home > files

Files

Disegnare un albero?

Ugo Rosa



"Soltanto quando le condizioni sono mature, col cuore e con la mano in solidale sintonia, allora, e solo allora, l'ordito verticale del dipinto e la trama orizzontale si fondono secondo la norma corretta, l'andamento destrorso e quello sinistrorso si chiarificano fino alla fonte originaria"
Guo Xi, Linquan Gaozhi



 
01. Perturbazione

Trasporta insieme, il vento,
la nube e l'aquilone.
È per disattenzione
o per divertimento?



Disegno e scrittura, qui, convivono ma non manifestano comunità di intenti.
Da una differenza, piuttosto, si muovono, da essa derivano.
Nessuna delle due cose commenta l'altra, nessuna possiede l'altra come argomento.
Qui il disegno ama accennare al suo farsi e lascia trasparire un'origine.
Accetta, in effetti, l'aura che può conferirgli la parola ma non si fa, per questo, illustrativo né si conforma all'uso letterario.
Respira e lascia che respiri la parola.
Procedono insieme, parole e disegni, ma il loro cammino, come si vedrà, non coincide affatto. Posso supporne il destino ma non vaticino loro altro che quel minimo vagare, nessuna grande meta e luminosa.

Se la parola che qui viene letta, infatti, apparirà al teorico d'architettura vaga e imprecisa, lontana da quello che egli definirebbe nel suo potente linguaggio "lo specifico disciplinare", il disegno, d'altra parte, costituirà un'offesa alla sensibilità e al virtuosismo del disegnatore d'architettura esperto. Bambinesca accozzaglia di linee e di colori.
A questo si aggiungano le dilettantesche didascalie di cui fanno mostra i disegni qui tracciati: l'uomo di lettere (e sovente l'architetto è tale) avrà da inorridirne.
Che dire allora?
La caratteristica inconsistenza di questi disegni ne fa delle parvenze e il loro poco esistere fa sì che essi difficilmente possano essere presi sul serio.
Solo perché so bene quanto manchino, del resto, mi sono permesso l'impudicizia di nominarli (decisione altrimenti insopportabile).
Tracce che tendono a non esserlo, ecco.

E nel flettersi verso la parola, senza essere stati fatti per questo, senza stile né vocazione, si lasciano appena intravedere restando poco più che nulla, o nulla del tutto.
Molto giustamente dunque l'architetto esperto nel ramo ne sorriderà.
Succede tuttavia, se volete, che queste scie luminescenti, visibili sì e no, intersechino tenuemente, come dicevo, la scrittura.
Comprendo benissimo il disprezzo del culturista della materia: ombreggiatori, pastellatori, virtuosi che disegnano a due mani ed a quattro ganasce se ne ritrarranno con sdegno.
Ma, vedete, non sono qui per questo, non sono qui per loro.
Ammetto che con le sacre tibie di questi acquarellisti giocherei volentieri a birilli, ma non mi sogno neppure di far loro concorrenza.



02. La mossa del cavallo

Che vedi in questa carta?
Che figura ti appare?
Isole in mezzo al mare...
o un cavallo che scarta?



L'architetto si insedia nel disegno. Lo recinta, disbosca, urbanizza.
Ciò che rimane lo elegge a dimora e lo definisce disegno di architettura.
Questo luogo, in cui l'architetto si sforza di restare pertinente a se stesso e al tema dell'architettura è invece il luogo proprio della sua impertinenza, ne è dimora inverosimile.
È il disegno infatti la sede in cui si effettuano le dimissioni dalla legge di gravità.

L'architettura, viceversa, ne è l'incontrastato dominio.
Nel disegno l'architetto mima la sua architettura come verosimile e tuttavia è proprio attraverso il disegno che, nel contempo, traccia la figura di quella inverosimiglianza fondamentale che ne fa una costruzione non (o non ancora, o non più) costruita.
L'architettura non vi coincide più con se stessa.
L'architetto, malato di tetano allo stadio terminale, si irrigidisce in se stesso e implode in convulsioni paurose; il disegno gli offre, come un dono, la sua fine.
A patto che non si ostini a praticarlo in forma di accanimento terapeutico: per conservarsi.
Egli non potrà, dunque, insediarsi come identico nello spazio del disegno né usare il disegno per appropriarsi dell'essere del mondo e recintarlo.
Quest'essere che, viceversa, lo attraversa continuamente e ne esce fuori libero e intatto.
Ma la mossa del cavallo contorna isole imperfette.
Se è vero che il mondo vi trascorre non preso è certo, però, che il suo aroma rimane e profuma quell'universo.
Rimanendovi, tuttavia, inafferrabile.



03. Il carro degli svitati

Ecco che s'incammina
dietro il sole nascente
quello che abitualmente
con il giorno rovina.



Nello spazio disegnativo ha luogo dunque la disparizione dell'architettura come verosimile.
Ciò che traspare in sua vece è l'inedificante.
L'architettura in sostanza non vi coincide più con se stessa perché cessa di essere quello che il suo stesso nome vuole che sia: edificata, per un verso, edificante per l'altro.
Né l'architetto l'edifica, né ne viene edificato.
Perciò l'universo disegnativo si apre all'architetto solo a patto che questi rinunzi in qualche modo a se stesso e al suo nome, che lo vuole appunto edificante.
Considero allora il disegno come luogo della detronizzazione dell'ego architectonicus e della caduta (libera) dell'architetto.
Egli vi può divenire straniero a se stesso e trovarvi la grazia levitante che gli manca, la luce della sua redenzione.
È lì che l'architetto si dismette.

Ma attenzione.
Punto dell'inconoscenza, il disegno è gioco che non si attesta con fermezza neppure su se stesso, non s'incastra neanche al suo stesso corpo.
Vive nella grazia dello snodo.
Spazio eventuale par excellence esso ospita e dà luogo a ciò che nel mondo, abitualmente, rovina.
Farne lo specchio dell'eletto all'esistenza, di ciò che si attesta all'esistere e non lo molla, significa perciò intristirlo in malinconica stasi, non mondo "altro" bensì mero submondo, schiuma e scimmia del reale priva in sé di realtà e di anima.



04. La deriva scientifica

Che bella mappa è il vento
nuvole come ruote
le nostre teste vuote
senza un solo argomento.



Ciò che rimane [(ne)+(è)] deriva.
Farsi cartografi d'ogni brezza. Il disegnatore eventuale non possiede argomenti. Intuisce manualmente che l'argomento è letale e fa fuori il possibile.
Quando l'architetto (eventualmente) disegna, dovrà nel medesimo tempo disimparare il disegno "d'architettura". Disegnando (eventualmente) si tracceranno disegni (eventuali).
Essendo il disegno luogo della rappresentazione pura, è anche il suo non luogo, il limbo del suo annullamento.
Nulla vi rappresenta null'altro e neanche vi si rappresenta.

Il disegno non serve all'architettura, il disegno non serve a nulla.
Chi trepida e tripudia per il disegno come "strumento" (o magari "forma") della conoscenza comincia col banale fraintendimento di Albrecht Dürer o di Leonardo da Vinci e finisce infilzato tra le pagine dei trattati di entomologia.
Allo stesso modo, del resto, la pratica del pensiero come "conoscenza di sé" s'abbatte come un bue scannato sul divanetto dell'alienista e quella che predica esperienze di vita e "conoscenza del mondo" va a spurgare nel gabinetto da camper del safarista e nello zainetto da parapendio del cultore dell'estremo.

Qui non c'è da far conoscenza: te stesso, ed ogni altro "argomento", va fatto fuori in fretta, come un cane idrofobo e rognoso senza neppure dirgli buon giorno.
Perché qui, appunto, non abbiamo nient'altro da conoscere che questo pensiero/disegno che nasce e la sua realtà mutevole come le nuvole del cielo.
Evento in nessun caso conosciuto e in nessun caso da fissare una volta per tutte in conoscenza perché conoscere implica un rapporto con "qualcosa", che configurandosi già ti prescinde per sempre e rispetto al quale tu ti poni nell'attitudine sconfortante del teoros, dello spettatore. L'atteggiamento del teoros è, lo sappiamo, fatalmente predatorio.
Il disegnatore che prende conoscenza della realtà conosce qualcosa che gli è ontologicamente, e anche meravigliosamente, estraneo.
Io penso invece che egli dovrebbe solo esperire il segno, cioè appunto disegnare.
Disegnando né prendo conoscenza di alcunché né "do forma" a conoscenza alcuna (e a che darei forma, di che, poi, prenderei conoscenza? del "reale"? del "vero"? e che farei, infine, di tutto l'incommensurabile "resto"?).



05. La danza inverosimile

Quando c'è vento in cielo
resta ferma la luna
ma danzano con zelo
mille nuvole ed una



Si disegna così come si danza.
Chi danza disegna nello spazio ed i suoi gesti non lasciano traccia laddove chi disegna danza su una superficie bidimensionale (certo, vedrete, non per molto ancora...) ed i suoi tratti lasciano traccia. Possono forse esservi altre differenze, ma nessuna di esse ha a che fare con una barbarica ed urtante "conoscenza" né "del vero" né "dal vero".
Il disegno, adiacente alla mano a tal punto da potersi dire che mai, questa, smette di disegnare, è perciò un movimento, una danza ed è insieme ciò che quella danza rende visibile.
Ma a questo processo solo quel che è chiamato a vedersi impone una conclusione e un inizio, i quali vengono infatti convenzionalmente stabiliti dall'affacciarsi e dall'estinguersi di ciò che noi, sovente a posteriori, definiamo "soggetto".
Dalla sua "visibilità". Ma qui si afferma che non è questo quel che davvero lo fa splendere, che la sua luce è altrove.
Essa è nel movimento producente la traccia.
Ossessionati dal disegno come strumento di descrizione del già dato, del progetto o di una "idea", gli architetti lo utilizzano sempre in funzione ancillare.

Esso viene travestito in vario modo, ma è il più delle volte piegato, finalizzato a qualcosa che, in fin dei conti, gli è profondamente estraneo.
Esistono, è vero, anche altri disegni d'architettura che s'incamminano apparentemente per strade autonome, allontanandosi dal progetto vero e proprio e dalla sua pura e semplice descrizione.
Ma anch'essi, a ben vedere, rimangono confinati in una status vicario che li lega direttamente al "tema" e allo "argomento" dell'architettura in generale. Il disegno sembra, presso gli architetti, perennemente ridotto a "segno" grafico, ad elemento significante che rimanda in ogni caso ad un significato esterno e dato: architettonico, appunto.



06. Dal lago oscuro

Che cosa ci separa?
cosa invece ci unisce?
È il lago, che finisce
dove il sole rischiara.



Nel disegno le cose non coincidono più con la loro realtà fatta di materiali, di carne e di sangue, lì è il luogo del fantasma e del vago, come potrebbe l'architetto coincidervi con se stesso, quando l'architettura stessa vi si dismette e diventa qualcos'altro?
L'architetto che disegna pretendendo di restar tale, che esige dal suo disegno che ad ogni modo "serva", impone alla eventualità di un processo la rigidezza di un recinto dentro il quale si finisce per far gregge.
Costui finirà per scervellarsi su come disegnare qualcosa, mentre il non coincidente non la disegnerà che per purissima eventualità.
Questa la differenza, incoercibile e dannata.
Perché allora ostinarsi a parlare, banalmente, del disegno come "strumento di conoscenza"?
C'è chi lo fa, infatti.
Ma facendolo presuppone al disegno la conoscenza e lo tratta da segugio e da servo.

Eppure è lì che finalmente dimenticare e conoscere si equivalgono e non valgono affatto ciascuna per sé! È lì che finalmente ci perdiamo, e deriviamo, e naufraghiamo! Lì che l'architetto si dimentica e può farlo!
Viceversa egli pretende, in quel sonno, di sognare di se stesso e in ogni caso non vuol perdersi o, se si perde, è sempre con l'intenzione di ritrovarsi.
Invece dovrà restare sempre e solo "possibile" che egli, morendo, sopravviva. Non risaputo.



07. Morale forestale

La foresta si attiene
a un esiguo vantaggio
se ci fai giardinaggio
non ne viene alcun bene.



Nel disegno insomma occorre perdersi senza residui né scopo.
Solo possibile deve restare la tua esistenza, architetto!
Virtuale (l'architettura)!
Il disegno diventa allora occasione d'oblio.

(Qui si può constatare che l'autore del disegno non mette in atto alcuna tecnica di riproduzione, è anche probabile che non ne sappia nulla e che, infine, neanche sia un "autore". Se lo fosse dovrebbe infatti, per prima cosa, averli fatti belli. Belli e fatti. E questi non lo sono. Non sono belli, naturalmente, ma soprattutto non sono neanche "fatti", il fatto ha perso una virtualità che qui, viceversa, risalta. Nella imprecisione, nella bruttezza, nella insicurezza del tratto questi "disegni", perdonatemi se continuo a definirli tali, sono solo disegni virtuali: sarebbero, eventualmente, disegni qualora... Perciò li accompagnano modeste didascalie che però, a loro volta, non descrivono nulla. Non avendo nulla da descrivere. Cosa descrivere se non è successo niente, se non c'è il fatto?).

Il disegno dunque come foresta del possibile, luogo non recintabile, non addomesticabile.

Persino inconoscibile... se non a patto del suo snaturamento.
Percorribile, forse, ma solo a costo di farsi astuti come Pollicino, giocando il proprio nutrimento per trovarvi un sentiero.
L'architetto che pretende di urbanizzarlo, di insediarvisi e dimorarvi da identico a sé stesso, da architetto, è già finito, e ha finito il disegno.
Notate infatti come siano finiti i disegni degli architetti che disegnano d'architettura.
Va da sé allora che il disegno, luogo in cui l'architetto si sforza in genere di restare pertinente "al tema" dell'architettura, è invece il luogo proprio della sua impertinenza.
Il disegno resta, per essa, una dimora inverosimile perché è qui che "ha luogo" la débâcle dell'architettura come verosimile e l'apparire della inverosimiglianza tra l'architettura e la sua edificazione.
Come si diceva, l'architettura non vi coincide più con se stessa.



08. La zattera degli indecisi

Ritagliati dal vento
alle onde incollati
si resta inadeguati
ad ogni accertamento.



Il disegno, proprio per divenire tale, deve dunque abbandonare ciò che lo rende "strumento conoscitivo" della realtà (di qualcosa, cioè che gli rimarrebbe comunque estranea e che il disegnatore guarderebbe con l'occhio del connaisseur per "descrivere" poi).
Sarà disegno nell'abbandono della descrizione e nel cedere progressivamente alla sua propria traccia, al tratto che va tracciando e che continua a renderlo mobile e luminoso come una fiamma, visibile e proiettante visibilità tutt'intorno, ma senza per questo mai definirlo in modo ultimativo. Finché il disegno non viene posto in relazione col movimento che lo lascia nascere, ma solo con l'immobilità del "prodotto" bidimensionale che quel movimento visibilmente traccia, si sarà lontanissimi dalla sua essenza: si scorgeranno nel "dato" assonanze sorprendenti con il conosciuto e se ne concluderà tautologicamente che esso lo conosce e che dunque è "strumento" di conoscenza, ovvero "forma" della stessa.

Il luogo in cui vediamo svolgersi una danza, però, non sarà mai, per noi, lo stesso di prima. Quest'arte che non lascia tracce visibili misura lo spazio, sembra accarezzare i legamenti che lo innervano e queste nervature, dal momento che una danzatrice li ha accarezzati diventano più sensibili alla luce e, soprattutto, sonore.
Così, per quanto si continui non vederle, tuttavia le si sente, e lo spazio vibra di corde invisibili che risuonano come risuonò nel palazzo di Itaca l'arco di Ulisse quando, scoccata la freccia, il viaggiatore, di nuovo, elesse quel tetto a sua dimora.
Così nel disegno è una porzione insignificante di reale, la pagina bianca, che arriva a risplendere per via di un movimento la cui traccia, qui, resta visibile ma ugualmente risuona.



09. Separazioni

Mentre ci riposiamo
passano le formichine
e tracciano un confine...
delicato ricamo!



Ora, la pagina bianca accoglie il disegno come mai lo spazio potrebbe accogliere un'architettura. Nella pagina infatti nulla si dispone all'accoglienza, così come nulla vi si oppone.
La pagina è un limbo, un intermondo sottile, letteralmente impenetrabile e appena percorribile attraverso quelle nervature che le sono proprie.
Questo movimento disegnativo, questa danza consustanziale alla mano, non offre ad essa nulla di manipolabile e subito, appena abbandonate le sue tracce, diventa lontanissimo da questa, non più raggiungibile dal tatto, senso per il quale il disegno semplicemente non esiste.
Per la mano, che è cieca, la danza tracciante resta tale e non lascia tracce.
Perciò essa non conosce ripensamenti, non ha ansie.
Il luogo del disegno è un luogo felice e per il disegnatore la vita è facile, il disegno presto fatto. Pensate a come si attorcigliano le frasi, a come la lingua sia gonfia di parole che stentano a prodursi e a come invece il disegno fluisca, semplice e leggero.

Si disegna, invece, pensando ad altro.
E se la penna con cui disegnate è, come in questo caso, la stessa con cui scrivete potrete accorgervene da soli: quando disegna la penna è tranquilla, sembra fare quello che ha sempre fatto, non è forzata da nulla, non conosce binario né sentiero.
Ma nonostante e forse grazie a questa felicità, il disegno è un modesto artigianato, che non conosce l'arroganza della pittura e della scultura né la mitomania dell'architettura.
È veramente la pratica del minore, i suoi mezzi sono sparuti, i suoi intenti minimi, le sue speranze poche.
Se mettete da parte quella sicurezza di tratto di cui molti disegnatori menano giustissimo vanto, ciò che rimane è, come si può qui ben vedere, gioco da bambini.



10. Forme della conoscenza

Guarda verso le stelle
guarda verso il terreno
decidi in un baleno
e ridi a crepapelle



"Il disegno, come la scrittura, la lingua, è una forma della conoscenza e della comunicazione della conoscenza. Come la scrittura e la lingua, il disegno ha una propria storicità, una propria logica, una specificità che confligge ad ogni passo con la sua indispensabile e imprescindibile strumentalità".

Così scrive un mio caro amico, ottimo architetto, magnifico disegnatore.
Io lo ammiro molto, e questa è certamente una bellissima definizione.
Vi si evita, con ottimo stile, il volgare e mille volte tratteggiato ritratto (di cui abbiamo detto) del disegno come "strumento di conoscenza".
Non che la sua "strumentalità" venga messa in questione (viene affermata anzi come "indispensabile e imprescindibile"...) ma la si stempera, per così dire, in acque assai più terse. Il disegno diventa allora "forma" della conoscenza e, insieme, della sua "comunicazione" e, come la scrittura, si fa portatore di un conflitto permanente (che non guasta) tra la sua "specificità" e la sua "strumentalità". Difficile fare meglio.

Ma osserviamo ora, per un attimo, la "strumentalità" della scrittura.
Essa "serve", si dice.
A cosa? Ad esprimere ciò che pensiamo? Talvolta.
Ma può servire anche a tenere nascosto quel che veramente pensiamo, dicendo altro, cose che non pensiamo affatto.
E può servire, ancora, a dire cose che sappiamo benissimo non esaurire per nulla ciò che "veramente" intendevamo, e che tuttavia costituiscono l'unica maniera che riusciamo a trovare per farvi cenno.
In ognuno di questi casi, è certo, la scrittura "serve".
E in ognuno di questi casi essa, è certo, manifesta la sua strumentalità.
Ma in ognuno di questi casi noi ipotizziamo un pensiero e una scrittura come fatti totalmente distinti l'uno dall'altra.
La scrittura "serve" solo se c'è qualcosa o qualcuno da "servire", se no non serve a nulla.
Qui la scrittura serve il pensiero che in un modo o nell'altro si fa, invincibilmente, discorso.



11. La riserva indiana

Oggi siamo accampati
vicino ad un laghetto.
Domani l'architetto
ci avrà già sistemati.



Ma immaginiamo, ora, un pensare che si faccia in uno con lo scrivere, che non pratichi argomenti ma "fonda su se stesso come ghiaccio che si scioglie".
A che, e a chi, "serve" in tal caso la scrittura?
In cosa consisterebbe, allora, la sua "strumentalità"?
Certo è pur vero che se scriviamo un accozzaglia di lettere alfabetiche noi avremo, in ogni caso, scritto nulla e che, affinché si possa dire che abbiamo scritto dovremo aver scritto qualcosa. Questo qualcosa si identificherà, almeno in qualche suo punto, con una sorta di "realtà" attestata , che è l'uso consolidato e convenzionale della lingua.
Questo mi pare, nel caso della scrittura, inevitabile.

Ma siamo ancora nell'ambito della "strumentalità"? Non lo credo.
La scrittura infatti in questo caso, pur avvalendosi di elementi convenzionalmente assestati, non "serve" in realtà che se medesima e la sua "specificità" lungi dall'entrare in conflitto con la sua "strumentalità" vi si identifica e si fa scrittura di se stessa, scrittura "propria", l'unica forma di scrittura "propria", quella che non conosce argomenti "dati" ma solo possibilità di movimento e di crescita su se stessa.

Questa possibilità di movimento e di crescita, questo essere sempre eventuale e mai data non è, solo, ciò che conosciamo da sempre come scrittura "poetica" (se questo significa qualcosa) ma è la cifra di ogni forma di scrittura "propria" (eccettuata quella degli impiegati di concetto che, difatti, è sempre "impropria", sconfina nel campo dell'autoipnosi involontaria e del sonnambulismo e richiederebbe un saggio a parte. Lì effettivamente la strumentalità e la specificità della scrittura configgono fino alla deflagrazione). Allora la scrittura, propriamente, serve quando diventa impropria.
Quando è propria, cioè quando propriamente attiene a se stessa, non serve.



12. Scilla e Cariddi

Né porta né recinto
ma il confine è segnato
da un signore educato
e da un tipo distinto



Se a questo punto ci spostiamo verso il disegno ci accorgeremo di penetrare una dimensione ancora più radicale ed extravagante di quella scritturale, una dimensione nella quale lo stesso concetto di "strumentalità" si assottiglia subito fino a scomparire del tutto.
La scrittura infatti in nessun caso può deragliare completamente dal suo binario semantico, laddove il disegno viceversa non è vincolato a nulla di simile.
Qui non vi è infatti, fin dall'inizio, necessità di attestarsi su alcuna realtà "usuale" consolidata.

Non perché tale realtà consolidata non esista (il disegno ha certo "una sua storicità") ma perché non corre affatto sulle due rotaie del significante e del significato, non si fonda su uno scheletro rigido e difficilmente modificabile come quello linguistico.
L'universo delle cose (che il disegno "dal vero e del vero" descriverebbe) non possiede neppure lontanamente, per il suo movimento, la necessità fondante che invece amabilmente mantiene per il fascinoso risuonare delle parole ("luna", "lago", "delfino"). Il disegno non solo può dunque liberarsi da quel riferimento al "vero" che gli è servito da pretesto secolare ma può farlo con risultati assolutamente straordinari.
Cos'altro mostra il corso dell'esperienza disegnativa occidentale di questo secolo (e di buona parte del precedente) e quella, millenaria, delle civiltà orientali?



13. Rigore mentale

Sole, luna, pianeti...
noi facciamo quadrato.
Abbiamo concordato
di restarcene quieti.



Mettiamola ora brutalmente: il disegno si è divincolato tra le maglie di ferro della realtà "data" tentando disperatamente di liberarsene ed ecco, adesso che c'era riuscito, arrivano gli architetti e per non fargli prendere freddo lo ficcano di nuovo nell'armatura pesante.
Che scherzi sono questi?
Che vuol dire questo parlare di "disegno dal vero" e "del vero", stiamo forse sognando?
No, siamo svegli e più che mai efficienti, già carburati e pronti alla partenza. Il rombo indica che l'accelerazione è data dal motore scientifico del progetto.
È di questo, in realtà, che stiamo parlando, infatti.
Non del "disegno" come pratica autonoma (per il quale aggettivazioni come "dal vero" e "del vero" o "disegno di natura" non hanno alcun senso) ma proprio del disegno come strumento di conoscenza e di descrizione della "natura" e del mondo delle cose ed indirettamente come strumento del progetto di architettura.
È lì che il nostro binario ci conduce, e la "strumentalità" del disegno, pur trattata con diffidenza e imbarazzo, alla fine si piglia tutto.

Perciò scrivevo all'inizio che parlare del disegno della natura e del suo progetto delinea, attraverso la definizione di un margine, proprio il tema del "disegno di architettura".
È solo affrontando la natura come "dato" che il disegno si appronta alla strumentalità tendenzialmente "compiuta" del disegno di progetto, ed è il "disegno del vero e dal vero" infatti che è stato tradizionalmente considerato come Gradus ad Parnassum accademico del progettista. D'altro canto l'architetto parla di disegno "dal vero e del vero" solo perché, a seguire, parlerà immancabilmente di disegno del progetto e dell'architettura ed è solo per questo che per lui la strumentalità del disegno risulta effettivamente "imprescindibile ed irrinunciabile".

Per il disegno come pratica autonoma viceversa tale strumentalità non solo non è né imprescindibile né irrinunciabile ma, molto semplicemente, non esiste e non è mai esistita.
Una illusione ottica.
Mai il disegno ha avuto in sé stesso la "necessità" di riprodurre il reale. Quest'ultimo, semmai, è stato usato sempre, quando è stato usato, come occasione e pretesto di un movimento puramente autofondativo.
Dunque è del disegno in funzione ancillare che l'architetto parla e sembra essere questa l'unica forma di disegno da lui praticata e praticabile, a ciò si deve l'abbaglio per cui il disegno viene per lui a coincidere punto per punto con il disegno dal vero e del vero.



14. Il fulmine giocoso

Affonda la barchetta
durante il temporale
la battaglia navale
la vince la saetta.



Così infatti mi insegnava, quand'era piccolo, mio figlio.
Una volta che lo invitai a disegnare un oggetto che tenevo sulla scrivania mi rispose di no: "è troppo grosso" disse "nella pagina non c'è posto".
Lui stava ancora in contatto con una verità che a me oramai sfuggiva, proprio perché l'avevo trasformata in una banalità pura e semplice: il disegno non ha profondità, in esso risplende la pura superficie.
Perciò il vero nel disegno non ci sta. Non c'è posto.
È nell'essere grosso che s'annida la cosa, il disegno, essere sottile, non può darne ragione. Essere grosso è un universo, essere sottile un altro.

Ma se parli di due o tre dimensioni, secondo me, non afferri il problema, lo stilizzi soltanto, banalizzandolo, lo riduci a conoscenza e concludi che questo qui che scrive ha una testa da tolemaico imbecille e si esprime di conseguenza.
Ma non credo che le cose stiano così: non si tratta di riprodurre in due dimensioni qualcosa che ne ha tre (cose che pure un architetto può fare) bensì di mostrare lo splendore di qualcosa nello scrigno del suo universo. Che, per l'appunto, ha l'essere grosso oppure l'essere sottile.
Questi disegni, che ovviamente non dimostrano nulla, si lasciano osservare e perciò possono venire giudicati dal disegnatore d'architettura impudichi e sfrontati.
Eppure, se lo sono, lo sono non essendolo perché, semplicemente, non sarebbero disegni d'architettura...
E di che genere sarebbero allora?
Ma sono, poi, disegni?
Certo sono linee e macchie sulla carta, lo si vede, ma quanto al disegno... capisco benissimo. E tuttavia insisto. Mi permetto di farlo. Il disegno è un percorso attraverso situazioni che non potremmo praticare altrimenti.

L'esperto di disegni d'architettura non troverà valore in questi disegni e non ne riconoscerà alle didascalie.
Fraintenderà, inoltre, su questo punto perché vi intuirà un intento illustrativo. Non ce n'è alcuno. Le parole vengono abbandonate, piuttosto al disegno e viceversa: non c'è "valore" nelle une come non ce n'è nelle altre.
Così non troverete "verità" nel loro relazionarsi.
Io tutto questo non lo nego.
Ma a questa ammissione faccio seguire una domanda: "E con ciò?"
Forse che parole come Valore e Verità (che magari possono esaurire un argomento) saranno mai in grado di liquidare una danza?



15. Crepa, il mondo

Ecco, si spacca il mondo!
Ecco la fenditura!
Io me ne prendo cura
e intanto ci sprofondo.



Nel disegno noi non conosciamo la data realtà, non prendiamo atto del (dato di) fatto. Osserviamo piuttosto il mondo che crepa e, attraverso la sua fenditura, intravediamo.
Cosa? Non lo sappiamo.
Per saperlo avremmo dovuto già averne preso visione in una qualche precedenza.
Intravediamo, invece, qualcosa che neppure ci è dato sapere se esiste. Il disegno gioca l'architetto, e non è l'architetto che gioca al disegno. L'architetto è tale che se gioca al disegno lo finisce. L'architetto deve liquidarsi sprofondando in quella crepa: crepare anch'egli in quella crepa. Fenditura sottile il disegno non è lo spiraglio attraverso cui "conoscere" l'universo: ne è l'enigma e il sorriso.



16. Natalità finale

È nato un vegetale!
Infine l'ho disegnato!
ne sei rassicurato?
È un albero natale.



Ugo Rosa
u.rosa@awn.it
[7 febbraio 2010]

 

 

Per qualsiasi comunicazione
 è possibile contattare la
redazione di ARCH'IT


laboratorio
informa
scaffale
servizi
in rete


archit.gif (990 byte)



iscriviti alla newsletter gratuita di ARCH'IT
(informativa sulla privacy)







© Copyright DADA architetti associati
Contents provided by Image