La prossima Italia. Note a partire da due sguardi sul futuro dell'architettura italiana Giovanni La Varra |
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MI SENTITE DA LÌ? Angosciata o smarrita nel suo presente, l'architettura italiana ha, negli ultimi anni, costruito in due importanti occasioni pubbliche, uno sguardo sul futuro. Prima, nel 2006, all'interno del Padiglione Italia della 10.a Biennale di Architettura di Venezia, Franco Purini (1) ha lanciato l'idea di Vema, una città di nuova fondazione collocata nell'Italia del 2026; poi, nella 12.a Biennale da poco conclusa, Luca Molinari ha coinvolto la rivista "Wired" (edizione italiana) nella selezione di un gruppo di ricercatori nel campo delle nuove tecnologie da affiancare a altrettanti architetti per restituire uno sguardo sull'Italia del 2050. In un periodo di tempo relativamente concentrato, è abbastanza straordinario che una comunità intellettuale provi a guardare al futuro in due modi che più diversi non potrebbero essere. Anche questo è segno di smarrimento forse, o semplicemente di una tensione che, non trovando appiglio nel presente, guarda al futuro con un misto di ansia e speranza. Ed è sorprendente che due eventi così importanti -che hanno mosso tante energie e prodotto progetti, visioni, messo alla prova idee- abbiano sviluppato un dibattito tutto sommato limitato. Non che non ci siano elementi critici da muovere alle due iniziative -e in questo senso si articola questo intervento- ma in ogni caso entrambe hanno tentato di sollevare questioni e prospettive che, al di là di una attenzione limitata alle giornate dell'inaugurazione della Biennale, sono poi decantate senza lasciare traccia nella discussione sull'architettura italiana che è sempre di più schiacciata sull'attualità e sull'istantaneità. A me sembra che entrambi questi sguardi sul futuro meritino un'attenzione diversa, più distanziata dall'immediatezza dell'evento, che possa assumere la complessità delle proposte presentate utilizzando anche una distanza temporale che favorisca la riflessione, il ripensamento, la calibratura dei giudizi. L'atteggiamento è invece quello che investe oggi qualsiasi evento della società dello spettacolo: una grande frenesia nella preparazione con scarne e misurate anticipazioni tanto per stimolare l'attesa, il bruciarsi dell'evento in un tempo relativamente limitato, una vasta reazione polemica o di apprezzamento che si muove immediatamente a ridosso dell'evento, e infine l'oblio e la noncuranza. Se pure a distanza di tempo, a me sembra che valga la pena di tornare a osservare alla differenza tra questi due sguardi, tra le due prospettive temporali e tra i materiali che gli sguardi immaginano e collocano nel futuro. Da questo punto di vista queste due iniziative forniscono l'occasione per una riflessione generale sull'architettura italiana, una riflessione che utilizza i padiglioni italiani delle due diverse biennali come un pretesto, come un punto di osservazione panoramica da cui guardare al territorio e alle città italiane. I due schieramenti sono troppo compositi per individuare delle "scuole" o delle "tendenze", ma la forma di grande compagine consente almeno di mettere a fuoco due diversi modi di essere dell'architettura italiana nel presente, prima ancora che nel futuro. Le compagini sono estremamente varie al loro interno, Purini ha selezionato un gruppo di giovani architetti che Giovanni Corbellini ha riconosciuto essere "una apprezzabile rappresentazione delle diverse ricerche concettuali e compositive che si stanno faticosamente creando uno spazio nel nostro paese" (2). Per Purini l'architettura in futuro continuerà ad avere la forza di proposta civile, autonoma, unitaria, di nuovo capace di organizzarsi in progetti ambiziosi quale quello della costruzione di una città di fondazione. Molinari e "Wired" non lasciano soli gli architetti nell'addentrarsi nel futuro, gli affiancano internet designer, scienziati, artisti, fisici, scrittori, musicisti, ricercatori scientifici. In questo caso l'architettura non si pone al centro delle dinamiche che immaginano il futuro, piuttosto si lascia guidare e, le sue visioni, le modella a partire dal futuro, apparentemente più saldo e certo, di altre discipline. I compiti delle due compagini sono differenti. La prima deve materializzare gli edifici e gli spazi aperti di una nuova città di fondazione che si colloca in uno spazio aperto tra le provincia di Verona e Mantova, Ve-Ma appunto. Alla seconda compagine è richiesto di aprire squarci sul futuro, delimitare tratti di un orizzonte ancora sconosciuto, configurare "scenari possibili, temi caldi e potenziali di paesaggi in cui potremmo vivere, e in parte già viviamo" (3). Nell'Italia del 2026 l'architettura si rifugia in una riserva protetta, una città ben delimitata, che vuole "contrastare la città diffusa, sostituendo alla proliferazione incontrollata e indistinta di case, capannoni e shopping mall, entità urbane finite e riconoscibili" (4). Nell'Italia del 2050 l'architettura scompare dall'orizzonte urbano, che è tutto un formicolare di sensori, neuroni, flussi. La città, lo spazio urbano, rimangono sullo sfondo. E su questo sfondo gli architetti, ispirati dai testi e dallo scambio con i loro "accompagnatori", provano a delineare forme, oggetti, micropanorami, frammenti di un paesaggio di "cui non dobbiamo avere paura" (5). Nell'Italia del 2026 è lo spazio al centro della riflessione, non si parla che di quello e la città è fatta di misure, isolati, bordi, allineamenti. Nell'Italia del 2050 l'architettura diventa tempo, le varie visioni del futuro non sono altro che -con poche eccezioni- riflessioni su una differente temporalità. Nell'Italia del 2026 il consumo di suolo non sembra essere un problema, la città diffusa dei capannoni (che oggi, nel 2011, poco a nord di Vema, nella grande piana Veneta, sono inutilizzati nell'ordine del 25-30%) è lontana all'orizzonte, il suolo è una risorsa apparentemente disponibile. Consumarne di nuovo è l'unica modalità per una condanna definitiva del processo antropico della città fatta di "case, capannoni e shopping mall". Questa diventerà rottame probabilmente, o sarà redenta dal moltiplicarsi di altre Vema che, maternamente, reintrodurranno i materiali urbani del recente passato in un nuovo palinsesto urbano. Nell'Italia del 2050 il consumo di suolo non sembra essere un problema ma per motivi diversi di quelli di Vema, non è di suolo che avremo necessità (6) ma di tempo, di informazioni, di flussi, di energie. Saremo sempre svegli più o meno. Nell'Italia del 2026 di reti immateriali non si parla. Vema si colloca piuttosto all'incrocio fisico tra due grandi corridoi ferroviari europei (Lisbona-Kiev e Berlino-Palermo), è lambita da una strada di grande percorrenza e in città non sembrano esserci sensori, telecamere, piazze telematiche, coltivazioni idroponiche in remoto, ecc. Nell'Italia del 2050 la rete è ovunque, la connessione è continua e diffusa, la politica si attuerà nelle piazze tramite le forme virtuali di partecipazione, le decisioni pubbliche potranno essere discusse in maniera diffusa e popolare. Nell'Italia del 2026 i progetti si chiamano "Gli orti dell'ozio creativo", "La città / fabbrica", "Insieme vuoto", "Paesaggio sonoro". Nell'Italia del 2050 i progetti si chiamano "Arch_Temp Open 24 Hours", "New Eden Utopia", "Esperia15", "P2P Energy". L'architetto di Vema sembra avere in prevalenza committenti pubblici, partecipi delle scelte architettoniche, di grande levatura culturale, consapevoli della necessità e dell'opportunità che l'architettura partecipi alla costruzione della città. L'architetto del 2050 non è necessariamente un architetto, è un morfologo, uno che progetta esperienze, che lavora su quattro dimensioni e non si preoccupa tanto della forma del suo committente che di volta in volta può essere lui stesso, la comunità, la rete, un gruppo virtuale di soggetti consolidato entro un social network. DUE SGUARDI SUL FUTURO. Se radicalizziamo queste differenze, le due compagini contribuiscono a costruire i punti estremi di un ventaglio di atteggiamenti molto vario. Da un lato l'architetto è colui che progetta e realizza manufatti, "soluzioni esemplari dal punto di vista tipologico e linguistico" (7), l'architettura è lo scenario e la premessa della vita collettiva. Intorno a essa, con dinamiche autonome e differenti, si sviluppano i processi evolutivi della società: si modificano i modi di produrre e di consumare, si articolano le modalità abitative, le forme di fruizione dello spazio comune, le pratiche individuali e quelle collettive. A Vema l'architettura è imprescindibile. All'estremo opposto, un atteggiamento che differisce alle nuove tecnologie una prospettiva concreta di futuro. Le nuove tecnologie hanno un ruolo di supplenza per la risoluzione di problemi antichi. Nella scia dell'innovazione tecnologica e dei suoi moti accelerati, l'architettura si insinua come un dispositivo leggero e cangiante, che ha nuovi obiettivi: creare "opere imperfette, pensanti, generose, epiche, capaci di aprire prospettive inattese, che non siano semplicemente al servizio di un presente che è già passato". (8) Nel 2050 l'architettura è imprevedibile. Se davvero, come a me pare, si tratta di posizioni estreme che configurano i punti di massima estensione di un ventaglio che vede nel mezzo innumerevoli declinazioni, è possibile però sintetizzare un atteggiamento che, nelle due compagini, appare comune. C'è alla base di entrambi gli sguardi un'idea di fuga, fuga soprattutto da un presente difficile, dalla impossibilità di vedere il futuro a breve e medio termine. È diversa la natura di questa fuga, ma entrambi gli schieramenti sembrano vivere nell'affanno di una via di fuga che si delinea mentre si percorre la direzione stessa. Il senso di questa fuga deriva dalla percezione che niente sarà più come prima, che definitivamente l'architettura è uscita dal discorso pubblico o che, se vi rimane, è dei suoi simulacri che si parla: le costose opere delle archistar, gli scandali delle grandi opere, l'architetto che regala le idee alla città e questa le rifiuta o non le comprende. I Vemiani asserragliati nei loro 800 ettari di pianura padana assomigliano ai protagonisti di Fahrenheit 451 che, nascosti nella selva, ripetono ognuno a memoria un libro diverso per salvarlo dall'oblio e dalla distruzione imposta dalla polizia di un futuro governo autocratico. Vema appare una città in esilio, non aspira a redimere i territori disfatti da trenta o quarant'anni di sviluppo furioso e che oggi ci appare sterile e inadeguato. Vema, da questi territori, si distacca radicalmente, non ha nessuna ambizione di modificarli e, per non cadere in tentazione, non li avvicina. Non è chiaro se la proposta di Purini sia più un modello o una eccezione, se si tratti del germe di una nuova politica territoriale o di un esperimento che rimarrà a monito di quel che l'architettura potrebbe fare e di quello che, il più delle volte, le condizioni non le permettono di fare. Anche se è da sottolineare che Vema muove una dimensione quantitativa poco significativa. Prestinenza Puglisi, facendo riferimento alla contemporanea mostra principale curata da Richard Burdett, si chiede "che senso ha mostrare le metropoli di oltre tre milioni di abitanti e poi proporre la costruzione di una città come Vema che di abitanti a malapena ne fa trentamila?" (9). La fuga dei wirediani è piuttosto una sorta di Big Bang, che libera energie e creatività in molteplici direzioni. Non avere paura del futuro -il monito da cui è partita l'intuizione di Molinari- produce una generosa accettazione delle sue implicazioni, per come oggi riusciamo a scrutarle. Visitando le installazioni del 2050 mi tornava alla mente Vittorio Gregotti che, solitamente, di fronte alla controversa questione del futuro delle città in rapporto alle nuove forme di comunicazione virtuale, risponde puntualmente che, a suo tempo, la diffusione del telefono non ha modificato la città. Il disincanto di Gregotti non mi pare eccessivo rispetto alle visioni prodotte dai wirediani. Siamo proprio sicuri che la Rete cambierà così in profondità l'architettura? (10) Queste due esperienze ci richiamano anche però a uno dei compiti che l'architettura ha sempre svolto, quello di guardare a un futuro di lunga gittata. L'architettura, quando riesce a produrre sperimentazioni significative, proietta nel futuro nuove visioni durature. In questo, entrambi i padiglioni italiani analizzati, hanno l'indiscusso merito di ricordarci che, quando trattiamo di architettura, allunghiamo lo sguardo, lo costringiamo alla lungimiranza. Inoltre, entrambi, è questa è una cosa rilevante, hanno inteso la Biennale come l'occasione per produrre dei progetti e non per mostrarne di già noti. Però rimane il dubbio che le due strategie -quella di una città di nuova fondazione e quella di una città senza fondamenta- rispondano solo parzialmente alla domanda di futuro dell'ambiente costruito in Italia. A Vema si sta larghi, la densità abitativa è paragonabile a quella di Los Angeles, il contrasto alla diffusione enunciato nei propositi generali sembra, nei fatti, smentito. (11) Inoltre, il programma di una città come collezione di architetture sembra impedire il dispiegarsi di una architettura della città che sia riconoscibile e che utilizzi la forma come principio di identità. Vema sembra sacrificare ai suoi architetti ospiti l'ambizione a una forma propria e necessaria. Essa è irriconoscibile senza le architetture che ospita ma, quando queste si materializzano, Vema riduce la sua identità formale a una collezione di oggetti che sembrano, nel suo debole palinsesto urbano, esercizi individuali che non costruiscono tessuto né continuità, che si ostinano a stare separati anche quando sarebbe opportuno integrare le funzioni. Ogni architetto chiamato da Purini ha costruito una micro-città, ogni lotto si configura secondo un principio insediativo differente che potrebbe da solo produrre un'immagine della città del futuro. In qualche modo Vema rischia di riproporre, in forme alte, con architetture colte, un fenomeno che vediamo ogni giorno nelle parti recenti delle nostre città: l'affastellarsi di logiche insediative e scale differenti che si pongono fianco a fianco, con interventi incuranti delle relazioni con le altre parti, ognuno teso a disegnare un mondo che ostenta nessuna necessità di relazione con l'intorno. L'altro futuro dell'architettura italiana, quello del 2050, emerge piuttosto come un insieme di scene urbane, come frammenti di un racconto più ampio e condiviso. Alla forma della collezione di Vema, subentra la forma dell'antologia. Ogni immagine è un frammento qui, ma non così ridotto da non permettere di ricostruire l'intera esperienza urbana che ne deriverebbe. Il dialogo tra gli architetti e i ricercatori scelti da "Wired" vede spesso i primi sovradeterminare il significato dell'oggetto delle ricerche dei secondi. Questi infatti, più che raccontare il futuro, raccontano il presente della loro attività, dove frammenti di futuro, non ancora alla portata di tutti, sono già operativi. Le ricerche biomediche e quelle biomolecolari, le nanotecnologie e la fisica delle particelle, le ricerche sulle forme di interazione tra nuovi media, fanno tutte capo al mondo della tecnoscienza che è l'ambito dove il futuro si sperimenta in anticipo. In questi ambiti esso è già al lavoro, i ricercatori coinvolti sono drappelli in avanscoperta per conto dell'intera società. Ma è probabile che questo futuro che scorgiamo oggi sia già un dato di fatto e piuttosto stupisce che alcuni futuri già operativi e "presenti" non siano stati toccati, avendo anche un impatto sull'architettura potenzialmente significativo. (12) ARCHITETTURE MINIATURIZZATE. Vorrei provare a guardare al futuro a partire dal presente che la Biennale del 2010 ha restituito nel Padiglione Italiano, all'interno della sezione denominata Laboratorio Italia. Molinari ha avuto più occasioni di costruire grandi e piccole foto di gruppo dell'architettura italiana negli ultimi quindici anni. (13) L'entusiasmo e l'ottimismo delle prime foto di gruppo appare un po' attenuato oggi. Ailati sembra muovere dall'assunto che, gli anni appena trascorsi, se pure hanno visto grandi energie e importanti riflessioni dispiegarsi, non hanno risparmiato all'architettura italiana di svolgere un ruolo secondario nel panorama internazionale. Quello che colpisce di questa nuova foto di gruppo realizzata da Molinari è la rilevante preponderanza di architetture di piccola dimensione. Ailati, oltre a affermare una condizione di marginalità in termini culturali e di presenza nel dibattito internazionale, ritrae l'Italia come un Paese dove l'architettura si sta miniaturizzando, distribuendosi nel territorio con piccoli fatti urbani che respirano faticosamente nel magma edilizio in continua espansione, un magma che ormai sembra riprodursi per energie interne proprie, anche al di là delle effettive domande del mercato. L'immagine dell'architettura italiana che ne deriva è quella di una manifestazione saltuaria, distribuita negli angoli, nelle pieghe, nei pochi spazi disponibili. Troppo piccole per essere esempi, troppo distanziate per creare continuità, troppo episodiche per modificare ambiti territoriali complessi, le architetture che fotografano l'Italia attuale sembrano caratterizzarsi per la loro solitudine. Nella rassegna dei progetti del Padiglione Italiano della 12.a Biennale, al di là delle scelte sui singoli nomi su cui pure c'è stato un acceso dibattito, c'è uno sguardo coraggioso ma senza alternative. Forse, anche scegliendo altri nomi e altri progetti, anche percorrendo altre strade, l'Italia che ne sarebbe emersa sarebbe comunque stata quella rappresentata a Venezia. Il paesaggio che ospita queste miniature non sembra assumere valore da quello delle singole architetture; esse ci appaiono tutte isolate, incapaci di incidere, per cause diverse forse, ma sicuramente anche perché si tratta di interventi minuti, costretti. Piccole reazioni a un quadro volgare e insensibile. La loro scala denuncia immediatamente questa incisività limitata: l'ampliamento di una scuola media, uno skate park ricavato sul tetto di una centrale di cogenerazione, la biblioteca di una piccola comunità, un intervento per 12 alloggi popolari, il municipio di un piccolo centro, un polo tecnologico compattato in un singolo edificio. Spesso si tratta di ampliamenti, recuperi, estensioni, sovracostruzioni. Le nuove architetture crescono all'ombra di edifici esistenti, ne sono l'aggiornamento alla condizione attuale, prima ancora che la messa alla prova di un nuovo principio fondativo. Forse è la nemesi della realtà rispetto a una scelta compiuta dai curatori, quella di rinunciare a mettere in mostra le "villette" considerate una delle grandi cause dell'immenso consumo di suolo che ha caratterizzato gli ultimi anni di sviluppo urbano nel nostro Paese. (14) Ma rifiutando le "villette", non si è riusciti a lasciare fuori dalla Biennale gli effetti del principio epidemico di miniaturizzazione che la casa unifamiliare su lotto ha rilasciato, negli ultimi decenni, nella costruzione del territorio italiano. Se escludiamo gli interventi legati alle grandi macchine del commercio e del tempo libero, tutto il resto ha subito l'effetto di una potente riduzione dimensionale. Dall'intervento pubblico per l'edilizia sociale e per i servizi all'intervento privato, è la dimensione micro che ha trionfato e continua a tenere il campo, consolidando alcuni dei peggiori caratteri della costruzione del territorio italiano: il "pluralismo" incontrollato dei linguaggi architettonici, le forme abusive di intervento, la riduzione della dimensione media delle imprese di costruzione, l'impossibilità di costruire dei modelli di riferimento duraturi, la difficoltà di riconoscere legittimità alla folla di soggetti che portano istanze di trasformazione nella costruzione delle politiche di pianificazione. Mai il disegno di un territorio così ampio è stato messo nelle mani di così tanti soggetti. (15) Così la rassegna dell'architettura italiana della 12.a Biennale appare come un catalogo di cose ben fatte, sofisticate, autorevoli, ma che assumono pienamente la dimensione dell'intervento medio nella costruzione del territorio contemporaneo in Italia. (16) Con la miniaturizzazione è più difficile proporre modelli nuovi e alternativi, tornare a dialogare con il territorio, assumere le istanze di un uso corretto delle fonti energetiche, ottimizzare gli investimenti per le infrastrutture. Certamente mancano le occasioni: le opportunità di intervento pubblico e privato che muovano una scala ampia o che, molto più semplicemente, al di là della effettiva scala dimensionale, è alla scala ampia che cercano di allargare l'influenza dell'intervento, sono rarissime e spesso naufragano prima di vedere la realizzazione. Ma gli ultimi vent'anni hanno coltivato una pratica dell'architettura che non ha sviluppato grande tensione verso interventi ambiziosi, con programmi di modificazione del territorio capaci di giocare su piani differenti da quello dell'immediato intorno. La visione territoriale dell'architettura -che non vuol dire architetture di scala territoriale ma architetture alla scala delle dinamiche del territorio- è praticamente scomparsa, dopo essere stata uno dei grandi motori dell'innovazione e della sperimentazione dell'architettura italiana fino a pochi anni fa. E anche della centralità del nostro contributo nel dibattito internazionale. LA PROSSIMA ITALIA. L'architettura italiana nel futuro dovrà scegliere di concentrarsi su alcune questioni specifiche e strategiche e per farlo dovrà anche, in parte, ridisegnare alcuni strumenti e alcune modalità di osservazione della società. Sono molte le dinamiche che sappiamo, con ragionevole certezza, influenzeranno lo sviluppo della città e del territorio nei prossimi anni. Il solo elencarle ci pone in una condizione di vertigine e di incapacità di capire attraverso quali strumenti e procedure potremmo trattarle anche solo limitatamente al campo che riguarda l'architettura e la città. A me sembra però che sia possibile provare a capire quali, tra queste dinamiche, saranno quelle rilevanti, quelle che tireranno le fila, quelle entro le quali organizzare gerarchicamente tutte le altre che, delle prime, saranno esiti, varianti, conseguenze, declinazioni. In quest'ottica, se guardiamo a un futuro prossimo, la città e il territorio italiano, saranno investiti da almeno tre grandi processi che hanno le loro radici nei comportamenti e nelle scelte di parti aggregate di società ma che avranno un effetto e svilupperanno delle potenzialità per il progetto di architettura. Il primo processo riguarda lo spopolamento di alcune grandi porzioni di territorio italiano. È già in corso un processo di esaurimento di efficacia di molte strutture urbane e territoriali. Soprattutto nel sud del Paese -con inquietanti anticipazioni nelle aree collinari e appenniniche- gli italiani si riposizioneranno nel territorio. In pochi anni assisteremo a un graduale ribilanciamento dei pesi insediativi, al crescere delle aree urbane più mature e infrastrutturate e allo spegnersi di grandi parti di territorio dove non sarà più conveniente, interessante e divertente abitare e lavorare. La sfida di questa prima dinamica non sta solo nel produrre visioni di come le città investite dallo spostamento di popolazioni andranno a attrezzarsi per ospitare i nuovi abitanti e di come la crescita di densità delle città produrrà nuove domande all'architettura. La sfida sta anche nello spazio vuoto -immenso, abbandonato, sguarnito- che questa dinamica creerà. Interi territori presidiati da generazioni vedranno esaurire la presenza e la cura dell'uomo, i già gravi problemi idrogeologici di gran parte del nostro territorio saranno accresciuti da questa diversa distribuzione della popolazione. Il nostro lavoro dovrà attrezzarsi per affrontare una risorsa inaspettata e insidiosa, come trattare questi territori? Con quali risorse? Con quali forme di disegno e quali dispositivi di architettura? E come riusciremo a far diventare utili a un disegno collettivo questi residui? L'Italia si restringerà semplificando la sua struttura insediativa, questa appare oggi troppo complessa e variegata per rispondere ad alcune delle domande dell'abitare contemporaneo. Dobbiamo fin d'ora riflettere su come questa semplificazione della struttura insediativa sul territorio potrà aprire nuove opportunità proprio a partire dagli ambiti in corso di abbandono, dai margini che tenderanno a essere lasciati indietro. Essi saranno in qualche modo disponibili al progetto, anche se poveri di risorse e di attenzione delle politiche pubbliche e degli interessi privati. Si tratterà di confrontarsi con aree agricole e naturali abbandonate, con patrimoni edilizi fragili e precari, difficili da raggiungere. Una rilevante porzione di Italia si "raffredderà", smetterà di essere abitata sia stabilmente sia in maniera intermittente a fini turistici. Questo spazio freddo, disabitato, esteso, impervio, fornirà al progetto di architettura il campo di una sfida interessante e difficile. (17) Il secondo processo è relativo all'improvviso invecchiamento di una parte rilevante del patrimonio pubblico che costruisce la dimensione collettiva e di servizio delle nostre città e, nelle reti infrastrutturali, anche del territorio. Le grandi stagioni di costruzione del patrimonio pubblico del passato, quella fascista e quella degli anni Sessanta-Settanta, vedono oggi invecchiati e inadeguati i manufatti prodotti allora, senza che all'orizzonte si scorga una stagione di nuovi investimenti. In realtà, negli ultimi anni, abbiamo assistito alla sperimentazione di un modello di costruzione del patrimonio pubblico che è sostanzialmente fallito. Dalla metà degli anni Ottanta, si è tentato in più modi di intrecciare dei patti tra pubblico e privato che potessero, nella scia di grandi e piccoli investimenti privati, garantire alla città e ai suoi abitanti opere pubbliche significative. Questa stagione sembra ormai esaurita senza aver prodotto modelli significativi, i pochi casi di successo rappresentano piuttosto delle eccezioni singolari e irripetute. Il sostanziale fallimento di questo patto, acuito dalla condizione attuale di crisi, è tanto più traumatico perché all'orizzonte non c'è un nuovo modello sostitutivo. Pubblico e privato torneranno nel loro alveo a breve. Il matrimonio non ha funzionato. Semmai, a seconda delle occasioni, il privato si assumerà un ruolo pubblico e altrettanto farà il pubblico mettendosi sul mercato e agendo come un privato. (18) Nei prossimi anni non sarà più la forma del patto a mettere in relazione queste due entità ma piuttosto la forma di uno scambio dei ruoli a seconda delle occasioni, delle necessità e delle opportunità. Anche in questo caso si tratta di articolare uno scenario dove la riflessione sul progetto di architettura assuma la nuova geografia delle posizioni e la loro mutevolezza. Il terzo processo è quello che riguarda una forte e capillare ristrutturazione del settore del lavoro. È evidente che il nostro Paese sta cercando affannosamente una nuova dimensione stabile nel rapporto tra lavoro e territorio. Se la crisi della produzione aggregata all'inizio degli anni Ottanta aveva aperto improvvisi e immensi squarci nelle nostre città -ancora oggi in parte abbandonati, spesso a causa della loro smisuratezza rispetto alle nostre capacità di investimento e anche alle nostre capacità inventive- la recente crisi ha operato in maniera più diffusa sul territorio. I grandi squarci del passato, nella nuova condizione di crisi, hanno oggi la forma di un pulviscolo di suoli ed edifici abbandonati e repentinamente desueti, un altro caso di miniaturizzazione per certi versi. Ci sono immense porzioni di territorio ammalorate dalla porosità di micro attività che sono scomparse, mentre nuove forme di lavoro si stanno riposizionando ovunque, in modo discreto, capillare. Di queste nuove forme sappiamo poco, sono forme sociali nello spazio difficili da indagare, sfuggenti, agili e capaci di modificare la loro configurazione in tempi brevi. Ma è certo che quello della produzione -in forme nuove, rarefatte, cangianti- è una delle grandi questioni che l'architettura deve affrontare. Le nostre città, con la loro obsolescenza, con le loro inerzie e le loro disfunzionalità, sono state un elemento di attrito allo sviluppo economico. Non è facile trasformare questa impressione in dato, ma è certo che l'indotto delle attività produttive sulla forma della città -muoversi e muovere le merci, accedere ai servizi, riposare e godere del tempo libero ecc.- rappresenta uno dei grandi problemi irrisolti. Che le forme del lavoro e della produzione -di beni e di servizi- siano oggi più complicate da inquadrare è ovvio, ma è anche certo che la riflessione sulla città e l'architettura non ha sviluppato molti sforzi analitici e progettuali in questo senso. Può darsi che ci siano altre dinamiche che possono essere affiancate a queste o che possono addirittura avere valenze superiori e scardinare il quadro che propongo. Si tratta di processi relativamente indipendenti ma ognuno capace di inquadrare nuovi campi problematici. Il riposizionarsi sul territorio degli abitanti, l'inadeguatezza dell'armatura pubblica dei servizi e la radicale trasformazione delle forme del lavoro, sono tre processi che hanno alcuni elementi di autonomia e interdipendenza e che continuamente scuotono il territorio, che ricorsivamente ne indicano potenzialità e crisi, che pongono alle nostre città domande imbarazzanti che l'architettura dovrebbe saper cogliere e trattare. Le tre grandi questioni che pongo all'attenzione del dibattito sono, a mio avviso, questioni strutturali. La loro valenza strutturale deriva, in primo luogo, dal fatto che, se pure con declinazioni diverse, esse riguardano tutto il nostro territorio. Si tratta infatti di tre grandi problemi nazionali, da affrontare e declinare diversamente nelle varie condizioni sociali e territoriali. In secondo luogo sono grandi questioni strettamente legate al progetto di architettura, alla sua capacità di innovare e produrre nuove forme di intervento, attraverso la sintesi e l'inclusività che la pratica del progetto mette in gioco. Infine, in terzo luogo, sono ambiti nei quali è la dimensione territoriale a prevalere, dove qualsiasi nuovo intervento, anche di piccola scala, dovrà misurarsi con un'idea di territorio. È nel cono d'ombra che queste tre questioni proiettano che bisogna calare tutte gli altri temi che concentrano la riflessione di molti architetti: le nuove forme dell'abitare, la sostenibilità, la riduzione dei costi di costruzione, il rapporto tra paesaggio e infrastrutture. Alla luce di questo, l'architettura italiana dovrebbe tornare a guardare al territorio come una dimensione di intervento che le sia familiare. Il che non significa, deduttivamente, che una visione territoriale richiami immediatamente una architettura a grande scala. È possibile lavorare anche con la miniaturizzazione, con la dispersione, con una teoria di interventi minuti. È possibile lavorare "con quello che c'è", ma attraverso uno sforzo di focalizzazione differente, che implica una capacità di interferenza con dinamiche che, lasciate sole, hanno prodotto territori esausti, dove è difficile ormai fare tutto, lavorare, abitare, muoversi, divertirsi. A testimoniare di questo ridotto raggio d'azione dell'architettura contemporanea in Italia è anche la modalità attraverso la quale i nuovi manufatti vengono raccontati sulle riviste e in Rete. La rappresentazione fotografica tende a isolarli dal contesto, la rappresentazione planimetrica è limitata al perimetro dell'intervento e non dà conto se non di un intorno limitato, senza allargare lo sguardo sul contesto prossimo. Viene spesso voglia di sapere cosa c'è intorno, di capire come la qualità che riconosciamo a questi progetti si relaziona con il resto, di indovinare se la loro presenza potrà contribuire a modificare il senso e il valore di porzioni di territorio, se potrà interferire sulle dinamiche che stanno facendo della città contemporanea un luogo spesso noioso e prevedibile. Le modalità di rappresentazione tradiscono piuttosto una tensione verso edifici che non ambiscono ad altro che di essere apprezzati per se stessi, che spesso si rifugiano nell'introversione, che costringono il nostro sguardo entro una visione ristretta, che non sembrano, loro stessi per primi, credere che nella dimensione urbana e territoriale si possano ancora trovare ragioni, spunti, energie, relazioni significative. Ma questa introversione volontaria sta condannando ai margini la nostra architettura tanto quanto i grandi e storici ostacoli che tutti sperimentiamo di continuo: la scarsa attenzione dei decisori pubblici all'architettura o l'assenza di una politica dei concorsi efficace e estesa. (19) Il rischio è quello di una condanna che l'architettura italiana sta scegliendo volontariamente, come un gesto finale che riduce le ambizioni per ridurre i rischi e mantenere una condizione di precario equilibrio. In questa situazione, il problema non è tanto che nel 2050 "probabilmente, non si sentirà più bisogno dell'architettura". (20) Ma piuttosto che le dinamiche di costruzione del territorio si libereranno definitivamente dello strumento del progetto di architettura per gestire la loro evoluzione. Questa evoluzione proseguirà, come sempre metterà in scena conflitti e contraddizioni, farà emergere risorse, ma estrometterà definitivamente dalla scena l'architettura. Saranno altre le discipline interrogate, saranno altre le pratiche coinvolte, con tecniche capaci di garantire efficacia e prontezza. L'architettura rischia di sparire definitivamente non tanto dall'orizzonte costruito, dove troverà comunque appigli e nicchie, ma di rimanere ai margini del novero delle discipline che hanno voce in capitolo nell'ambito delle scelte collettive sulla città e sul territorio. Negli ultimi venti anni è alla grande scala che è "accaduto" il nuovo se pure, principalmente, attraverso la ripetizione di modelli di intervento miniaturizzati. Il consumo di territorio è stato il grande protagonista, il consumo di suolo è l'esito indiretto e tragico di questa dinamica, ma è il territorio il vero patrimonio che abbiamo utilizzato male. Ma è a questa scala che vediamo dispiegarsi ancora grandi energie e forme di innovazione. Può anche essere che un eccesso di descrizione abbia accompagnato la pratica del progetto di architettura negli ultimi anni (21), ma da queste descrizioni abbiamo preso le misure di quanto sia oggi disaggregata la domanda di territorio e il nostro sforzo dovrebbe essere quello di provare a ricompattarla. Le descrizioni hanno sostituito i dati statistici, hanno dato immagine alle consistenze dei numeri, alle retoriche del "fabbisogno", hanno provato a capire come tanto sforzo di "programmazione" degli anni scorsi si sia arenato nelle procedure e nella "fattibilità". Hanno modificato, in sostanza, l'oggetto di cui parliamo: non più territori astratti ma forme concrete abitate, spesso autorganizzate, capaci di reagire al mutamento o di esserne protagonisti. E pur nella loro occasionalità una cosa, queste descrizioni, ci hanno detto chiaramente degli ultimi anni e del nostro paesaggio: che ci sono comunità ampie, organizzate, capaci di azione e di investimento simbolico e materiale. E che queste comunità hanno perseguito un'idea di sviluppo territoriale proprio nel vuoto della riflessione efficace degli architetti, iniziando a produrre un nuovo immaginario architettonico, e un paesaggio inedito, che in parte ha sfruttato un palinsesto territoriale esistente ma, in qualche caso, in maniera così intensa da snaturarlo e modificarne il senso. Il paesaggio contemporaneo italiano è oggi anche il frutto di questo distacco da esso della nostra riflessione. Sarebbe il caso di ritornare, nel costruire le nostre piccole e necessarie architetture, a guardarci attorno. Giovanni La Varra g.lavarra@barrecaelavarra.it |
[24 aprile 2011] |
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NOTE: 1. Franco Purini ha curato il progetto di Vema insieme a Nicola Marzot, Margherita Petranzan e Livio Sacchi. Il commissario del Padiglione Italiano era Pio Baldi. I materiali del progetto sono rintracciabili in www.vemacittapossibile.it. 2. Giovanni Corbellini, Siamo diversi... ma siamo uguali. Il Padiglione Italiano alla 10.a Biennale Architettura di Venezia, "arch'it", 24 ottobre 2006, www.architettura.it/files/20061024. 3. Luca Molinari, "An Italian Manifesto. Italia 2050", in id., a cura di, Ailati. Riflessi dal futuro. 12.a Mostra Internazionale di Architettura, Skira, Milano 2010. 4. Franco Purini, "Italia-y-2026. Invito a Vema", in Città. Architettura e società, La Biennale di Venezia, Catalogo della 10.a Mostra Internazionale di Architettura, Vol. II, Marsilio, Venezia, 2006. 5. Giovanni De Luna, "Perché non dobbiamo avere paura?", in Luca Molinari, a cura di, Ailati, cit. 6. Anche se, in maniera differente, sia Metrogramma (con Gianni Biondillo), sia MARC (con Nico Vascellari), mettono al centro della loro riflessione la questione del consumo di suolo e la necessità di pensare a forme e dispositivi che sviluppino dei modelli in controtendenza con la situazione attuale. 7. Franco Purini, "Italia-y-2026. Invito a Vema", in Città. Architettura e società, cit. 8. Luca Molinari, "An Italian Manifesto. Italia 2050", in id., a cura di, Ailati, cit. 9. Luigi Prestinenza Puglisi, "Ancora su Vema", www.prestinenza.it/articolo.aspx?id=283. Lo scambio tra Purini e Prestinenza Puglisi è riportato su "l'Arca", n. 219 (ottobre 2006) e n. 221 (gennaio 2007). 10. È una domanda legittima anche in relazione al fatto che uno dei progetti presentati, quello di ma0 (con Marzia Lazzarini), propone, differenziandosi da tutti gli altri, un lavoro sulla memoria e invita a scegliere "cosa salvare della nostra tradizione urbana". Attraverso un sito Internet (www.saveit.it), che è parte integrante del progetto espositivo, ma0 chiede di segnalare una serie di luoghi "che abbiamo perso e dimenticato (...) di questo nostro paese pieno di contraddizioni". A tutt'oggi il sito ha raccolto tre segnalazioni, nessuna delle quali relativa a uno spazio urbano italiano. La comunità della Rete, in questo caso, non sembra aver espresso tutte le sue potenzialità. 11. È una osservazione che riprendo da Giovanni Corbellini nell'articolo già richiamato. L'articolo di Corbellini è uno dei contributi critici più strutturati attorno a Vema. 12. Tra le varie discipline selezionate per accompagnare gli architetti a guardare il futuro, non c'è nessun esperto di robotica, una realtà significativa e, in parte, già diffusa che, nei prossimi anni, cambierà nel profondo, ma non in maniera evidente e spettacolare, la costruzione dello spazio architettonico. Macchine intelligenti e sostitutive del lavoro pesante dell'uomo, sono già all'opera negli ospedali, nei centri logistici, negli spazi produttivi. Le prime sperimentazioni di uso della robotica hanno già superato la fase pionieristica, sono una realtà tangibile e nascosta. Fra tre anni, i degenti di una camera del Nuovo Policlinico di Milano, a due passi dalla sede quattrocentesca dell'ospedale del Filarete, non immagineranno che a gestire la distribuzione dei pasti e delle medicine ai vari piani sarà una piccola piattaforma intelligente su ruote, che conosce l'edificio e che si muove in esso con sicurezza. Ma anche questo non cambierà le domande che ci facciamo quando disegniamo un ospedale, che sono forse le stesse del Filarete. Cosa voglio che veda il paziente dalla finestra? E come organizzo lo spazio delle sue relazioni all'interno dell'ospedale? E il paziente, di questi piccoli aiutanti elettronici, potrebbe anche non sapere, essi si muoveranno nelle viscere dell'ospedale e contribuiranno, semmai, a ridurre il numero di persone coinvolte in lavori poco qualificanti. 13. I principali precedenti sono il numero monografico di "Archis" n. 7, 1999 (con Mirko Zardini) dedicato all'architettura italiana contemporanea; Arquitectura Italiana del posguerra / Post war Italian architecture, "2G", n. 15, 2000 (con Paolo Scrivano) e Italian Metamorph, "A+U", Tokyo, 2005. A questi vanno aggiunti un numero significativo di esposizioni e mostre, spesso orientate a raccontare lo stato delle cose dell'architettura contemporanea in Italia. 14. "Volutamente non abbiamo selezionato alcun progetto di villa unifamiliare (tipologia su cui molti bravi architetti si esercitano abitualmente) perché rappresenta un modello insediativo da combattere, in quanto forma più avanzata di consumo estremo di territorio", Luca Molinari, "Laboratorio Italia", in id., a cura di, Ailati. Riflessi dal futuro. 12.a Mostra Internazionale di Architettura, Skira, Milano 2010. 15. È una questione che nel catalogo della 12.a Biennale di Architettura viene affrontata da Lucia Tozzi, "Proprietari" e Fabrizia Ippolito, "Rumore di fondo" in Luca Molinari, a cura di, Ailati, cit. 16. Andrea Boschetti ha recentemente svolto un ragionamento che può essere utile leggere in parallelo alle mie affermazioni. Andrea Boschetti, "L'architettura italiana di domani tra normalità e cospirazione", in Luca Paschini, a cura di, Progetti di giovani architetti italiani, Utet, Torino, 2010. 17. Il "Rapporto sull'Italia del disagio insediativi 1996-2016. Eccellenze e Ghost Town nell'Italia dei piccoli comuni", a cura di Serico-Gruppo Cresme, promosso da Confcommercio e Legambiente e pubblicato nel 2008, riporta tra l'altro che si tratta di "un fenomeno che da territori marginali o marginalizzati di piccola dimensione si estende a territori di più ampie dimensioni a causa di diverse criticità, in particolare quella legata alla popolazione residente: non sono più solo i piccoli comuni ad essere a rischio disagio insediativo, ma oltre la metà dei comuni italiani con meno di 10.000 abitanti. È un disagio che si allarga e che si estende, visto che nel 1996 i comuni in disagio erano 2.830 con una superficie di circa 100.000 kmq e una popolazione di 5 milioni di abitanti" e che il fenomeno "secondo proiezioni indicative, sembra crescere nel tempo, poiché in assenza di interventi potrebbe interessare fino a 4.395 comuni nel 2016, con 158 mila kmq e 14,1 milioni di abitanti coinvolti (un quarto della popolazione nazionale)". Il rapporto è consultabile presso www.confcommercio.it/home/ArchivioGi/2008/Varie/rapporto-integrale.pdf. 18. Come è noto, l'Expo 2015 si realizzerà a Milano. Si tratta di una grande manifestazione principalmente promossa con soldi pubblici che si terrà su suoli privati, sulla base di uno scambio pubblico-privato la cui forma non è stata ancora definita. Le alternative principali oggetto di discussione vedono da un lato i fautori dell'acquisto delle aree da parte del pubblico e, dall'altro, i fautori della cessione temporanea in comodato d'uso dei terreni dove si svolgerà l'Expo 2105. Quale che sia la soluzione definitiva, la vicenda si presenta come un interessante caso che esemplifica alcuni dei nuovi processi in corso nella ridefinizione del rispettivo ruolo pubblico e privato nella costruzione della città. 19. Franco Purini ha recentemente pubblicato un quadro sintetico e articolato dello stato delle cose in Italia, con particolare attenzione alla giovane generazione di architetti. Franco Purini, "Scene di architettura delle ultime generazioni", in Luca Paschini, a cura di, Progetti di giovani architetti italiani, cit. 20. Luca Molinari, "An Italian Manifesto. Italia 2050", in id., a cura di, Ailati, cit. 21. È una critica che emerge tra l'altro in Pier Vittorio Aureli, Gabriele Mastrigli, Martino Tattara, Il progetto della città: critica, politica e architettura. Prime tesi, in "arch'it", 13 novembre 2008, www.architettura.it/files/20081113. |
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books consiglia: Franco Purini, Nicola Marzot, Livio Sacchi (a cura di) The newcity Italia-y-26 welcome to Vema. The italian pavilion at the 10th International architecture exhibition Compositori, 2006 pp. 512, € 70,00 acquista il libro online! |
Luca Molinari (a cura di) Ailati. 12.a biennale di architettura. Padiglione Italia. Riflessi dal futuro Skira, 2010 pp. 320, acquista il libro online! |
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