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Quale innocenza per
"San Rocco"

Luca Galofaro, Alberto Iacovoni



Nata nella scorsa estate da un'idea di 2A+P/A, Baukuh, Stefano Graziani, Office KCDVS, pupilla grafik, Salottobuono e Giovanna Silva, "San Rocco" si presenta come "una rivista scritta da architetti, così seria da rischiare di apparire ingenua" (leggi l'editoriale). Un piano quinquennale definisce una serie limitata a venti numeri. I testi sono in inglese, introdotti da un impianto asciutto e solenne. Il primo numero, dedicato al tema Innocence, ha sollevato una riflessione di Alberto Iacovoni e Luca Galofaro, che crediamo possa offrire lo stimolo per un più ampio confronto sul ruolo della nuova rivista e sui suoi contenuti.



 
ALBERTO IACOVONI: Va detto innanzitutto che per chi scrive, che usciva dalla facoltà di architettura nei primi anni Novanta con un grande senso di liberazione da un'accademia che non riusciva più a spiegare il mondo con le sue urgenze e le sue catastrofi, e andava alla ricerca di nuovi stimoli e ragioni provenienti da fuori, fuori dall'Italia e dalla disciplina, una nuova rivista che prende il suo titolo da un progetto a due mani di Rossi e Grassi fa venire i sudori freddi, e tira su un muro di pregiudizi che si supera agevolmente conoscendo -e anche bene- molti dei suoi autori/promotori, tra i più brillanti architetti di quella generazione diciamo di una decina d'anni più giovani di chi scrive. Architetti che in anni recenti, attraverso concorsi, ricerche e anche alcune realizzazioni sono riusciti con grande capacità ad assumere nel progetto di architettura molte delle questioni che mettono in gioco il futuro della nostra società e del nostro pianeta, e che oggi appaiono a volte svuotate di senso, come parole d'ordine buone per giustificare ogni cosa. Dunque una ragione in più per avvicinarsi a "San Rocco" senza pregiudizi, entrandovi dalla porta principale con grande curiosità ed entusiasmo.

La grafica austera, da testo teorico più che da rivista d'architettura, le splendide semplificazioni assonometriche, cui ci ha abituato Salottobuono, indicano una volontà di semplicità e chiarezza, fanno sperare in una nuova oggettività quanto mai necessaria in un periodo di ridondanza estrema. Ma qui domina, insieme al bianco della pagina, quello dell'innocenza, il tema che gli autori hanno scelto per inaugurare il piano quinquennale di "San Rocco", tema intrigante, che purtroppo non ha nulla a che vedere con l'esigenza di una nuova oggettività.

Lo si percepisce qua e là in un poco chiaro e compiaciuto editoriale ("San Rocco" non è utile, "San Rocco" è utile...), e lo si scopre a mano a mano che ci si addentra nel succedersi degli articoli che alternano riletture di edifici che credevamo ormai innocui, al loro posto nei libri di storia, a storie intime di progetti minori: è l'innocenza di chi, mentre il mondo è in fiamme, sta cercando di ritrovare se stesso, le proprie ragioni, cercando disperatamente di delimitare un confine all'interno del quale il proprio operare abbia un seppur fragile senso.

LUCA GALOFARO: "Innocent architecture is white" è la frase che chiude l'editoriale, forse la dichiarazione che più d'ogni altra cerca di fare spazio per ripartire da un grado zero dell'architettura oramai prigioniera dell'immagine che ha completamente svuotato di significato la nostra disciplina.

Come sostiene Kenya Hara in un recente saggio dal titolo The discovery of White, "the blackness of typescript doesn't mean that the letters are actually black; they merely appear black in contrast to a white sheet of paper".

La ricerca di uno sfondo su cui cercare di rifondare la disciplina risulta chiara da subito ma allo stesso tempo ci appare come un tentativo di cancellare molti dei temi che oggi possono restituire significato al progetto d'architettura. Lo sfondo su cui lavorare, infatti, è quello delle città che non sono bianche come i fogli su cui le si disegna, ma ricche di sfumature che provengono dalla stratificazione di discipline e realtà diverse. È con questa complessità che l'architettura deve continuare a confrontarsi ed è attraverso questo confronto che deve ritrovare la sua reale autonomia.

Sono convinto che, oggi più che mai, sia necessario ristabilire l'autonomia del progetto d'architettura, come teorizza Pier Vittorio Aureli nel suo The Project of Autonomy, indagando le sovrapposizioni tra pensiero politico e pensiero teorico di alcuni protagonisti della scena architettonica italiana apparentemente diversissimi tra loro, che condividono non l'innocenza nei confronti del progetto stesso e del suo ruolo, ma una consapevolezza nel potere stesso dell'architettura intesa prima di tutto come forma di pensiero critico e politico.

L'innocenza intellettuale di Aureli diventa maniera negli autori di "San Rocco" che trasformano una serie di progetti di per sé interessanti e potenzialmente canonici in modelli dogmatici su cui rifondare un linguaggio.

Gli articoli ben scritti e curati, se letti uno dopo l'altro, sembrano però nascondere una sicurezza, nelle proprie teorie, un po' forzata e costruita. Come le dichiarazioni d'intenti presentate sotto forma di manifesto programmatico nell'editoriale, quanto mai precise e confuse allo stesso tempo, con un compiacimento che gioca sull'idea di rimettere al centro il progetto (finalmente) ma che allo stesso tempo lo de-contestualizza per restituire potere alla disciplina intesa come pratica auto-riferita.


Il secondo step annunciato in chiusura della rivista con una relativa call for papers è al proposito quanto mai rivelatorio; dall'innocenza si passerà alle isole; dopo aver smacchiato più bianca che si può la consapevolezza del presente, si è pronti per andare in esplorazione di quelle architetture che hanno scelto di garantire la propria autonomia -e autoreferenzialità- mettendo tra se stesse e il mondo un mare inattraversabile.

E se la varietà degli autori e dei temi indagati (da Toyo Ito a Hannes Meyer, dal Balneario di Jaù di Artigas alla Città Orizzontale di Pagano, Diotallevi e Marescotti, dal nuovo naive di certa architettura contemporanea all'impegno politico di un giovane Renzo Piano), dichiara una volontà sacrosanta di indagare senza pregiudizi -in questo senso con una vera e sana innocenza- le ragioni dell'architettura, di questa varietà si stenta però a ricostruire un terreno comune, che vada al di là di un piacere per la semplificazione e l'astrazione grafica. L'impressione è di assistere, mentre fuori c'è una rivoluzione, ad una pacata e forbita discussione sull'architettura all'interno di una accogliente sala da tè tra soggetti molti dei quali, fino a pochi momenti prima, erano per strada con le armi in pugno (basti pensare a Salottobuono che con Decolonizing Architecture ragiona sui Territori Occupati in Israele, o ai 2A+P/A che da anni conducono un lavoro eccellente sulla sostenibilità).

Dalla qualità dei singoli pezzi nasce il mio dubbio sulla coerenza dell'opera completa... una rivista seppur di tendenza cerca nelle differenze nel dialogo nel contrappunto la propria specificità, l'omogeneità di significato se pur cercata con stili narrativi diversi fa pensare a un libro a tema che definisce una linea e non cerca di indagare il mondo dell'architettura, cosa che una rivista dovrebbe fare.

Ritengo interessante riscoprire o rileggere alcuni tra i primi progetti di maestri contemporanei come la White U di Ito e cercare in quest'opera alcuni dei temi sviluppati in seguito dall'architetto giapponese, non credo che gli edifici selezionati dagli autori vadano considerati come esperimenti incoscienti, li trovo invece passi fondamentali per i linguaggi indagati ed esplorati in seguito dagli stessi autori, che hanno compiuto un passo assolutamente necessario alla loro crescita. Trovo ridondanti le note su Villa Garzoni, perfette forse per un corso di scrittura creativa, perché cercano di sdoganare un progetto poco riuscito tentando di trasformarlo in un atto consapevole di critica sociale, mettendoci nella posizione di chi per ignoranza non riesce a capire che forse siamo di fronte a un capolavoro nascosto e ingenuamente sincero. Apprezzo molto il tentativo di Salottobuono di scrivere un testo utilizzando la forma del progetto. Qui l'autore senza troppi indugi si mette in gioco, e cerca una forma di comunicazione dove il progetto diventa strumento teorico e non speculazione fine a se stessa.

Tra tutti i modelli di espressione la rivista dovrebbe scegliere questo, perché alla fine l'innocenza si trova superando il confine tra la realtà oggettiva e quella della propria immaginazione.

Su "San Rocco" pesa il sospetto di essere, in fondo, un'operazione di marketing che coglie un momento di saturazione su alcune questioni estremamente attuali, e sulle modalità spettacolari di comunicare l'architettura; che, al pari del grande ritorno dei Ray-Ban Wayfarer che quelli della mia generazione credevano ormai sepolti insieme a John Belushi, si inserisce nell'inesorabile ciclo di recupero del passato prossimo di cui tutti siamo vittime; un'operazione che piacerà molto al di fuori dell'Italia e che probabilmente gli americani adoreranno, ritrovando, nelle stesse immacolate vesti di "Log", quell'architettura che oltreoceano rappresenta ancora il nostro Paese.

O forse, chissà, "San Rocco" nasce veramente da un desiderio di costruirsi una pausa di riflessione, in chi ogni giorno è in trincea ad affrontare le questioni che decidono le sorti del mondo.

Il nostro augurio, dunque, è che i suoi autori, pur predicando male, continuino a razzolare bene, come hanno fatto fino ad oggi con i loro progetti.

Luca Galofaro, Alberto Iacovoni
[1 gennaio 2011]
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