinate alla riproduzione meccanica è stato largamente indagato dagli artisti stessi, prima ancora che dai critici--l'arte moderna, come sappiamo, è per definizione autoriflessiva. Il grande burlone, Marcel Duchamp, ci ha lasciato la sua opinione in materia nei suoi Ready-Made, il cui nome indicava all'origine semplicemente un oggetto prodotto in serie industriale, che diventa tuttavia un'opera d'arte se firmato, anche se da un artista inesistente. E qualche anno più tardi, con meno profondità e più clamore, Andy Warhol ci ha lasciato i suoi Silkscreens, immagini pittoriche o semi-meccaniche di oggetti prodotti in serie--ma immagini a loro volta destinate idealmente alla riproduzione in serie. (2) Il tardo modernismo minimalista e indiziale di Sherrie Levine continua per certi versi la stessa riflessione, in modo più cerebrale e nostalgico, come si conviene a tutte le arti crepuscolari.

Ma recentemente il paradosso della riproducibilità d'autore, per così dire, da tempo assopito e quasi evacuato dalla teoria dell'arte, si è risvegliato, con toni e contenuti nuovi ed imprevisti. La morte dell'autore, dopo un secolo di astratte discussioni in materia, è ormai diventata quasi una realtà quotidiana. Ma con una differenza importante rispetto alla storia dell'arte nel ventesimo secolo: la morte dell'autore oggi non è più una teoria modernista; è una semplice pratica post-moderna. Ciò che era quasi uscito dalla porta è rientrato dalla finestra: la morte dell'autore è arrivata sul mercato non portata da nuove teorie, ma imposta da nuove tecnologie--dalle nuove tecnologie digitali, dal brave new world di Photoshop, iPods e iTunes, ed anche come vedremo dalle nuove tecnologie di CAD-CAM.

Non è questo il momento di entrare nei dettagli. In ogni caso sappiamo tutti, per esperienza quotidiana, che nel mondo della riproduzione elettronica non c'è più differenza fra copie ed originali, perché in embrione, in essenza, originali e copie non sono altro che una serie di numeri--la stessa serie di numeri, perfettamente identica. E nello stesso tempo, paradossalmente, la variabilità dei nuovi media elettronici (che infatti sono anche spesso detti variable media) spesso permette agli utenti di modificare il prodotto finale a volontà, ad ogni lettore di diventare un po' scrittore, e ad ogni consumatore di diventare un po' autore. E se ogni consumatore di un'opera d'arte può diventarne almeno in parte l'autore, è l'Autore tradizionale, quello con la A maiuscola, che ha tutto da perdere. Non è una metafora: i primi ad essersi resi conto di una rivoluzione digitale che sta distruggendo la nostra nozione di originale e di autore non sono stati né gli artisti né i critici, ma i giuristi, e gli avvocati, che da anni ormai cercano di trovare una nuova definizione del Diritto d'Autore compatibile con le nuove tecnologie digitali. Le vecchie definizioni di originale, copyright e di autore, nel mondo digitale sono inapplicabili--non funzionano più.

Anche gli artisti figurativi cominciano a rendersene conto--e non solo i musicisti, che sono in prima linea perché le loro royalty stanno scomparendo. Un caso fra tutti: il creatore di moda Martin Margiela, una celebrità ormai globale e nello stesso tempo un fenomeno enigmatico che nessun critico culturale è ancora riuscito a spiegare, ha recentemente introdotto nella sua collezione varie serie di "Repliche", fra cui delle scarpe da ginnastica, che sono, come il nome suggerisce, repliche identiche di scarpe da ginnastica perfettamente anonime degli anni Settanta: il nome del primo fabbricante non è noto; solo la provenance geografica e cronologica del reperto è dichiarata (ad es., Austria, 1975). Questa è ad es. una serie riedita, per così dire, dalla Maison Martin Margiela (fig. 1).


1.

A differenza di un Ready-Made di Duchamp, l'oggetto trovato, nobilitato e firmato dal nuovo autore non diventa un objet d'art, un pezzo unico, ma è destinato alla riproduzione in serie; nello stesso tempo, a differenza di un Silkscreen di Warhol, l'oggetto d'arte destinato alla riproduzione in serie non è la rappresentazione di un bene di consumo, ma il bene di consumo stesso: Margiela non vende l'immagine di una vecchia scarpa, ma una vecchia scarpa prodotta di nuovo. L'unica differenza fra l'originale e la riproduzione è l'autore: la vecchia scarpa non ne aveva; la nuova scarpa ne ha uno. Ma visto che questa vecchia scarpa non aveva nessun autore dichiarato durante la sua prima vita, non si vede perché debba essere ricevere un nuovo statuto d'autorialità dopo la sua resurrezione. La storia stessa prova, senza ombra di dubbio, che la vecchia scarpa ha potuto vivere a lungo senza autore alcuno. Manifestamente, questa non era una scarpa in cerca d'autore.

Manicomio? Sarà. Margiela può, come del resto già Duchamp, burlarsi di noi, ma non è mattana additare con pertinenza, e forse con ironia, uno dei paradossi più manifesti dello statuto dell'autore e della copia nel contesto socio-tecnologico contemporaneo. Altri aspetti dell'opera di Margiela, su cui non posso soffermarmi ora, vanno nella stessa direzione. Ed il motivo di questa lunga introduzione è che, come ho suggerito nella monografia su Valerio Olgiati che accompagna questa mostra, le anomalie singolari che caratterizzano l'opera di Margiela e--fatte le debite differenze dovute alla differenza dei mezzi espressivi--le anomalie singolari che distinguono l'opera del creatore architetto che celebriamo questa sera hanno più di un punto in comune.

È un segno caratteristico ormai riconosciuto dell'opera di Olgiati che, appena ci si avvicina ad uno dei suoi edifici, ci si rende conto che c'è qualcosa che non va. Questa impressione si può avere da lontano, da vicino, entrando nell'edificio, toccandolo, o a volte anche solo guardandolo in immagine, in un computer rendering. Le anomalie possono essere più o meno cospicue; la maggior parte sono sottili, allusive, indiziali. Appena scoperte, il gioco comincia: perché quando ci si rende conto che le cose non sono come sembrano a prima vista, l'osservatore comincia ad essere curioso, ad investigare, ad interrogare (e, alla fine, ad interrogarsi).


2. ©Archive Olgiati.

Queste anomalie possono dividersi in varie classi, per così dire. Le prima categoria è quella delle irregolarità percettive: le distorsioni della griglia prospettica e la trasgressione sottile di altre convenzioni visuali cui siamo abituati da quasi sei secoli di storia della prospettiva. Quasi tutte le opere di Olgiati includono insidie prospettiche, o piuttosto anti-prospettiche: trucchi che non inganno l'occhio, ma al contrario, aiutano l'occhio a correggere o a svelare l'inganno prospettico. L'esempio canonico di questa categoria di insidie percettive è nella scuola di Paspels, dove all'interno, piccole deviazioni dall'angolo retto distorgono senza elidere la griglia prospettica, e all'esterno le dimensioni e le posizioni insolite delle aperture sulle facciate impediscono di leggere in immagine le dimensioni dell'edificio (fig. 2; ma vedi anche i progetti per Sils, fig. 3, e l'edificio per il museo del Parco Nazionale Svizzero recentemente completato a Zernez, fig. 4).


3. ©Meyer Dudesek.


4. ©Miguel Verme.

Ci si ricorda qui che la prospettiva rinascimentale è per definizione ciò che si può vedere ma non toccare (il dominio dell'occhio, come è stato detto)--infatti, chi ha mai toccato un punto di fuga all'infinito? Ma quando ciò che si tocca non coincide con quel che si è visto (o, come si dice oggi, "what you see is not what you get") la macchina prospettica comincia a perdere colpi, e la fisicità dell'esperienza corporea riprende il sopravvento sull'astrazione decorporeizzata dell'esperienza prospettica (che presuppone occhi senza corpo--nella versione originale, albertiana, un solo occhio senza corpo).

Visto che la prospettiva è una macchina moderna, e il cuore della filosofia heideggeriana è una perorazione contro ogni macchina moderna, varie architetture anti-prospettiche del ventesimo secolo, e contemporanee, sono recentemente state interpretate in termini fenomenologici. Ma, come spiego nella monografia, non credo che questa pista sia buona per avvicinarsi all'opera di Olgiati--e non solo perché Valerio stesso mi ha detto di non essere un lettore di Heidegger.


5. ©Archive Olgiati.

Per cominciare, altre categorie di anomalie nell'opera di Olgiati non hanno alcun rapporto con ciò che gli architetti hanno preso l'abitudine di chiamare la fenomenologia dell'esperienza spaziale. Forse la più celebre delle "licenze" di Olgiati, la trasmutazione dei materiali attraverso la pittura o il colore, come nel caso della Gelbe Haus (fig. 5), rinvia ad un tutt'altro capitolo nella storia delle teorie architettoniche, e in particolare a temi tettonici e costruttivi. Lo stesso per il colore ingannatore dell'Atelier Bardill a Scharans, e per il gioco dematerializzante delle rosette in rilievo sul cemento, ma in intaglio sulle casseforme di getto che ne hanno determinato l'impronta--ancora una variante sul tema dell'originale, della riproduzione, dell'impronta, matrice ed indice (fig. 6). Altro si potrebbe dire sull'impiego compositivo di alcune figure geometriche elementari, ed ancora sull'irregolarità apparente degli edifici alti progettati da Olgiati, molti dei quali visibilmente pendono o sono in qualche altro modo storti o ruotati o fuori piombo (figg. 7, 8, 9).


7. ©Meyer Dudesek.


8. ©Archive Olgiati.


9. ©Archive Olgiati.


6. ©Archive Olgiati.

Dalla Torre di Pisa in poi, un edificio che pende non è considerato un buon esempio di ingegneria; ma qui, per l'appunto, ciò che sembra una licenza dell'autore è in realtà un'operazione perfettamente razionale, in termini tecnici ed ingegneristici. Le nuove tecnologie digitali permettono di calcolare e di costruire facilmente, e a costi ragionevoli, strutture fatte su misura (custom made) che solo trent'anni fa avrebbero comportato calcoli infiniti, metodi di costruzione artigianali e costi insormontabili. Data questa nuova condizione tecnica ed economica, la soluzione strutturale più efficiente per resistere a sollecitazioni irregolari può spesso essere una forma irregolare: un albero resiste al vento più economicamente, in termini strutturali, del Seagram Building. Questo lo si sapeva già--anche ai tempi di Mies van der Rohe. Ora sappiamo anche che queste strutture non-standard, grazie alle nuove tecnologie digitali, possono essere sia calcolate che costruite.

Tutto questo sembra indicare, come suggerisco nel saggio, che l'opera di Olgiati inviti ad una riflessione sul nuovo statuto dell'oggetto tecnico nel contesto tecno-sociale contemporaneo, e in particolare sullo statuto dell'autonomia e dell'autorialità del progetto di architettura--cioè (senza esagerare) sulle fondazioni stesse del nostro mestiere, come esiste da almeno cinque secoli. Molte delle licenze, o anomalie di Olgiati, anche se non tutte, rinviano in filigrana alla presenza discreta ma inevitabile delle nuove tecnologie digitali. Come Bruno Reichlin ha suggerito nel suo saggio nella stessa monografia, le lievi deformazioni della griglia ortogonale nella scuola di Paspels richiamano le tecniche di "click and drag" dei programmi di CAD che erano in uso nella seconda metà degli anni Novanta. Poco importa che questi programmi siano stati usati o no: queste tecnologie erano nell'aria, per così dire; erano nello spirito del tempo, cui ancora rinviano. Lo stesso vale per vari altri casi che ho appena richiamato, o che discuto nella monografia.

Come suggerivo all'inizio, le nuove tecnologie digitali stanno rivoluzionando il rapporto fra originale e riproduzione dell'opera d'arte, e per conseguenza la definizione stessa del creatore o autore di un'opera d'arte. Questo vale per l'architettura come per tutte le altre arti, ma con qualche significativa differenza. La definizione dell'architetto in quanto autore è un'acquisizione teorica relativamente recente: risale alla cultura dell'Umanesimo, ed in particolare a Leon Battista Alberti, che è stato il primo ad affermare che l'architetto non debba fare delle cose, ma solo progettarle. Il principio albertiano inaugura la nozione moderna dell'architettura come arte allografica, secondo la definizione recente di Nelson Goodman: (3) l'architetto non fa un edificio con le sue mani, ma ne disegna il progetto, che sarà materialmente realizzato da altri. Allo stesso modo, un compositore non suona una sinfonia, ma la scrive (in un certo senso, la progetta); la sinfonia sarà poi eseguita da altri. È questa definizione fondamentale che all'inizio dell'età moderna ha distinto l'architetto dall'artigiano: l'artigiano pensa e fa; l'architetto pensa e disegna ciò che sarà fatto da altri: nel nostro caso, non da un'orchestra, ma da un cantiere.

Naturalmente, fin dall'inizio, fin da Alberti, questa condizione di allografia (che Goodman chiamerà anche notazionalità) richiede che l'esecuzione segua il progetto alla lettera, per così dire--senza alcun cambiamento. Il metodo albertiano impone la traduzione identica dal disegno all'oggetto: nel sistema albertiano, ogni cambiamento non autorizzato (dall'autore) è un errore, e l'autore, se è ancora vivo, ha il diritto di protestare. Nel sistema albertiano e moderno il progetto è l'originale; l'edificio è idealmente la sua copia; e la copia deve essere idealmente identica all'originale.

Date queste premesse, non sorprenderà che nel ventesimo secolo la teoria dell'architettura si sia adattata alla riproduzione in serie più facilmente che le altre arti: il progetto di architettura era per così dire da sempre destinato alla riproduzione identica; l'unica cosa che è cambiata con la meccanizzazione industriale è che al posto di essere replicato identicamente una sola volta, in un solo edificio, come al tempo di Alberti, il progetto moderno può essere replicato identicamente più volte, come una sedia d'autore, o una macchina da scrivere. Il numero delle copie può cambiare, ma la definizione dell'autore è sempre la stessa: cioè, quella inventata da Leon Battista Alberti verso il 1450. Tutte le sedie della serie Tulip sono considerate sedie di Saarinen se sono identiche all'originale--cioè, al progetto originale di Saarinen.

Ma per l'appunto, con le tecnologie digitali queste condizioni plurisecolari di riproducibilità e di autorialità oggi stanno cambiando. Con sistemi CAD-CAM integrati, il progettista può ormai fabbricare materialmente, ed immediatamente, in tre dimensioni, l'oggetto che sta disegnando sullo schermo, grazie a varie tecnologie di stampa tridimensionale; un progettista può modificare e manipolare fisicamente l'oggetto stampato, poi rinumerizzarlo, ridisegnarlo allo schermo, ristamparlo etc. Questa continuità fra disegno e produzione elimina la separazione albertiana fra progetto e cantiere, e nello stesso tempo ricrea un modo di fare quasi artigianale, visto che la stessa persona che concepisce l'oggetto può realizzarlo immediatamente con le sue stesse mani (in questo caso, mani aumentate prosteticamente dalle tecnologie digitali).

Per il momento i computer possono fabbricare immediatamente in tre dimensioni solo oggetti molto piccoli; certo non case intere. Ma la differenza è solo quantitativa, e già non mancano esperimenti anche ad altre scale (anche se per il momento un po' bislacchi). Ma, in fondo, è solo questione di dimensioni; la tecnologia c'è già e teoricamente un giorno potrà funzionare allo stesso modo ad ogni scala.


10. ©Archive Olgiati.


11. ©Archive Olgiati.

La casa di Wollerau (figg. 10, 11, 12) è idealmente ed effettivamente un monolito: come Bruno Reichlin sottolinea nella monografia, tutti i dettagli della realizzazione--soprattutto le curvature, le risoluzioni degli angoli e delle giunzioni e in generale, la continuità straordinaria del materiale--sottolineano quasi enfaticamente la natura monolitica dell'idea, materializzata in un monumento alla precisione assoluta, quasi inconcepibile della sua propria realizzazione. Se la casa di Wollerau fosse alla scala di un gioiello, la stessa forma potrebbe già essere fabbricata da un solo tornio a controllo numerico, scavata ed incisa in un solo blocco ed ottenuta per asportazione di materia--"per forza di levare", come avrebbe detto Michelangelo, e come le macchine utensili a controllo numerico oggi già sanno fare, senza alcun rapporto con Michelangelo, che le macchine non conoscono. In questo caso, l'oggetto non sarebbe altro che l'epifania automatica di un'idea progettuale, e questa manifestazione automatica non sarebbe per niente miracolosa: sarebbe semplicemente un'applicazione di tecnologie esistenti e già perfettamente funzionali. In questo quadro, la macchina sostituisce il cantiere, ed il cantiere idealmente scompare: perché la stessa macchina che rappresenta l'oggetto in due dimensioni può anche produrlo materialmente, cioè realizzarlo in effetti, in ogni momento, ed in tre dimensioni.

Questa situazione, tuttavia, nasconde più di un paradosso. Il principio allografico di una precisione assoluta nella corrispondenza fra progetto e realizzazione, per secoli un obiettivo astratto, ideale ed irrealizzabile, è oggi perfettamente possibile, anzi--inevitabile: il computer può realizzare solo un oggetto perfettamente identico al progetto numerico (allo stato del progetto numerico in un dato momento), visto che il computer da solo non può né inventare, né improvvisare, né adattarsi all'imprevisto, né interpolare. Ma nello stesso tempo, proprio perché ormai il progetto coincide con l'oggetto, l'idea allografica non esiste più, perché l'autore ridiventa un homo faber, un artigiano che fa le cose e nello stesso tempo un intellettuale che le concepisce. Il paradigma albertiano dell'autore moderno, l'autore del progetto, separato dalla realizzazione dell'oggetto, non funziona più.

E non è questo il solo aspetto del modello albertiano, e moderno, a non funzionare più. Le nuove tecnologie, variabili e partecipative per natura, invitano ed incoraggiano feed-back, revisioni, editing, versioning, cambiamenti ed interventi ad libitum atque ad infinitum; e come si sa, questi interventi possono provenire da attori (o agenti) esterni al processo progettuale, invitati o anche intrusi. La variabilità permanente di ogni oggetto digitale è anche, sempre più, una variabilità partecipativa, dove l'autorità di ogni singolo autore è sempre più difficile da determinare e da proteggere. Wikipedia è un caso eloquente. Il caso dell'architettura è naturalmente un po' diverso, perché l'architettura costruita è un oggetto materiale, non pura informazione. Ma nel sistema albertiano il progetto è, o almeno era, pura informazione. Ed in ogni caso, anche per l'architettura, è evidente che l'autore moderno (l'autore albertiano, per così dire) è già messo in causa. Ed è messo in causa due volte. In primo luogo, l'autore si ritrova in parte artigiano, come dicevo--cioè proprio quel che Alberti diceva l'architetto non deve essere. In secondo luogo, questo nuovo artigianato digitale è sempre più un artigianato collettivo, partecipativo, interattivo; e gli oggetti che ne risultano, sempre più generici, variabili, imprevedibili, e a volte non autorizzati, non "autorificati", o perfino anonimi. Quando infinti autori diversi possono intervenire sullo stesso progetto, com'è teoricamente reso possibile dalle nuove tecnologie di Building Information Modeling (BIM), alla fine non è facile, e forse perfino inutile, cercare di stabilire chi ha fatto cosa.

Cosa rimane dell'autore tradizionale (cioè moderno) in questo quadro? Probabilmente non molto. Da una quindicina d'anni le nuove tecnologie digitali hanno prodotto soprattutto un'alluvione di forme architettoniche irregolari, o non geometriche, o tonde e globuliformi, che molti hanno considerato arbitrarie. Usando le stesse tecnologie, Valerio Olgiati ha prodotto alcuni gioielli di precisione assoluta: precisione sia geometrica che tettonica che costruttiva. Ciascuno di questi gioielli ci segnala, in modi diversi, e non sorprendentemente con gran precisione, che nella macchina qualcosa non va--come una luce intermittente nel quadro di controllo di un'automobile, un segnale che ci dice che la macchina non è ancora guasta, ma sta guastandosi, e bisogna fare qualcosa prima che sia troppo tardi. Olgiati usa le nuove tecnologie per celebrare l'autonomia, l'autorità, e l'autorialità di una nuova generazione di oggetti tecnici. Nello stesso tempo, le stesse tecnologie stanno già creando una ridefinizione drastica delle stesse nozioni di autonomia, autorità, ed autorialità.


12. ©Archive Olgiati.

Evidentemente, la macchina si sta guastando, ed è a giusto titolo che le architetture di Valerio Olgiati tirano il segnale d'allarme. Questo è per l'appunto sovente il compito degli artisti, e dei creatori--tirare il segnale d'allarme, e se possibile suscitare il nostro interesse, le nostre interrogazioni e la nostra attenzione che sarà tanto più intensa quanto più l'oggetto ci interpella e ci attrae. Capire quel che il segnale d'allarme vuol dire, invece, è compito nostro; e se non lo capiamo, peggio per noi.

Mario Carpo
NOTE:

1. Pubblicato per gentile concessione dell'Accademia di Architettura di Mendrisio. Copyright per il testo rivisto: Accademia di Architettura Mendrisio, e Autore. Copyrights per le immagini: figg. 2, 5, 6, 8, 9, 10, 11, 12: Archive Olgiati; figg. 3, 7: Meyer Dudesek Architekten; fig. 4: Javier Miguel Verme.
2. In realtà le tele che componevano i primi Silkscreens di Warhol (ad es. l'originale delle 32 Campbell's Soup Cans, 1962, ora al MoMA) non erano ottenute da impronte interamente meccaniche, né destinate alla riproduzione; ma evidentemente l'opera suggerisce sia la produzione che la riproduzione meccanica dell'immagine.
3. Nelson Goodman, Languages of Art: An Approach to a Theory of Symbols, (Indianapolis: Bobbs-Merrill, 1968), 122, 218-221.

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