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C'era una volta la critica

Elisa Poli



 
In seguito alla pubblicazione di diversi articoli riguardanti la nascita e il posizionamento di riviste di settore in campo italiano, e anche grazie alle discussioni sorte intorno all'incontro londinese recentemente organizzato da "Domus" sul tema della critica architettonica, Elisa Poli tenta un riepilogo delle principali questioni sollevate attraverso questo ricco e interessante scambio di idee, offrendo una riflessione sulla funzione critica in architettura. Questo testo vorrebbe innescare da parte dei lettori di arch'it ulteriori interventi sullo stesso tema al fine di creare un corpus di discussione che sia alla base di un incontro reale tra i diversi partecipanti interessati al tema della critica.



 
"No, il dibattito no!" gridava un esausto e anonimo spettatore in una memorabile scena di Io sono un autarchico. Accasciato, nascosto tra lo sparuto e mal capitato pubblico di uno spettacolo off in una delle tante cantine romane, alla richiesta del regista "Ecco, vorremmo proporvi un dibattito" il misterioso personaggio fuggiva terrorizzato. Con l'esattezza dialogica che gli è congeniale, Moretti (Nanni non Luigi) descriveva una condizione culturale e, per molti aspetti, disegnava il ritratto dell'epoca esplicitando il fastidio per una ridondanza divenuta sistema, una consuetudine ormai obsoleta, una profondità non più richiesta: l'azione della critica militante. In realtà Moretti del dibattito si nutriva, ne faceva l'arma di comprensione delle posizioni intellettuali dell'Italia post sessantottina ma il suo grido auto-ironico puntava il dito contro una modalità che ferisce e non agisce, additando un ruolo, quello della critica appunto, che molte volte non sa essere produttiva. Nel film, Moretti -seppure in sogno- prende a bastonate uno dei più noti critici teatrali del Paese "Per quanti quotidiani scrive? Due, uno?".

Il critico diviene l'incarnazione di un errore, l'anello di disgiunzione tra l'arte e il suo pubblico: non media più ma sfrutta le occasioni fornite dall'opera per produrre a sua volta un meta-progetto, una narrazione che spesso si discosta totalmente dalle intenzioni volute o presunte dell'artista. Il critico è parassitario, ridondante, vorace, supponente, inconsistente, erudito e un po' fetente: il critico è indispensabile. Può morire solo metaforicamente (nel sogno dell'alter ego del regista), ma nella realtà costituisce un momento dialettico indispensabile all'esistenza stessa dell'oggetto trattato, alla materia dell'arte (e dello stesso cinema morettiano). Il critico è metà della misura del successo di un'opera. L'altra metà, appunto, è il pubblico.

Certo quello di Moretti, visto oggi, è il racconto di un soggetto obsoleto, legittimato ormai soltanto dal (sempre più esiguo) valore delle stellette a fondo articolo nella pagina dedicata agli spettacoli del Domenicale del "Sole" e di pochi altri quotidiani. I referenti culturali e autoriali si trovano in modo quasi sistematico all'interno del pulviscolo mediatico 2.0 e dimostrano inequivocabilmente la caduta di un ruolo, la cessazione di un rapporto a tre. Il produttore è anche autore e spesso pubblico di se stesso: alimenta un mercato di nicchia e di polverizzazione del capitale intellettuale. Oltre la ventesima riga del discorso internauta è ormai comprovato l'inizio dell'oblio, la diminuzione repentina dell'attenzione. Allora subentra l'immagine, fondamentale balsamo della struttura sintattica del Net, che scorre in modo più lineare, piatta, bidimensionale. L'opacità delle figure di artisti, pubblico e critica, forse la loro apparente attuale tendenza alla confusione sono considerati il magma da cui prenderà energia una nuova produzione culturale, un nuovo registro linguistico. L'opera d'arte nell'epoca della sua...

I significati stessi, le attribuzioni qualitative e quantitative dell'oggetto, che storicamente sono sempre state appannaggio di una ristretta cerchia di eruditi, sono divenuti occasione di produzione collettiva: la parola "militante", ad esempio, assume un significato sempre più generico all'interno dei contenitori di senso della nostra epoca. Da Wikipedia "Il termine è utilizzato per etichettare individui ed organizzazioni impegnati in uno scontro (fisico o verbale) molto aggressivo a causa di un ideale. La parola è, però, anche associata a chiunque sia portatore di una visione ideale molto forte (per es. militante cristiano, ateo, ...)". Lo Zingarelli (ed. 2006) avrebbe invece preferito "A. part.pres. Critico m. chi partecipa attivamente alla problematica artistica contemporanea; B. s.m. Chi, aderendo ad un'organizzazione o ad un movimento di idee, vi partecipa attivamente. Attivista di base di un partito".

La critica militante non ha dunque solo una collocazione politica ma funge da significante per identificare la pratica del pensiero rivolto all'analisi delle opere d'arte, provengano esse dal cinema, dalle arti visuali, dalla musica, dal teatro, dall'architettura o da qualunque altro dominio inerente l'estetica. Il critico militante è una figura riconosciuta, definita linguisticamente, che opera dunque secondo modalità codificate, all'interno di sistemi già mappati. C'è l'artista, c'è l'opera, c'è il pubblico e c'è il critico. O almeno, c'era una volta.

L'allontanamento della critica dalle posizioni più dogmatiche, che ne avevano però decretato l'insostituibile presenza, se non altro nominale, propone come elemento di bilanciamento di potere un'espansione del significato del termine stesso e una conseguente sua possibile ricollocazione. L'atto critico coincide, nel sistema relazionale dei blog e dei siti web, con un processo di selezione o, più precisamente, con una modalità rizomatica di attraversamento tra gruppi di relazioni, link e citazioni.

Atto critico diventa oggi il rapporto di visione/selezione che accompagna necessariamente qualunque gesto conoscitivo del nostro quotidiano. L'importanza dell'autore è decretata dal suo pubblico virtuale, dal numero di visite che il sito riceve, dai commenti che un blog suscita. Due sistemi s'incontrano per celebrare una nuova generazione di vincitori ed allontanare i vinti dai luoghi del sapere virtuale. La generazione precedente legittima quella futura riconoscendole un valore programmatico nella società, quella futura elimina la precedente estromettendola dai contenitori del nuovo scambio intellettuale: il mezzo è determinante per operare questa delegittimazione.

Per quanto oggi sia oggetto di dibattimento anche l'appartenenza disciplinare, la domanda potrebbe essere rivolta all'architettura come possibile produttrice di risultati specifici: come agisce il sistema-progetto di fronte a questo ri-sistematizzazione dei dispositivi del sapere?
Cosa rende la critica architettonica specificamente distinguibile dal modus operandi di altre discipline, come l'arte, il cinema o la musica?

La presenza di nuovi modelli d'impaginazione delle informazioni assimila e omologa casi redazionali che si distinguono esclusivamente rispetto al dettaglio dell'immagine presentata. La formula del blog utilizzata da "De Zeen" rimanda agli outfit di "The Sartolialist" e il modello bidimensionale proposto da Marcus Fairs non presenta particolari differenze rispetto a quanto mostra, in ambito italiano, il sito di "Europaconcorsi". Lo spazio della critica è divenuto prettamente visuale e la richiesta di contenuti verbali che coadiuvino la presunta esistenza di aree specialistiche del sapere avviene ancora, in larga misura, all'esterno del mondo mediatico del Net.

Come sottolineava Baricco in un noto intervento comparso sulla rivista "Wired" (edizione italiana, settembre 2010) in occasione dell'inaugurazione del Padiglione Italiano alla XII Mostra Internazionale di Architettura di Venezia, sono i modelli culturali di potere a essere cambiati e il rituale della profondità ha perso il suo valore ontologico di luogo deputato alla costruzione di valori. È attraverso i movimenti di superficie che si producono le pratiche culturali del domani. E l'abbandono della forma rituale della carta stampata come legittimatore di autorialità e di senso è solo uno dei tanti processi a cui le società sono sottoposte.

Il critico militante sembra oggi una forma superstite relegata alle tirature limitate di riviste di nicchia che, nel tentativo di distinguersi, si somigliano in modo tanto smaccato. L'effetto del "brutto anatroccolo" sembra spesso uno dei motori principali che animano la costruzione di questi dispositivi culturali. Non è un caso se negli ultimi anni si sono spese tante parole e, forse, molte meno immagini, per cercare di ricollocare la disciplina all'interno di una domanda, così altamente insufficiente e inadeguata che più o meno suona sempre come "Che cos'è l'architettura, oggi?".

Ancora più deludente appare allora il tentativo, poco produttivo, di rispondere alla domanda, peculiare del processo conoscitivo filosofico "Che cos'è la critica, oggi?". Deludente perché dimostra un'incapacità dei cultori di questa problematica in campo architettonico di spaziare al di là del limite disciplinare, omettendo lo studio e la presa di coscienza di una larghissima letteratura che di questa materia ha fatto il proprio specifico oggetto di ricerca. Come se l'Estetica non si fosse occupata per almeno due secoli della soluzione, continuamente negoziata per altro, di questo quesito intellettuale. Come se l'architettura, e chi la frequenta sotto le spoglie spesso ambigue del critico militante, non fosse un lento pachiderma in cerca di risposte che altri, in altre sedi, ben prima e più agilmente hanno trovato. Forse a questa disciplina, se per caso una disciplina esiste ancora, occorrerebbe sì una nuova militanza, ma non in ambito critico bensì in ambito politico (e si usa qui questo termine con valenza etimologica) cercando di riportare sul piano del fare quanto il dire, a volte, solo goffamente si propone.

Che le riviste, cartacee o digitali, stiano perdendo il loro potere taumaturgico di soluzione del sistema visuale, di luogo deputato alla proposizione di linee guida per l'agire, di sistemi prossemici delle modalità si sguardo, questo è un fatto ben più antico -e irreversibile- delle attuali querelle nostrane. Paul Valéry scriveva -citato da Benjamin- ne La conquête de l'ubiquité: "In tutte le arti esiste una parte fisica che non può più venir considerata e trattata come un tempo, e che non può più venir sottratta agli interventi della conoscenza e della potenza moderne. Né la materia, né lo spazio, né il tempo non sono più, da vent'anni in qua, ciò che erano da sempre. C'è da aspettarsi che novità di una simile portata trasformino tutta la tecnica artistica, e che così agiscano sulla stessa invenzione, fino magari a modificare meravigliosamente la nozione stessa di Arte".

Elisa Poli
elisa.poli@image-web.org
[30 gennaio 2011]
> CRITICAL FUTURES #1

 

 

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