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Barbican, città sospesa

Pietro Valle



PERDERSI NELL'OMOGENEITÀ. Guardando distrattamente una mappa di Londra, il visitatore che cerca il Barbican Arts Center non sa che cosa deve attraversare per giungere a questa riconosciuta istituzione culturale cittadina. Giunto all'omonima stazione del metrò ed emerso alla luce del sole all'incrocio di Aldersgate e Goswell Street, si trova davanti un gigantesco muro e la bocca di un cavernoso tunnel che inghiotte un'intera strada. Sopra la parete oscura si innalzano grandi palazzi e torri moderne. Seguendo i cartelli che indicano il centro culturale, inizia un percorso labirintico di sottopassi, rampe e scale, una sorta di rito di iniziazione che deposita il visitatore sulla cima del muro che prima lo sovrastava. Egli si trova su una piastra elevata da cui può spaziare e guardare in basso verso vaste corti con giardini e giochi d'acqua.


Accesso al percorso elevato.

La piattaforma si estende sotto molteplici edifici e attraversa lo spazio che li separa con ponti senza mai toccare il terreno. Il suo bordo, come tutti gli elementi portanti, è di un ruvido cemento bocciardato, ha proporzioni colossali e termina con una sguscia tondeggiante quasi fosse un gigantesco vassoio che tiene sospesa la città. Gli edifici sovrastanti sono tutti segnati da solette a sbalzo, lamelle con lo stesso bordo arrotondato, mentre i pavimenti e i tamponamenti, uniti dalla sguscia, sono in cotto scuro. La città circostante è scomparsa e la misura della distanza che separa dal presunto centro espositivo è data dagli elementi omogenei del quartiere. Il senso di scala è, tuttavia, smarrito in quanto tutto si rivela fisicamente più grande di quello cui siamo abituati: le distanze, i dislivelli, i parapetti, i percorsi, i profili. Il visitatore si sente gradatamente privato di qualsiasi riferimento: anche i rari passanti sui percorsi aerei non hanno più scala umana, si sono ridotti a lillipuziani come tutto quello che abita questa pseudo-base spaziale o sogno babilonese-hollywoodiano.

[18 dicembre 2010]
 
Percorso pedonale pubblico elevato.

La visione di una città aerea finisce presto. L'indicatore del centro culturale riporta all'interno della struttura su vaste scale, rampe e passaggi che non hanno aperture sull'esterno. È un mondo di cui si perde presto la collocazione nell'insieme: siamo sottoterra o elevati? Moduli dello stesso cemento prefabbricato formano un soffitto cassettonato segnato da lampade radenti. Squarci laterali che espandono il tunnel in cui si avanza mostrano sale e ulteriori passaggi di un mondo ctonio e isolato. Il centro espositivo, nascosto nelle viscere della struttura, alfine apre le sue porte, è una sorta di dark-room a più livelli completamente cieca e illuminata anch'essa da fioche lampade puntiformi. Per sfruttare al meglio la natura decontestualizzata del luogo, gli allestitori impiegano materiali e colori scuri, luci d'accento che isolano singoli momenti espositivi sotto spot dal sapore teatrale. Solo fuoriusciti dalla mostra scopriamo di essere a un livello superiore rispetto a quello della strada aerea che abbiamo percorso: il ristorante che cinge lo spazio espositivo si affaccia, infatti, su una delle corti verdi e la guarda dall'alto. Sul retro del centro si apre un altro livello pedonale più elevato di quello che abbiamo lasciato prima di entrare all'interno. Una piazza semicircolare, nascosta dagli altri spazi pubblici del complesso, conduce verso i percorsi in uscita. Un altro labirinto di scale e rampe e siamo di nuovo all'esterno senza esserci resi conto di cosa abbiamo attraversato.


Bacino acqueo di fronte all'Arts Center.

Non è stata la varietà dei riferimenti spaziali che ci ha fatto smarrire in questa struttura ma il suo esatto contrario. La città artificiale che abbiamo attraversato è segnata da un'implacabile omogeneità fatta di distanze incommensurabili, di soglie invisibili che non lasciano filtrare gli spazi e, soprattutto, di una generale assenza di accenti che rende tutti gli elementi architettonici identici. Sarebbe troppo facile ricondurre questo quartiere, Il Barbican Estate, a luoghi postmoderni riferibili alla frammentazione dell'esperienza e allo smarrimento di identità. Basterebbe ricordare Walter Benjamin e la sua massima sull'arte di sapersi perdere nelle città, le analisi di Rem Koolhaas sulla congestione urbana in Delirious New York, le descrizioni di viaggio nello Yucatan di Robert Smithson ("Ovunque lo avvicini, questo luogo è inimmaginabile") o, forse, il racconto di Fredric Jameson perso nei meandri del Bonaventure Hotel a Los Angeles. (1) Siamo talmente abituati a ricercare a tutti i costi la complessità e la frammentazione che di fronte all'unità a grande scala non sappiamo più compiere alcun editing percettivo. Il Barbican smonta questa costruzione voyeuristica e richiede altre chiavi di lettura. Viene prima e si estende dopo questi riferimenti culturali. Appartiene all'ultima stagione del Modernismo ed è oggi leggibile da un occhio allenato a guardare questa stagione (e quella che l'ha seguita) a distanza. Soprattutto, è incomprensibile se affrontato con una mera descrizione percettiva. Gli spazi e i tempi esperiti in esso, le distanze e le istituzioni nascoste non si spiegano se non s'individua la sua particolare identità: quella di essere il più grande quartiere residenziale urbano d'Europa promosso dallo stato per un mercato di fascia alta. (2)


Scale di accesso al teatro e sala concerti.

Il Barbican non appartiene né all'housing pubblico di carattere sociale, né alla speculazione edilizia privata: è un'oasi modernista che reinventa completamente ex-nihilo l'idea di affluenza e gli spazi, pubblici e privati, che le pertengono. Non ci sono stati esempi di riqualificazione urbana promossi dallo stato in Europa di tale scala se non i coevi Les Halles e il Centre Pompidou a Parigi. Mentre questi, tuttavia, definiscono spazi e istituzioni pubbliche accessibili a tutti, il Barbican si chiude in una privacy completamente autoreferenziale per quanto pianificata dallo stato. Lo standard di vita dei soli abitanti del quartiere e non della città circostante è il criterio che ne ha guidato la progettazione e spiega il suo isolamento e conseguente fallimento come esperimento di rigenerazione urbana. Un viaggio spazio-temporale nella vicenda di questo quartiere svela continui slittamenti temporali tra progetto e realizzazione, tra intenzioni e risultati, tra il tempo che cambia e l'inerzia materiale degli edifici. Il Barbican richiede quindi una lettura dell'architettura come sovrapposizione di successive durate e di visioni insediative in movimento, un processo complesso che vale la pena di affrontare per fuoriuscire da una nozione dell'edificio o del quartiere urbano come prodotto finito condannato a un consumo immediato.



ANOMALIE SOCIALI, ANOMALIE TEMPORALI. Pianificato durante gli anni Cinquanta in un'area della City rasa al suolo dalle bombe tedesche del 1941, costruito a fasi per tutti gli anni Sessanta e Settanta con un continuo processo di aggiornamento del progetto, il Barbican è un pezzo di storia del nostro tempo, un organismo urbano mutante che sfodera cifre impressionanti: copre un'area di 140.000 metri quadri, vede la presenza di infrastrutture come la ferrovia e diverse strade che passano sotto il costruito, include oltre duemilacinquecento appartamenti per settemila abitanti in tredici edifici, parte dei quali condensati in tre torri di quarantatré piani (Cromwell, Shakespeare e Lauderdale Towers, ad oggi i grattacieli residenziali più alti d'Europa), è dotato di cinquemila parcheggi sotterranei, ospita al suo interno un centro culturale con spazio espositivo, un teatro di millecinquecento posti, una sala concerti di duemila posti e una scuola di arti drammatiche con relativi servizi.


Veduta aerea.

Il complesso è un raro esempio di residenza pubblica per le classi abbienti, non guidato da intenti sociali né puramente speculativi di natura privata. La London Corporation e il London City Council, i promotori originari del Barbican, volevano usare la residenza come motore di rivitalizzazione di una City segnata dalle bombe e caratterizzata da una terziarizzazione selvaggia che la stava trasformando in un quartiere fantasma occupato solo da uffici. L'idea che questa residenza potesse anche generare un indotto e quindi ulteriore sviluppo, orientò gli amministratori verso una fascia di utenza medio-alta che potesse definire un nuovo lifestyle urbano nel clima di ottimismo del primo boom economico che stava finalmente lasciando indietro gli anni bui della ricostruzione. Per dotare il nuovo quartiere di tutti i servizi di vicinato, la parte residenziale venne nettamente separata da una porzione commerciale e terziaria a nord e quindi privata di negozi. Venne invece dotata di servizi culturali come il centro espositivo e i teatri, legati a compagnie statali (Royal Shakespeare Company e London Symphony Orchestra) che, inizialmente pensati per il solo quartiere, vennero poi aperti a tutta Londra.


Crescent e torre residenziale.

La definizione di un nuovo quartiere dotato di un surplus di qualità e di servizi, orientò pianificatori e architetti verso l'isolamento e la reclusione per perseguire irrinunciabili caratteristiche di privacy e di sicurezza. Tale atteggiamento, tipicamente inglese e antipubblico, partorì un ghetto dorato che, fu sin dall'inizio additato come esempio negativo di segregazione e antiurbanismo. Paradossalmente il desiderio di creare un pezzo di città produsse l'anticittà o, meglio, una realtà parallela avulsa dal suo intorno. Quando mai, tuttavia, Londra è mai stata omogenea e dotata di un tessuto edilizio unitario? Come ha ben spiegato Steen Eiler Rasmussen nel fondamentale London, the Unique City, la città è cresciuta attraverso speculazioni private che hanno prodotto interi quartieri incentrati su piazze verdi, assommando parti disomogenee. (3) Se Londra è un montaggio di recinti chiusi, il Barbican è in perfetta continuità con la sua storia urbana discontinua e porta alle estreme conseguenze una tendenza radicata in un pragmatismo speculativo tipicamente inglese.

Quello che distingue il Barbican da tutti gli altri precedenti è l'adozione estensiva del linguaggio modernista a segnare l'intero complesso. Strategie spaziali e costruttive che erano state finora appannaggio dell'housing per i meno abbienti, vennero amplificate a una scala mai vista in precedenza e indirizzate a un milieu che desiderava esprimere i simboli della nuova affluenza dell'era del consumismo. La protezione della privacy dei residenti si espresse nell'alto muro, nella levitazione di tutti i percorsi pubblici e nella definizione di successive soglie di accesso. Tuttavia non erano solo questi i soli motivi che indussero a tali scelte insediative. Il Barbican, localizzato nel cuore della city, era attraversato da strade preesistenti e dalla ferrovia. Sedeva su un magma brulicante di infrastrutture e rovine sopravvissute dai bombardamenti (il muro dell'antica cinta della città che da il nome al complesso, una chiesa medievale) che furono tutti incorporati in una gigantesca megastruttura a più livelli sovrapposti che coesistevano senza toccarsi. Sotto le case, i giardini e le piazze interne del Barbican scorre un ganglio di percorsi di accesso, parcheggi, binari e fondazioni di edifici precedenti che, grazie al genio strutturale di Ove Arup, vennero compartimentati, filtrati e separati da muri e diaframmi ciclopici. In questo sogno futurista, il nuovo quartiere assunse un carattere volutamente pesante e brutalista per i materiali che adottava quasi a fondare una nuova sorta di archeologia moderna che celebrava il flusso costante dei mezzi su cui l'abitare era sospeso.

Questo gigantismo romantico non era presente nei primi progetti del complesso ma fu un punto di arrivo assunto gradatamente durante il lungo processo di continua riprogettazione che accompagnò la costruzione. Gli architetti del Barbican, Chamberlain, Powell & Bon, erano giovani alla loro seconda commessa di grande scala quando assunsero l'incarico e crebbero come progettisti con il Barbican, sfornando successive visioni del nuovo quartiere che incorporavano diversi riferimenti e tendenze. (4) La distanza del costruito dal progetto iniziale si può misurare non solo analizzando i documenti rimasti ma guardando il precedente quartiere residenziale dei tre progettisti, spazialmente contiguo al Barbican: il Golden Lane Estate. Promosso con un concorso nel 1952, Golden Lane era il primo tentativo di rivitalizzare la città con un complesso residenziale da parte del London City Council.


Pianta dell'area con i limiti della parte residenziale a sud e lo sviluppo terziario a nord.


Chamberlain, Powell & Bon, schema preliminare del 1954-55.


Chamberlain, Powell & Bon, progetto del 1956.

Il progetto vincitore dei tre esibisce un linguaggio modernista astratto e riduttivo erede delle esperienze degli anni Venti e Trenta, soprattutto quelle del Le Corbusier purista. L'insieme è formato da successive corti pedonali di dimensione contenuta (circa trenta per trenta metri in pianta con un'altezza non superiore ai quattro piani) unite da percorsi pedonali che segnano il piano terreno con portici su pilotis, da servizi comuni posti a un livello ribassato che filtrano lo spazio con le loro superfici vetrate e da serie di ballatoi che si affacciano ai livelli superiori. L'unica eccezione di un tessuto omogeneo è la presenza di una casa alta, la Great Arthur House, che costituisce un riferimento visivo che orienta l'intero quartiere. Tutti materiali a Golden Lane levitano divisi in pannellature leggere e colorate, sospese su profili a sfidare la gravità.


Kadleigh, Whitfield e Horshburg, schema preliminare, 1954.

Mentre Golden Lane trattiene la città circostante filtrando lo spazio della strada al suo interno, Il Barbican la nega volutamente. Il salto di scala e di approccio all'urbanità dei due quartieri limitrofi è tale che si fatica a pensare che siano opera degli stessi progettisti. Eppure un'analisi dei successivi progetti del Barbican rivela il passaggio da un'idea di tessuto urbano a quello di un'enclave autonoma, da un modernismo leggero a un Brutalismo monumentale completamente diverso. Il linguaggio del complesso costruito non è, tuttavia, definibile in modo univoco, si rivela tutt'altro che monolitico ed è ibridato da molteplici riferimenti storici e contemporanei. Dopo una serie di studi di fattibilità commissionati dai vari enti che controllavano l'area, il primo progetto preliminare di CP&B del 1954-55 era organizzato in una serie di successive corti residenziali che formavano un tappeto. Esse erano orientate lungo un asse di accesso posto in direzione est-ovest che negava l'andamento nord-sud delle strade preesistenti al bombardamento. All'interno di questo tessuto urbano erano collocati i resti di alcuni monumenti storici sopravvissuti, delle vere e proprie rovine pittoresche ambientate nel nuovo ambiente moderno. L'area era ormai chiaramente divisa in una zona a sviluppo terziario-commerciale a nord condivisa con la contigua Golden Lane, la porzione residenziale in questione al centro e uno sviluppo a uffici a sud lungo il London Wall, tre aree completamente divise come spazi, usi e caratteristiche insediative.


Cantiere con le infrastrutture nascoste sotto il complesso.

Se il primo schema cercava una misura urbana in un'unità piazza-corte ripetuta, i successivi progetti abbandonarono tale modularità per una visione monumentale, con configurazione planimetrica unitaria ma divisa in livelli separati. Catalizzatori di questo cambiamento furono l'idea di un'isola autonoma che unisse le nuove tendenze megastrutturali con una serie di riferimenti storici, provenienti sia dal mondo anglosassone sia da altri contesti, che si pensava potessero donare qualità al vivere all'interno della nuova enclave.


Le tre torri e l'Arts Center in costruzione, 1968.

La megastruttura rispondeva all'idea di creare un abitato sovrapposto a una rete di infrastrutture quali quelle presenti nell'area e consentiva di porre sopra di esse una maggiore densità. Nella complessa distribuzione dei ruoli tra vari enti che governavano l'area (London Corporation, London City Council e il neonato Barbican Committee) il parallelo studio di fattibilità del 1954 dello studio Kadleigh, Whitfield e Horshburg divenne il catalizzatore di tutte le ambizioni successivamente investite nell'area. Su un podio di quattro livelli che ospitava infrastrutture e spazi commerciali, si innalzavano una serie di torri di cristallo dalla pianta esagonale, quasi una sorta di Metropolis che si stagliava all'orizzonte della città. L'idea di un'unica piastra che unificasse il livello terreno e innalzasse il nuovo insediamento sopra la città rimase anche nei successivi progetti ma venne mediata dall'inserimento di spazi verdi comuni che richiamavano il grande sviluppo settecentesco delle estate del West End.


Pianta del progetto costruito.

Il secondo progetto di CP&B del 1956, il primo che vede il trio nella veste ufficiale di progettisti, contiene già in nuce gli elementi del costruito finale. Due grandi corti semiaperte con verde e acqua al loro centro furono sfalsate rispetto a un asse di penetrazione est-ovest. Al loro incrocio un grande crescent che richiamava Bath si apriva su un'area centrale dove erano localizzati il teatro e le scuole inizialmente comprese nel progetto.


Corte residenziale.



Corte con acqua e giardini.

Alle spalle di questa composizione quasi neoclassica si ergevano tre torri residenziali di trentacinque piani che punteggiavano il confine settentrionale. Se la pianta pareva quasi Beaux-arts, la sezione mostrava un recinto continuo chiuso all'esterno e un uso di un basamento di due-tre piani che racchiudeva parcheggi, servizi comuni e delle ville urbane a quadruplex, le uniche residenze che toccavano il terreno. Nessuna automobile poteva penetrare il recinto e un livello pedonale continuo era posto al secondo piano sopra il basamento. Su linee di pilotis si innalzavano le lame residenziali caratterizzate da terrazzi continui affacciati sul verde centrale.

Tutta una serie di riferimenti storici furono addotti da CP&B per mascherare quello che era un social condenser modernista completamente autonomo. Lo sviluppo urbano attraverso piazze verdi della Londra Georgiana, Il crescent, la divisione tra basamento funzionale e edificio residenziale nello schema per l'Adelphi sul Tamigi dei fratelli Adam, le strade coperte nel complesso di Albany a Piccadilly erano tutti rimandi alla tradizione della Londra residenziale delle classi alte. A essa si aggiungevano suggestioni riportate da culture altre: i terrazzi all'italiana, i portici e i patii delle cittadine mediterranee, gli arabeschi e i giochi d'acqua dei giardini islamici. Se questi esempi non erano direttamente citati come avverrà in seguito nel Postmodernismo storicista, essi erano riportati all'interno del linguaggio complessivo dell'insieme. Uniti ai vantaggi tecnologici offerti dallo zoning modernista (separazione traffico-pedoni, sicurezza, distanza protetta dalla città, servizi comuni, alte tecnologie negli appartamenti) essi proponevano un nuovo modello di vita urbano capace di sintetizzare tradizione britannica, influenze europee e comfort americano per un pubblico di nuovi professionisti che venivano a invitati a colonizzare la City. In un tale sogno ottimista, il Modernismo del Barbican era capace di accogliere molteplici influenze e diventava specchio del New World Order del boom capitalista e pre-Pop della fine degli anni Cinquanta.


Sala concerti, teatro, scuola d'arte drammatica.

Modernismo sì ma sempre meno ortodosso: nei successivi progetti e nella versione finale il Barbican mostra un crescente desiderio di espressività. Gli schemi dal 1959 fino al costruito confermarono la divisione delle due corti sfalsate e accentuarono il linguaggio megastrutturale dell'insieme che da purista e leggero (com'era Golden Lane) divenne sempre più pesante e materico, ricco di simboli come se seguisse l'opera del tardo Le Corbusier, l'esempio di Hans Scharoun e quel movimento tipicamente inglese che finora si era espletato in esercizi di housing sociale: il Brutalismo. Il percorso elevato divenne un vero e proprio marcapiano dell'intero progetto, segnato da un colossale profilo svasato in cemento bocciardato che teneva sospesi tutti i livelli superiori, in ossequio al culto della strada elevata canonizzato da Alison e Peter Smithson. I piani residenziali erano segnati da analoghi terrazzi continui che, nelle torri, si intersecavano con i montanti gotici a formare un telaio di cemento a vista fortemente caratterizzato che ricordava la Torre Velasca dei BBPR mentre le prue triangolari dei balconi rimandavano agli appartamenti Romeo e Giulietta di Hans Scharoun. I tamponamenti in cotto scuro si contrapponevano nettamente alle strutture a vista bocciardate su tutte le superfici per apparire rustiche ed espressive mentre i tetti accoglievano degli alloggi a doppia altezza sotto sequenze di volte semicircolari degne del Le Corbusier ispirato dal Mediterraneo nel progetto Roq & Rob.


Sezione del teatro e torre scenica con serra.

Il cambiamento più importante fu quello che costrinse CP&B a inglobare delle istituzioni culturali (teatro, sala concerti e centro espositivo) di scala molto più grande rispetto a quelle inizialmente previste. Per mediarne l'impatto sull'abitato e comunque mantenere l'accessibilità dalla città esterna, i progettisti le spostarono da una posizione isolata all'incrocio delle due corti in un unico complesso parzialmente interrato nascosto all'interno del costruito e raggiungibile solo con il contorto percorso interno che abbiamo descritto. Nell'allargare il centro culturale, lo slargo con il crescent all'incrocio delle due corti fu staccato da esse e rialzato a un livello ulteriore rispetto a quello che unisce pedonalmente tutto il quartiere. La sezione piranesiana del teatro incastrato dietro le residenze e sovrastato da una serra-giardino che ne maschera la torre scenica è un capolavoro di compenetrazione di funzioni diverse. Peccato che esso conviva con l'assoluta desolazione del percorso pedonale elevato e con il sostanziale vuoto dei giardini centrali.


Alloggi in linea nel progetto di CP&B del 1956.

È interessante notare come la continua moltiplicazione di riferimenti venne assunta durante il solo processo costruttivo: si pensi che il progetto esecutivo finale prevedeva un rivestimento di marmo bianco modulare mentre la muscolosità del cemento a vista e gli stacchi tra i materiali vennero introdotti solo in corso d'opera. È come se Il Barbican fosse uno specchio del mutamento degli stili architettonici dagli anni Cinquanta alla fine dei Settanta, dal Modernismo ortodosso di Golden Lane all'espressionismo dei Robin Hood Gardens fino allo storicismo di Louis I. Kahn. Tutto ciò venne condotto con un atteggiamento totalmente pragmatico che vedeva i linguaggi architettonici come stili applicati su un impianto sostanzialmente monolitico e diviso in compartimenti stagni.

L'immagine si evolse mentre il distributivo la seguì a fatica e, anzi, divenne quasi regressivo col tempo. Le prime proposte progettuali di CP&B per gli appartamenti erano molto innovative: loft multipiano con open spaces e cucine a isola circolari, patii verdi scavati nei tetti, case-studio sotto le volte sui tetti, ville con quattro livelli e patii interni nel basamento (quasi una terrace georgiana che sostiene tutto l'edificio), soggiorni triangolari a sbalzo nelle torri. Tutte queste innovazioni furono ridimensionate nel progetto finale che vide un livellamento verso un formato famiglia con tagli abitativi più tradizionali e aperti a interventi stilistici di finitura da parte dei residenti.


Golden Lane, great Arthur House e corti.

Il Barbican seguì lo sviluppo delle aspettative sociali del dopoguerra: da simbolo della ricostruzione divenne sensore dei mutamenti dell'affluenza durante il consumismo degli anni Sessanta e rimase orfano della ricchezza che l'aveva prodotto nel decennio di crisi successivo. All'alba del 1980 il Barbican apparve alla critica di architettura come il relitto di un'immagine del futuro ormai superata, un sogno da ricchi diventato incubo ballardiano di una comunità protetta, difensiva e barricata dietro alle sogli inviolabili di un recinto chiuso (non è un caso che James G. Ballard proprio in quegli anni scrisse Condominio, un ritratto della perfetta enclave paranoica che ben si adatterebbe al Barbican). (5) Il Modernismo che l'aveva creato rivelava qui uno scarto tra il suo originale anelito sociale e il suo impiego per creare uno status symbol per ricchi, una sorta di tradimento per gli spiriti più impegnati.


Sezione trasversale sulla sala concerti e l'Arts Center.


La sala concerti.

Lo spazio pubblico si eleva e si nasconde: è segnato da collegamenti aerei, dalla mancanza di servizi e da un centro culturale introvabile. Che tipo di città collettiva promuove il Barbican? Che cosa dona al circondario di Londra? Parrebbe un'urbanità riprodotta in vitro ed elaborata ossessivamente fino a diventare reazionaria (e, in ciò, il Barbican è inconsapevolmente un prologo a certo New Urbanism postmoderno). Eppure nel corso degli ultimi tre decenni il giudizio sul Barbican è cambiato. Nella City sono sorti i nuovi ghetti anonimi della corporate society: grandi edifici a uffici, centri commerciali, recinti chiusi come Canary Wharf molto più isolati del Barbican. In questo deserto terziario e commerciale, la lunga durata del Barbican e la continuità della sua comunità sono apparse quasi come un atto di resistenza alla fine della città, tanto che oggi i suoi appartamenti sono ambiti da giovani famiglie, single e creativi. Lo scarto che sembra aver accompagnato tutta la vicenda del quartiere, il suo essere costantemente fuori dal tempo e in ritardo rispetto alle tendenze contemporanee, sembra ora donare al complesso una sua intrinseca qualità. Vale quindi la pena analizzare più a fondo l'architettura che lo caratterizza, consci dei conflitti ideologici che il quartiere ha attraversato, ma liberi dalla dittatura delle grandi narrazioni in esso adottate (e, allo stesso tempo, tradite).



RECINTO, SOVRAPPOSIZIONE, LEVITAZIONE. Il Barbican è stato descritto come una megastruttura stratificata a più livelli e allo stesso tempo un recinto di grandi corti. Nel mescolare questi due tipi d'impianto -l'uno che sovrappone aree di costruito, l'altro che le addensa lungo il perimetro- l'apparente ortodossia modernista del complesso si frantuma con interessanti conseguenze. Gli edifici residenziali, lineari o a torre, non siedono infatti su una riconoscibile base di servizi comuni che si dilata oltre al loro inviluppo planimetrico ma la nascondono al loro interno. A un primo sguardo non si percepisce che, dietro alle cortine delle immense corti residenziali, coesistano spazi comuni né che esse ospitino anche infrastrutture e servizi. Il teatro e il centro espositivo sono posti all'interno delle residenze a corte in modo poco rappresentativo. Per servirli, un secondo livello di percorsi pubblici si apre dietro ad esse e ingloba il crescent semicircolare a un livello superiore rispetto a quello pedonale che serve l'intero complesso. Oltre al piano dei percorsi pubblici definito dal profilo colossale a sguscia, il Barbican rivela altri livelli esterni della città: da un inaspettato sistema di piazze nascosto al secondo livello si innalzano le tre torri residenziali.


Foyer del teatro.

Possiamo così dire che gli spazi pubblici del Barbican sono quattro: i giardini delle corti, il percorso pedonale visibile posto al primo piano che si affaccia su di esse, quello del crescent nascosto a nord al livello superiore e gli ambienti interni d'accesso alle istituzioni culturali. Il Barbican divide così una leggibilità apparente del suo zoning e una moltiplicazione di parti nascoste. Questo produce un effetto sorpresa durante l'esplorazione del complesso con lo schiudersi di dimensioni parallele che rivelano una città incommensurabile con le aspettative inizialmente percepite. In ciò il Barbican contiene più spazi, più dimensioni non coerenti anche se tutte espresse dallo stesso linguaggio costruttivo generando una sorta di schizofrenia modernista raramente rinvenibile in complessi di questo periodo.

Il presunto basamento a servizi che cinge le corti verdi non è per nulla omogeneo come appare. Esso contiene sì parcheggi, strade, ferrovia e istituzioni culturali ma anche le schiere di residenze a quattro livelli sfalsati che si affacciano sul piano terreno. Il loro prospetto segnato da un arco rovesciato sembra raddoppiarsi nel riflesso dei bacini acquei e disperdere la solidità dello zoccolo. Il collocare le residenze più lussuose con paramento murario e arco alla base delle megastrutture con solette a vista che gli stanno sopra genera un curioso montaggio verticale che mischia lo spazio pubblico e la dimensione privata più esclusiva ricollocandoli a più livelli. Il verde non è quindi lo spazio comune ma una sorta di picture window per una room with a view delle schiere che si affacciano su essa. Forse è per questo che i percorsi collettivi sono tenuti lontani da esso e lo trattano come uno sfondo da guardare e non toccare. Gli elementi idraulici e arborei -la cascata, le terrazze, i tagli della riva- hanno una dimensione colossale, ricordano le geometrie primarie che animano le chiuse acquee nell'Architecture di Ledoux. Sono troppo grandi per essere vissute da vicino e sono invece calibrate alla generale iperprorprzionalità che segna l'immagine pubblica degli spazi interni del Barbican.


Strutture sull'acqua.

Il giardino con resti di infrastrutture che appaiono come rovine, la terrace di case a muro ed arco, la strada aerea su mensola colossale, gli edifici lineari con solette che sospendono giardini a vista, l'attico con volte mediterranee: la sezione del Barbican è una megastruttura pentita che dopo avere negato la città tradizionale la reintroduce nei suoi comparti e livelli separati. Ciò avviene come nel Plan Obus di le Corbusier per Algeri, capace di accogliere anche ville in stile tradizionale sulle sue solette sospese e che genererà un'ironica rilettura nella Highrise of Homes del gruppo SITE. (6) Questo surreale montaggio verticale mostra la potenziale plurisemanticità presente già nel Modernismo classico e l'ambigua capacità di distrarre dalla reale natura degli spazi dietro un'immagine non correlata con loro.

Quali sono i percorsi d'accesso e di penetrazione del Barbican? Quello sotterraneo carraio, quello pedonale aereo o quello nascosto nel suo interno? Nel negare il piano terreno per darlo ai giardini e alle infrastrutture, nel duplicare le strade due volte in altezza, nell'inghiottire i percorsi nelle viscere del complesso, Il Barbican non crea uno spazio pubblico ma estende quello privato nei percorsi comuni di vicinato. Rendendoli proteiformi, eccessivi e isolati, esso crea barriere invisibili attraverso la distanza e la levitazione. Le soglie tra pubblico e privato non sono apparenti ma continuamente rimandate fino allo smarrimento all'interno del complesso. Probabilmente non esiste quartiere al mondo in cui lo spazio semiprivato condiviso tra gli appartamenti sia così esteso. L'ambiguo equivocare questo ambiente esterno con quello pubblico d'accesso alle istituzioni culturali genera la frustrazione delle aspettative di trovare un luogo urbano vissuto; l'assenza di servizi di vicinato, di negozi, di vita esterna, fa il resto. Gli appartamenti del Barbican, quelli dove vivono settemila persone, non sembrano esistere: levitano in silenzio. Il deserto dei percorsi comuni, la scarsità di persone lungo i bacini acquei (anche se, con un tardo pentimento, è stato qui posto un caffè all'aperto) non dicono nulla del peso insediativo che grava sopra questo vuoto. Il perverso miracolo del Barbican è che fa ammirare la superba skyline di Londra dai soggiorni ma non rende presente alla città la comunità che qui risiede. Guardare e non toccare è destinato sia ai residenti del complesso sia ai londinesi che osservano le torri e le cortine del Barbican da lontano. La reciprocità nella distanza sembra l'unica condizione che rende possibile residenza e città. La strada, la piazza, il giardino, la passeggiata invece di unire abitazione e comunità le distanziano con simulacri di spazi urbani.


Serra sopra la torre scenica.

Il vero spazio pubblico è invece ribaltato all'interno del centro culturale. Qui, nelle rampe e corridoi ciechi, nei monumentali scaloni di accesso agli auditori e nelle balconate a doppia altezza, si celebra un teatro ispirato alla sequenza ascensionale dell'Opera di Parigi e della Philarmonie a Berlino che vuole a tutti i costi mettere in mostra il pubblico. I profili strutturali brutalisti in cemento bocciardato si mescolano con colossali modanature in materiali preziosi e convivono con i macchinari scenici lasciati a vista in uno spazio buio e misterioso. Allo stesso modo in cui il pubblico è messo forzatamente in mostra negli accessi al teatro e alla sala concerti, così le automobili sono inghiottite in colossali portali e tunnel lungo il perimetro esterno prima di scomparire nei sotterranei del Barbican. Anche qui il percorso è segreto ma la sua rappresentazione monumentale: il recinto esterno con muri e viadotti eccessivi ricorda le infrastrutture monumentali della Londra Vittoriana celebrata nei romanzi di Dickens. Questa memoria del sottosuolo che forma le vie d'accesso alla città è dissotterrata e resa parte dell'immagine dell'architettura. La città si fonda sì sulla mobilità delle infrastrutture ma anch'esse hanno un passato, un ricordo collettivo, una retorica nella perduta grandeur ottocentesca. In entrambi questi tentativi di rendere lo spazio pubblico artificiale e sotterraneo, il Barbican sembra ricondurre tutta l'architettura a rappresentazione, a teatro, a finzione: essa non sembra vissuta dalle persone -sempre troppo poche rispetto alle sue proporzioni- ma dagli edifici stessi che recitano una surreale pièce con il loro linguaggio costruttivo.



AFFLUENZA BRUTALISTA. Partiti da un Modernismo astratto e leggero, fatto di scomposizioni e piani sospesi a Golden Lane, CP&B approdano a un brutalismo materico e pesante che ingloba le forme, segna le transizioni e crea accenti nei momenti spaziali che vuole rendere visibili. I tre architetti seguono le mode del periodo, cercano di tradurle nel nuovo complesso e il Barbican, nella sua evoluzione (e soprattutto nel passaggio tra progetto e costruzione) è una sorta di sensore dei cambiamenti epocali del tardo Modernismo. Il termine Brutalismo designa un linguaggio emerso durante gli anni Cinquanta soprattutto in Inghilterra che segue a distanza l'evoluzione del tardo Le Corbusier ed è segnato da una sintassi impura, espressiva delle funzioni, sincera nell'uso dei materiali industriali (soprattutto del cemento grezzo a vista) e ricca di simboli delle gerarchie d'uso.


Dettagli dei profili in cemento.

Se i maggiori protagonisti del movimento, Alison e Peter Smithson da un lato e Reyner Banham dall'altro non arriveranno mai a un consenso sul significato del termine, esso può essere approssimato dicendo innanzitutto che privilegia l'immagine su tutti gli altri elementi di un edificio e che quindi separa l'espressione dallo spazio. Come ha giustamente scritto Jürgen Joedicke, "con il Brutalismo degli Smithson la questione si limita al fatto che la logica del progetto e più precisamente l'articolazione spaziale, la costruzione e la materialità siano visibili esternamente. Per ottenere ciò l'occhio del visitatore deve essere insistentemente attratto. Una nota espressiva è quindi associata al Brutalismo sin dalle sue origini. L'idea dell'immagine viene prima di tutto, implicando che l'edificio deve avere una "immagine" che colpisce, un aspetto memorabile." (7) Il Brutalismo si delinea così come un'operazione retorica che fa dell'eccesso lo strumento principe del proprio operare, che intensifica la presentazione di un edificio rispetto alla realtà materiale e d'uso, che non esita a distaccare l'iconologia dell'architettura da quello che la sostanzia. Il Brutalismo quindi, nel portare a un culmine espressivo le conquiste del Moderno, segna l'incrinarsi dell'unità tra forma, tecnica e funzione che aveva costituito uno dei suoi precetti.

Il Barbican è uno dei monumenti di questa alienazione dell'immagine a causa dell'intensificazione del suo peso espressivo. Il linguaggio grezzo e poverista dei riferimenti impiegati si arricchisce di allusioni storiche, di ibridazioni con materiali pregiati soprattutto negli interni e di un irrisolto contrasto con i macchinari nascosti all'interno del complesso i quali, quando appaiono, sono lasciati a vista e distinti dalle forme più espressive del cemento. Linguaggio tecnico, fisicità dei materiali e modellazione scultorea rimangono non integrati: le loro intersezioni creano contrasti (voluti e non) che segnano i luoghi ma essi non parlano di sintesi bensì di scissione, di pausa, di interruzione. I profili colossali di cemento bocciardato contengono e sollevano tutto: formano colonnati, solette-vassoi, viadotti e rampe. Il pesante è quello che separa (da terra, dalla città, dalle residenze) non che fonda l'insediamento. Come già detto, se vi è nostalgia di un'origine o di un'archeologia al Barbican, questa ha un sapore industriale arcaico e una declinazione infrastrutturale: parla di flussi, di dighe, di viadotti. I rivestimenti inframmezzati tra le strutture a vista, i mattoni, formano scuri piani opachi che vogliono scomparire sia come superfici sia come volumi. Girano gli angoli stondando come se volessero evitare ogni contrasto, formano pattern che vogliono apparire ridotti rispetto alla muscolarità di colonne, travi e mensole.


Scale di accesso al teatro.

All'interno, modanature e corrimani eccessivi competono con le strutture in cemento per attirare l'attenzione e sbilanciare le proporzioni. Definiscono un lusso massiccio che unisce sensuosità barocca e impatto primitivista. Negli scaloni di accesso al teatro, il Brutalismo del Barbican sembra affrancarsi completamente dalla sincerità dei materiali che aveva contraddistinto il Modernismo. L'espressività dell'architettura può sostenere lo spazio e la proposta sociale che esso supporta o, come qui, veste solamente dei simboli di ricchezza? Il Barbican è qui quasi postmoderno: anticipa la schizofrenia tra linguaggio e funzione senza volerlo riconoscere. L'atteggiamento inclusivo dei suoi progettisti assomiglia più a un eclettismo funzionalista di sapore ottocentesco che al rigorismo formale del Movimento moderno, anche se vuole fingere di rifarsi a esso. In questo il Barbican è profondamente inglese nel trattare i linguaggi acquisiti come stili e nell'anteporli a soluzioni funzionali studiate ad hoc, guidate da un'ottica empirica e mai sottomesse ad alcun formalismo idealista.

Nel vortice del Barbican implodono spazi, città, riferimenti storici e usi diversi: essi fingono di sottomettersi all'imperativo modernista e in realtà convivono paralleli, separati, inconclusi. Il contrasto tra l'efficacia del linguaggio costruttivo degli edifici e l'eccentricità dell'insieme ha qualcosa di inquietante ma anche di dinamicamente vivo. Non tutto quel che appare esiste, al Barbican bisogna cercare accettando il rischio di smarrirsi nei suoi luoghi sospesi.

Pietro Valle
pietrovalle@hotmail.com
NOTE:

1. Walter Benjamin, "Infanzia berlinese intorno al millenovecento" in Immagini di città, Torino 2007, p. 103; Robert Smithson, "Hotel Palenque" in Robert Smithson Photographs, Los Angeles 1990, pp. 77-80; Rem Koolhaas, Delirious New York, A Retroactive Manifesto for Manhattan, New York 1978; Fredric Jameson, Postmodernism, The Cultural Logic of Late Capitalism, New York 1996.
2. Il testo più completo sul Barbican è David Heathcote, Barbican, Penthouse Over the City, Chichester 2004.
3. Steen Eiler Rasmussen, London, The Unique City, Londra 1937, edizione rivista Cambridge 1982.
4. Peter Chamberlain, Geoffrey Powell e Christoph Bon formarono la loro partnership dopo la vittoria del concorso per il Golden Lane Estate. I primi due avevano studiato all'Architectural Association a Londra, dove avevano ricevuto un'educazione specificatamente modernista. Bon si era formato, invece, in Svizzera e aveva lavorato a Milano per i BBPR il che spiega l'apertura dei tre verso riferimenti contemporanei europei nel Barbican e, più specificatamente, tedeschi (per il teatro e sala concerti) e italiani (per le torri residenziali).
5. James G. Ballard, High Rise, Londra 1975, trad. it. Il Condominio, Milano 2003.
6. Sul tema vedi Reyner Banham, Megastrutture, le tentazioni dell'architettura, Bari 1980.
7. Jürgen Joedicke, Architecture since 1945, Stoccarda 1969, p. 227. Sul tema vedi anche Reyner Banham, The New Brutalism, originariamente apparso su "The Architectural Review", 118, dicembre 1955 ora in A Critic Writes, Essays by Reyner Banham, Berkeley 1996, pp. 7-15.
Le fotografie storiche e i disegni sono tratti da David Heathcote, Barbican, Penthouse Over the City, Chichester 2004 e da "The Architectural Review", 1016, 1981. Le fotografie attuali sono dell'autore, agosto 2010.

 

 

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