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  Lo stato dell'arte delle riviste italiane



 

Giovanni Damiani, nato a Trieste, vive e Venezia dove si è laureato allo IUAV con una tesi sulla rivista "Oppositions" e dove ha seguito il dottorato di Storia dell'architettura. Ha scritto libri tradotti in più lingue e partecipa attivamente al dibattito dalle pagine di diverse riviste italiane. Insegna Teorie del progetto contemporaneo a Trieste.

La chiusura della storica rivista "L'architettura, cronache e storia" fondata da Zevi offre l'occasione per porci il problema dello stato dell'arte delle riviste italiane. Le riviste sono un enorme patrimonio di storia e una solida tradizione che può essere lo specchio della situazione dell'architettura nel nostro Paese. Un paese che oscilla tra una crisi istituzionale e culturale probabilmente epocale e continui segnali di ripresa o, comunque, di vitalità. Di riviste l'Italia ne ha moltissime, probabilmente più di tutti gli altri Paesi del mondo messi assieme, e tutte sono importanti, tutte sono segni di una voglia di fare, di dire, del coraggio di esporsi e di rischiare pur di esprimersi. Abbiamo proposto due domande, una standard e una mirata, a una serie molto eterogenea di architetti, critici, storici, su sei riviste che ci sembrano emblematiche o perché sono le più famose (come "Casabella", "Domus" e la relativamente giovane, ma oramai solida "Area"), o perché rappresentano un modo di porsi particolare come "Gomorra" o un modo diverso di affrontare il formato editoriale, come nel caso de "Il Giornale dell'Architettura", oltre alla scomparsa "L'architettura, cronache e storia" che davvero ha segnato un'epoca straordinaria dell'architettura italiana e che già ci manca, perché forse ci manca proprio la vitalità intersecata alla profondità di pensiero che ha caratterizzato una stagione estremamente ricca per il nostro Paese, la nostra cultura e la nostra architettura.

Giovanni Damiani
gdamiani@architecture.it
[16feb2006]
     
  L'architettura, cronache e storia:
MADDALENA SCIMEMI
LUIGI PRESTINENZA PUGLISI
Area:
LEILA DI GANGI
FRANCESCO GAROFALO

Casabella:
PIPPO CIORRA
PIETRO VALLE
Domus:
LUKA SKANSI
GABRIELE MASTRIGLI
Il Giornale dell'architettura:
VALTER TRONCHIN
GIOVANNI VACCARINI
Gomorra:
MANUEL ORAZI
ROBERTO ZANCAN
 
   
  "L'architettura, cronache e storia"

MADDALENA SCIMEMI

Quale rapporto hai con la rivista "L'architettura, cronache e storia" e qual è il senso di una rivista oggi?

 
Maddalena Scimemi vive e lavora a Venezia. I suoi studi e le sue pubblicazioni si sono concentrati sull'architettura inglese e italiana del secondo dopoguerra e sulle residenze fortificate del Primo Cinquecento in Italia centrale.
Mi sono confrontata con la linea editoriale di Zevi per le mie ricerche su architetture inglesi e americane degli anni '60. Avendo poca dimestichezza con gli ultimi numeri della rivista, posso solo dire che il primo ventennio di "L'architettura" (circa tra il 1955-75) è stato per me una proficua fonte di informazioni. Grande spazio alle esperienze anglosassoni, molte pagine di fotografie (spesso con immagini straordinarie anche per i progetti italiani, come quelle di Paolo Monti), e sempre una voce significativa per parlare delle architetture pubblicate. Una linea editoriale che ha saputo sposare l'attualità delle "cronache" con la verità della "storia", alla quale ho spesso attinto ricorrendo in parallelo anche ai numeri di "Domus".

Sul senso di una rivista mi interrogo quotidianamente: siamo in un'era esuberante nella produzione di materiale iconografico, che ha provocato a sua volta un'insana produzione di parole, deputate alla descrizione di quelle immagini. Questa impennata di testate e di pagine scritte mi ha reso insofferente verso le riviste in generale, e approfitto qui per lodare il primo numero della neonata rivista "MARK", in cui ogni commento è ridotto al minimo e la linea editoriale si esprime con evidenza attraverso i progetti pubblicati.

La chiusura di "L'architettura, cronaca e storia" per molti era inevitabile, mancando la figura di Zevi, ma forse può essere anche lo specchio di una crisi del modello di rivista che assume una precisa linea direttrice. Secondo te in che stato di salute è il delicato rapporto tra Progetto e Storia?

Non sento minacciato il rapporto tra Progetto e Storia: la sua salute è buona quando i fattori di questa operazione sono buoni, quando è buona l'architettura e quando lo è anche la penna che la affronta. Una penna "buona" è quella di una voce libera di esprimersi con indipendenza, a costo di provocare la linea dell'editore e di non compiacere l'architetto che è ansioso di coronare il sogno di notorietà (una notorietà che –si badi bene– è per natura effimera, soprattutto se decretata dalle riviste). Una penna "buona" è quella di chi si documenta con serietà, portando a compimento un lavoro che deve essere rispettato e perciò retribuito. Una penna "buona" è quella che spinge ogni lettore a verificare assunti e interpretazioni, e che lo induce a riporre la rivista per andare a vedere quell'architettura con i propri occhi.
 
 
  "L'architettura, cronache e storia"

LUIGI PRESTINENZA PUGLISI

Quale rapporto hai con la rivista "L'architettura, cronache e storia" e qual è il senso di una rivista oggi?

 
Luigi Prestinenza Puglisi, critico di architettura. Insegna storia dell'architettura contemporanea a Roma.
Ho scritto qualche articolo per la rivista sia sotto la direzione di Bruno Zevi che sotto la direzione di Furio Colombo. A uno sulle Usonian di Wright e a uno -che si doveva pubblicare ma si è perso- su Chareau sono particolarmente legato perché hanno segnato l'inizio della mia attività di critico.

Qual è stato il rapporto tra Zevi e la rivista "L'architettura, cronache e storia"? E, siccome fai parte di chi sostiene la grande attualità di Zevi, mi piacerebbe che ripensassi tutto ciò sotto la possibile luce di una rivista zeviana oggi.

Credo che la rivista era una diretta emanazione del direttore Zevi, della sua straordinaria ma non facile personalità. Soprattutto negli ultimi anni, la rivista la comperavo a fatica e solo per leggere i pezzi del direttore. Per il resto era, per molti versi, l'opposto di ciò che mi sarebbe piaciuto trovare in una testata di architettura: nella scelta dei progetti, degli articoli, nella chiusura a punti di vista diversi da quelli del Professore, nell'impaginazione, nella grafica. Scherzosamente dicevo che era la più brutta rivista del mondo, riscattata solo dai fulminanti scritti di una delle migliori penne e intelligenze che abbiamo avuto. Un altro merito, per la verità, occorre riconoscerle. Era una delle poche riviste che pubblicava la "cronaca", ciò che nella pratica professionale si costruiva in Italia: progetti non stratosferici o da superstar ma dignitosi e degni di un minimo di attenzione. Adesso questo ruolo non lo svolge più nessuno, almeno sulla carta stampata.

Una rivista zeviana, dopo Zevi? Credo che sia un assurdo logico e storico, come il fallimento della nuova gestione della rivista dimostra. A mio avviso, bisognava avere il coraggio, dopo la morte di Zevi, di farne tutta un'altra cosa. La tradizione si può continuare solo a condizione di metterla costantemente in crisi: cosa che non si è fatto. E infatti la rivista dopo qualche tempo si è estinta, quasi di morte naturale. Era impossibile, del resto, gestire una rivista tagliata come un abito sulle misure di Zevi, senza Zevi. Inoltre, e questo ci tengo a sottolinearlo, non esiste, e per fortuna, una scuola zeviana, tanto più una che possa e voglia produrre un house organ della "corrente". Tutte le persone che si richiamano alla lezione del Professore hanno fisionomie e individualità diverse, a volte, e per fortuna, conflittuali.
 
     
  "Area"

LEILA DI GANGI

Quale rapporto hai con la rivista "Area" e qual è il senso di una rivista oggi?

 
Leila Di Gangi, architetto, laureata allo IUAV. Dopo alcune esperienze, tra cui il Berlage, ha aperto il proprio studio professionale. Da quest'anno lavora anche nella rete internazionale dell'Atelier Collaborative.
Le riviste le compro a numeri sciolti, o perché mi interessa qualche progetto o articolo particolare o per avere un panorama del dibattito, avere le annate complete sugli scaffali non mi ha mai detto molto, tanto più che uno dei vantaggi di avere lo studio a Venezia è che si può disporre delle biblioteche dello IUAV. Amo piuttosto trovare dei numeri vecchi e prendere più cose diverse per dare uno sguardo allargato.

Il senso di una rivista oggi è una domanda assai complessa, da un lato deve informare, dall'altro c'è bisogno anche di luoghi specialistici dove si possa fare dibattito. Una cosa che mi piacerebbe che ci fosse è una maggiore apertura al mondo di oggi, un maggior legame con la realtà. Troppo spesso passa questa idea che per occuparsi di architettura bisogna essere degli eroi mitologici, mentre io credo che sia un mestiere. Certamente un mestiere complesso e che richiede tanta passione e anche una preparazione più ampia di quella meramente tecnica, ma resta un mestiere e come tale andrebbe anche comunicato se si vuole avere un contatto con il mondo reale.

Se prendo un tecnico, ma anche un architetto che vuole "solo" costruire e fare la sua professione onestamente, noto che non legge di fatto nessuna rivista, al massimo arreda lo studio con gli abbonamenti. Ma non è colpa loro, troppo spesso le riviste sembrano voler volare sopra le teste delle persone normali e riferirsi solo ad un mondo di espertissimi intellettuali che al massimo poi si stupiscono di non avere peso nella società. Credo che sia un problema di atteggiamento perché in altri settori ci sono giornali, riviste e prodotti editoriali che riescono a dialogare (e quindi a progettare e interferire) con la realtà. Guarda, penso a una rivista come "Vogue" e... beh... credo che ci sarebbe molto da pensare e da imparare. Ovviamente adesso molti si diranno "ma come Vogue, non legge solo Hegel e sogna di montare facciate di materiali esoterici?", mentre io faccio architettura, lo penso un mestiere e cerco di farlo bene. Studio soluzioni, cerco di dare certezze di tempi e costi a chi investe sull'architettura e credo che da "Vogue" ci sia molto da imparare sia per quanto riguarda la qualità della produzione editoriale che per quello che riguarda lo scambio fecondo con la realtà che da un lato entra nella rivista e che, allo stesso tempo, dalla rivista esce influenzandolo. Ecco forse è questo che mi aspetto da una rivista alla fine.

Tra tutte le riviste italiane "Area" è quella che offre più spazio ai giovani progettisti italiani e cerca di portare avanti un discorso di qualità sul territorio del nostro Paese. Che uso fa di questo strumento uno studio italiano giovane che è attento alla ricerca, ma allo stesso tempo pare molto orientato alla libera professione?

"Area" è una di quelle che in studio entra, soprattutto i numeri monografici. E devo dire che l'apprezzo perché è versatile, più aperta di altre e aiuta a guardare cosa succede in Italia. Credo che il fatto che non abbia una linea tracciata con l'aratro sia un vantaggio, la rende flessibile e permette di vedere tante cose diverse. Il fatto che ci sia spazio per gli italiani emergenti è un bel segnale, non ho mai creduto alla difesa nazionale del prodotto e penso che oramai tutti si confrontano con tutti liberamente, ma vedere opere in Italia è interessante perché si può osservare come altri si confrontano con le nostre normative e con le nostre condizioni di lavoro.

Mi chiedi che uso facciamo in studio delle riviste? Se ci penso è cambiato in questi anni, all'inizio le usavo anche per progettare e per confrontarmi con le persone con cui capita di lavorare assieme, oggi le uso soprattutto per sapere cosa fanno gli altri e caso mai per mostrare ai clienti cosa gira nel mondo se devi convincerli su qualche soluzione particolare o per esplorare le loro richieste e il loro gusto. In fondo, per capire dove sto andando, continuo a studiare, a leggere e ridisegnare progetti, solo che lo faccio sempre più sui libri e parlando con architetti che hanno molta più esperienza di me con sempre meno interesse per le presunte novità del nostro tempo.
 
 
  "Area"

FRANCESCO GAROFALO

Quale rapporto hai con la rivista "Area" e qual è il senso di una rivista oggi?

 
Francesco Garofalo, architetto, lavora a Roma con Sharon Yoshie Miura. Dopo avere insegnato dal 1992 allo IUAV, è dal 1999 professore di progettazione della Facoltà di Architettura di Pescara.
Ho lo stesso rapporto con "Area" che con la maggior parte delle pubblicazioni che si accumulano nel mio studio: un rapporto ansioso. Le prendo, le sfoglio, leggo solo l'indispensabile, mi imprimo nella mente le immagini dei progetti. Poi le tengo lì sperando di guardarle una seconda volta, cosa che avviene solo quando devo fare un po' di ricerca. Il senso di una rivista è di competere con tutto il flusso di notizie e immagini che ti arriva addosso dal computer, dal televisore e dal telefono. Ormai ogni distinzione è saltata. Ci sono delle riviste diverse, come sono, o furono, "Lotus", "Log", "Daidalos", "ANY" ecc. che si collezionano perché prima o poi i testi che pubblicano tornano utili.

Nel dibattito di oggi quanto è importante lo strumento di comunicazione che una rivista offre? E, di conseguenza, come vedi il rapporto tra il progetto culturale della rivista e la ricerca portata avanti dallo studio Archea?

Le domande qui sono due. Alla prima rispondo proseguendo il ragionamento di sopra. "Area" è una rivista basata sul modello del mensile, anche se cerca di giustificare la sua diversa periodicità con un'accentuata tematizzazione. Il mensile è una formula in crisi sul mercato internazionale, che continua a prosperare solo in Italia. È un po' l'equivalente architettonico della TV generalista; stessa anomalia, stesso destino?

Quanto al rapporto Area-Archea, lo trovo inevitabile quanto problematico: so bene che ha degli illustri precedenti, come la "Domus" fatta da Gio Ponti, e la "Casabella" prodotta a via Bandello nello studio di Vittorio Gregotti, ma perché dobbiamo sempre guardare al passato? Archea avrà certamente un piano di lungo periodo per scrollarsi di dosso il sospetto di essere al vertice di una Spectre editoriale.
 
 
 

"Casabella"

PIPPO CIORRA

Quale rapporto hai con la rivista "Casabella" e qual è il senso di una rivista oggi?

 
Pippo Ciorra, architetto, insegna Composizione architettonica e Teoria dell'architettura nella Facoltà di Architettura di Ascoli Piceno. Scrive di architettura su "Il manifesto". Domanda difficile, con forti implicazioni personali, anche perché proprio oggi, dopo lunga assenza, mi sono messo a scrivere un articolo per "Casabella"... Comunque. Ho con "Casabella" un rapporto vagamente ambivalente. Da un lato ho un forte senso di appartenenza, dato che l'attuale gruppo dirigente della rivista è ancora in buona parte composto dalle stesse persone (amici veri) dai quali e con i quali fui coinvolto all'inizio della direzione di Francesco Dal Co, nel 1996. Allo stesso tempo non posso negare che a volte mi pare di avere con "Casabella" un rapporto che è per molti versi simile a quello che ho con le altre riviste di architettura italiana. Quando arrivano le lascio decantare sul tavolo vicino a quello a cui lavoro, per molto tempo non riesco ad avvicinarmi, rischio tranquillamente che vengano inghiottite dalla piccola massa di architetti più giovani e voraci che frequenta lo studio. Ho come paura a guardarci dentro, un po' come avviene da qualche anno con le pagine politiche dei quotidiani: temo che troverò cose che tutto sommato ho già visto in giro (le troppe altre riviste, il web, i magazine, il passaparola visivo degli architetti, il mediaworld internazionale dell'architettura) ho il terrore di trovare notizie che mi faranno soffrire o che dovrò disapprovare o che andrebbero discusse, quando so che poi non avrò la forza o la voglia di aprire la discussione. "Casabella" ovviamente è anche altro, la sapienza editoriale e non solo, i bellissimi saggi storici, le recensioni folgoranti, la grafica perfetta... comunque se proprio vuoi una specie di confessione eccola qua.

Sei da molti anni nel comitato di redazione di questa rivista, vorremmo capire che rapporto hai con la testata e cosa pensi di "Casabella" oggi. Ti chiedo questo alla luce del fatto che la tua generazione è entrata in redazione per dare giovane supporto e, dopo più di dieci anni, non colgo bene quale sia stato il vostro contributo (penso a te, Marco Biraghi, Alberto Ferlenga, per citare tre persone che stimo).

Beh un po' ti ho già risposto, un po' ti rispondi da solo, "entrammo in redazione (loro, io nel comitato editoriale) per dare giovane supporto" e questo abbiamo fatto (più o meno bene) in questi anni. Quando è diventato direttore di "Casabella", Francesco Dal Co aveva in mente un progetto editoriale molto chiaro. Lo illustrò, ci chiese di partecipare e chi di noi aveva voglia ha partecipato, ovviamente con fasi, frequenza e intensità diverse a seconda dei ruoli. A parte le differenze tra noi conoscevamo bene il progetto culturale di Francesco e sapevamo che c'era un ampio tratto di strada e alcuni obiettivi che potevamo condividere con lui. C'era da rimuovere molta zavorra dall'architettura italiana: il provincialismo, la chiusura all'esterno, la sciatteria critica, l'incapacità di misurarsi con la costruzione, l'accademismo e molti altre forme di ritardo che tutto sommato "Casabella" ha contribuito a combattere in questi anni. Detto questo, altra cosa sarebbe stato un progetto generazionale o una rivista dal forte taglio critico. Sapevamo dall'inizio che non poteva certo essere "Casabella" -Francesco è stato fin dall'inizio onesto e chiaro su questo- quindi se volevamo farla (e secondo me tutto sommato dovevamo farla) bisognava farla altrove. Non ne abbiamo avuto la forza o la capacità (a parte esperienze più di nicchia) e anche per questo siamo ancora oggi una generazione la cui voce è stranamente filtrata. Poi due anni fa Stefano Boeri è diventato direttore di "Domus", ma a quel punto forse era troppo tardi per parlare ancora di generazioni e per focalizzarsi su quel progetto culturale di rielaborazione del concetto di città che per un bel po' di tempo ha permesso di identificare un gruppo abbastanza omogeneo.
 
 
  "Casabella"

PIETRO VALLE

Quale rapporto hai con la rivista "Casabella" e qual è il senso di una rivista oggi?

 
Pietro Valle, architetto, insegna presso la Facoltà di Architettura di Ferrara. Lavora con Carlini e Valle Architetti Associati a Trieste e con lo Studio Valle Architetti Associati a Udine.
Ho scritto un paio di recensioni per "Casabella", conosco Dal Co e Mulazzani. Non la compro costantemente perché mi dà un po' fastidio il loro presentare edifici-oggetti astratti da un contesto urbanistico, storico e politico nonché la loro esterofilia. Il senso di una rivista dovrebbe essere sempre critico e dialettico rispetto al presente, mai illustrativo. Una rivista dovrebbe presentare la realtà in più modi diversi cercando di dare un senso alla complessità e non chiudersi in un formato riconoscibile, altrimenti diventa formula comunicativa, cliché mediatico. "Casabella" è un po' vittima di questa dimensione che condivide con altre riviste: la riconoscibilità diviene il suo limite. La proliferazione di immagini patinate, poi, rischia di uccidere il discorso critico.

Se concordi con l'idea che "Casabella" più di ogni altra rivista rappresenta l'istituzione e che Dal Co ha su questa linea molto insistito, mi piacerebbe chiederti quale rapporto ci può essere tra architettura e istituzioni in Italia.

L'istituzione non è solo una realtà esistente, il potere già prestabilito, davanti al quale ci si inchina. L'istituzione la si crea e con essa si costruisce consenso, seguito, potere. Un'istituzione la potremmo creare anche io e te: il problema è come la si gestisce. Una rivista come "Casabella" ha insistito sul potere mediatico dell'architettura come mezzo di promozione politico-istituzionale perché ha capito che con mostre, libri e biennali si poteva forse tentare di influenzare le istituzioni, i concorsi ecc. verso una certa promozione di un'architettura ritenuta di qualità. L'idea, di per sé, non è sbagliata, altrimenti permane la divisione tra cultura, informazione e potere politico. Che poi la cosa si sia trasformata in un esercizio di potere di parte, questo purtroppo è una contraddizione insita nell'operazione stessa. Secondo me le riviste dovrebbero cercare di influenzare il potere amministrativo con la loro promozione di progettisti, concorsi, recensioni di lavori pubblici, ecc. ma anche mantenere un margine dialettico di libertà critica nei confronti di esso. Come amministrare i confini tra autonomia e libertà, rimane poi scelta del direttore che decide le politiche editoriali ed è una questione che si decide caso per caso. Non esiste comunque, secondo me, autonomia della critica: siamo nel mondo e dal mondo siamo influenzati.
 
 
  "Domus"

LUKA SKANSI

Quale rapporto hai con la rivista "Domus" e qual è il senso di una rivista oggi?

 
Luka Skansi, laureato allo IUAV con una tesi sugli anni di formazione di Rem Koolhaas, è dottorando in Storia dell'architettura presso la SSAV di Venezia.

Per poter rispondere alla prima parte della domanda, per quello che mi riguarda va specificato il quadro cronologico. Considero "Domus" un grande patrimonio dell'editoria internazionale di architettura, arte e design ed è stata per me in diverse occasioni una delle fonti di indagine conoscitiva sui temi dei quali mi sono occupato nel recente passato. Se la domanda si riferisce invece al rapporto che ho con la "Domus" odierna devo ammettere che la sfoglio mensilmente, ma raramente ci trovo qualcosa da leggere. Atteggiamento che condivido tuttavia nei confronti della maggior parte delle riviste di architettura. Le sfoglio per la curiosità di sapere cosa avviene nel panorama nazionale o internazionale, ma non certo per trovare in esse particolari riflessioni critiche sullo stato della disciplina.

Con il post-SMLXL e l'esplosione dell'editoria architettonica nel corso della seconda metà degli anni Novanta credo sia diventato evidente che il ruolo, in qualche modo esclusivo, che avevano nella comunicazione del progetto architettonico le riviste, sia definitivamente tramontato. Per questo mi risulta anche più difficile rispondere alla seconda parte della domanda. Penso che ogni rivista possiede il proprio mercato e i propri obiettivi editoriali. Il senso di una rivista va quindi misurato in base alla fetta di mercato alla quale si desidera puntare e il pubblico con il quale si intende dialogare. Credo che non esista però un "senso di una rivista" in generale, poiché ciò che interessa gli architetti professionisti non necessariamente corrisponde a ciò che interessa gli studenti, gli ingegneri, l'accademia o i critici. Per affinità e interessi personali ho sempre consultato le riviste di teoria e critica (come lo erano nel recente passato "Assemblage" o "Any", o l'odierna "Oase"), o quelle che combinano le presentazioni di progetti con riflessioni più approfondite su precise tematiche attraverso saggi critici ("Daidalos", "Architektur Aktuell", "a+u"...).

"Domus" nella gestione Boeri ha spinto molto nel progetto politico e nell'indagine visuale, ti sappiamo un appassionato di tettonica e della costruzione logica dell'architettura (se mi lasci forzare la citazione da Grassi), per cui rappresenti bene quella parte di lettori potenzialmente molto distanti dalla "Domus" boeriana. Ci potresti dare una lettura personale della rivista?

[Non sono un appassionato di tettonica, né della costruzione logica dell'architettura, né di Grassi... e in un mondo che parla per etichette i termini che usi per classificarmi mi descrivono in maniera sufficientemente assurda da farmi apparire come un settantenne]

Non sono particolarmente interessato all'impostazione dei problemi della città e dell'architettura nella maniera con la quale vengono trattati dalla "Domus" odierna. Con ciò non voglio sostenere che il progetto di Boeri non sia valido ed interessante, è semplicemente lontano dal modo con il quale io vedo la disciplina. Non per celebrare posizioni nostalgiche, ma solo per dare il punto di riferimento per le mie considerazioni, ricordo l'ampiezza intellettuale e lo spessore culturale che hanno contraddistinto le riviste italiane nel passato, con caratteristiche spesso completamente diverse tra loro. Esse erano fenomeni italiani e rappresentavano un miraggio per tutta la cultura internazionale: oggi questo discorso mi sembra si sia completamente ribaltato.
 
 
  "Domus"

GABRIELE MASTRIGLI

Quale rapporto hai con la rivista "Domus" e qual è il senso di una rivista oggi?

 
Gabriele Mastrigli insegna Progettazione architettonica presso la Facoltà di Architettura di Ascoli Piceno. Scrive per le pagine culturali de "Il manifesto" e per il supplemento "Alias".
Seguo "Domus" sin dai tempi dell'università, e ne ho sempre apprezzato la capacità di alternare i punti di vista e gli sguardi sulle discipline dell'architettura, del design e dell'arte attraverso direzioni prestigiose ma mai troppo longeve (specialmente se le paragoniamo ai quattordici anni della "Casabella" di Vittorio Gregotti o alla pluridecennale "Lotus" di Pierluigi Nicolin). Tale strategia ha sempre consegnato a "Domus", più che ad altre riviste in Italia, il ruolo di testimone del proprio tempo, compresa la difficile gestione delle tendenze e delle mode che hanno caratterizzato l'intera stagione postmoderna tutt'altro che conclusa. Non trovo nulla di strano, dunque, nelle indiscrezioni filtrate nei giorni scorsi sulla possibile revoca del mandato del suo ultimo direttore, Stefano Boeri: sono a mio avviso niente più che il segnale di quel ricambio fisiologico inevitabile in una rivista con questa strategia editoriale.

Spazio di critica, vetrina o luogo di dibattito? A cosa serve una rivista oggi e come faresti tu una "Domus"?

Fare una rivista come "Domus" -ovvero una importante rivista internazionale costruita in uno dei centri nevralgici dell'editoria mondiale come è Milano- significa fatalmente fare innanzitutto informazione. Da questo punto di vista non ha sbagliato Stefano Boeri inserendo esplicitamente questo termine nel colophon della rivista all'esordio della sua direzione, nel gennaio 2004. La sua è stata la presa d'atto conclusiva di un processo avviato dieci anni fa, quando nel passaggio di consegne tra Vittorio Magnago Lampugnani e François Burkhardt, il sottotitolo di "Domus" è stato modificato emblematicamente da "Rivista Internazionale di Progetto" a "Architettura, Design, Arte e Comunicazione"; un cambiamento che voleva porre la rivista in una posizione di ascolto di fenomeni ritenuti irriducibili a qualsiasi dimensione univoca del progetto. Scriveva appunto Burkhardt nel suo primo editoriale: "occorre presentare la cultura in tutta la sua complessità pluralistica, accostandosi a prodotti e a opere diversi se non opposti tra loro. Oggi sappiamo infatti quanto il gioco dei contrari sia utile a promuovere quel superamento della normalità che è una delle mete prioritarie di questa rivista."

A dieci anni esatti da questa affermazione, in un mondo ormai brulicante di riviste, di siti web e di magazine generalisti costruiti in buona parte intorno allo stesso poker disciplinare offerto da "Domus" (Architettura, Design, Arte e Informazione), è chiaro che "il gioco dei contrari" di per sé non produce altro che proprio quella "normalità" da cui "Domus" voleva liberarsi: una normalità che si risolve nell'accumulo di dati, di informazioni, di descrizioni, di "indizi" che ci restituiscono l'incessante trasformazione delle cose intorno a noi ma spesso falliscono nello stabilire un rapporto di continuità tra i dati e le cose o gli eventi a cui essi si riferiscono. Per questo oggi una rivista deve innanzitutto aiutare il lettore a districarsi nell'eccesso di informazioni, ovvero offrire un punto di vista che si ponga criticamente di fronte all'inevitabile amalgama delle sfere disciplinari e dei loro prodotti. Ma fare una rivista non può tuttavia ridursi a liberare il discorso -quale esso sia- dai suoi argomenti parassitari. Significa soprattutto mettere a fuoco cosa sia possibile dire per mezzo dell'architettura -così come per mezzo del design o dell'arte- ovvero quale sia oggi il ruolo di queste pratiche intese nella loro dimensione teorica. Solo all'interno di una chiara visione dei propri scopi e delle possibilità dei propri discorsi sarà allora possibile individuare un tracciato, un tessuto teorico di riferimento, rispetto al quale la realtà e le pratiche che con essa si confrontano, trovino insieme il loro senso.

"Io so. Ma non ho le prove. Non ho nemmeno indizi. -diceva Pasolini scrivendo sul "Corriere della Sera" del ruolo dell'intellettuale nell'Italia dei primi anni Settanta- Io so perché sono un intellettuale, uno scrittore, che cerca di seguire tutto ciò che succede, di conoscere tutto ciò che se ne scrive, di immaginare tutto ciò che non si sa o che si tace; che coordina anche fatti lontani, che mette insieme i pezzi disorganizzati e frammentari di un intero coerente quadro politico, che ristabilisce la logica là dove sembrano regnare l'arbitarietà, la follia e il mistero. Tutto ciò fa parte del mio mestiere e dell'istinto del mio mestiere."
 
 
  "Il Giornale dell'Architettura"

VALTER TRONCHIN

Quale rapporto hai con "Il Giornale dell'Architettura" e qual è il senso di una rivista oggi?

 
Valter Tronchin, architetto, laureato allo IUAV ed attualmente professore a contratto nello stesso Istituto. Parallelamente all'attività professionale e didattica svolge attività artistica.
Proprio oggi ho comprato l'ultimo numero del "Giornale dell'Architettura" e, come si fa con i quotidiani, per ora mi sono limitato a leggerne solo i titoli per accelerare quella curiosità di sapere cosa è accaduto, chi scrive, quali pubblicazioni sono in uscita, e le ahimè sempre poco presenti critiche, aneddoti, curiosità che ci sono dietro le vite dei progetti, dei progettisti e dietro le quinte del grande teatro dei concorsi; di conseguenza posso dire che il mio è un rapporto che sta tra una rivista di architettura e un quotidiano che si fa leggere in un tempo più lungo. Purtroppo è da un po' di anni che gran parte delle riviste di architettura non propongono un taglio teorico o un indirizzo critico verso l'architettura contemporanea, e neanche delle riflessioni su un possibile filo rosso che tiene insieme un progetto a un fondamento teorico che deriva dal passato anche recente. Questo mi ha portato a non avere più un grande entusiasmo per l'acquisto sistematico delle riviste ma piuttosto a sfogliarle in biblioteca, a differenza invece del Giornale dell'Architettura che proprio per la sua "leggerezza" compero ogni mese. Infatti al carattere divulgativo e notiziario del giornale dell'architettura si dovrebbero affiancare, anche in opposizione tra loro, riviste che propongono un'idea di architettura e di città lasciando parlare le immagini dei progetti, gli scritti e interviste dei loro autori e, perché no, apparati culturali relativi a quelle scelte piuttosto che altre. In un periodo storico dove tutto è possibile e tutto è lecito, forse fondare le proprie scelte formali e farne strumento di comunicazione sia per la committenza che per la disciplina potrebbe diventare un buon inizio per minare un'architettura sempre più bidimensionale, mediatica e priva di fondamento.

"Il Giornale dell'Architettura" oltre che un prezioso e agile strumento di aggiornamento rappresenta anche un modo nuovo di impostare una rivista? Molti l'accusano di sembrare nuova, ma in realtà essere costruita sul modello della "Casabella" di Gregotti, solo in formato più leggero e di pronto uso.

Non credo sia un modo nuovo di impostare una rivista di architettura, né per i contenuti né per l'impostazione grafica, proprio perché è fondamentalmente un'altra cosa; credo comunque che dovrebbe essere più chiaro alla redazione del "Giornale dell'Architettura" a quale pubblico relazionarsi. La griglia grafica è chiaramente da quotidiano, e la cosa importante di un quotidiano è che viene letto da molta gente e di tutte le categorie, che per un giornale di architettura sarebbe una significativa ambizione, andando a coprire oggi un servizio importantissimo, quello di avvicinare il grande pubblico alla "Architettura della Città". Quindi se dovessi dare un consiglio alla redazione, rivedrei l'impostazione grafica mantenendo gli stessi contenuti di oggi, rivolti principalmente ad architetti e artisti, pensando ovviamente anche al giornale dell'arte; oppure, restando con una impostazione da quotidiano avvicinarsi di più al grande pubblico con tematiche meno specialistiche, destando comunque interesse anche agli addetti ai lavori. Non vedo affatto, proprio per le motivazioni sopra espresse, una relazione con la "Casabella" di Gregotti. Vorrei però far notare che quest'ultima rivista citata aveva comunque un taglio teorico chiaro, condivisibile o no, ma utile proprio perché prendeva delle posizioni sul fare Architettura, sulla tradizione delle riviste dirette da architetti impegnati anche professionalmente come Ernesto Nathan Rogers, Luigi Moretti per "Spazio", Gio Ponti per "Domus" ecc. ecc.
 
     
  "Il Giornale dell'Architettura"

GIOVANNI VACCARINI

Quale rapporto hai con "Il Giornale dell'Architettura" e qual è il senso di una rivista oggi?

 
Giovanni Vaccarini, architetto, si è laureato presso la Facoltà di Architettura di Pescara. Ha lavorato negli studi Aymonino Associati, Teprin e James Brown & Kim Storey Architects.
Sono uno degli abbonati al giornale di architettura. La formula mi sembra indovinata, registra un momento di trasformazione nella comunicazione dell'architettura: da un lato la comunicazione "istantanea" si è strutturata intorno ad una serie di siti di settore; da un altro le riviste "storiche" hanno perso il ruolo di arena del dibattito (dibattito che di fatto non esiste) abbandonandosi a una patinata (pornografica) rappresentazione di architetture di "scontato" successo di vendite (star system e dintorni). Le scelte di queste riviste sono spesso senza coraggio ed idee, anzi sottotraccia (o quasi) vi si rileggono le triangolazioni geopolitiche della nostra italietta. A mio avviso nemmeno la stessa "Domus" (seppur con una linea fuori dalle righe) è immune da questo difetto, probabilmente congenito all'intero sistema editoriale di settore.

Sul senso (oggi) di una rivista, la questione è più complessa, provo soltanto ad appuntare dei possibili indizi tematici: fare ricerca! non accontentarsi di "duplicare" quanto già ben noto sul panorama internazionale; provare a ragionare intorno alla ricerca svolta. (probabilmente il cartaceo dovrebbe essere soltanto la sintesi di una serie di attività:forum, mostre, eventi, attività in rete, ecc.); riannodare i legami (di comunicazione) tra la disciplina architettonica e le altre discipline (non si cammina da soli, l'architettura è all'interno di un sistema complesso con cui comunicare). Sfogliando la "Domus" di Gio Ponti tutto ciò ci apparirà lampante.

Cosa ne pensi e dove sta secondo te il punto di equilibrio tra informazione, approfondimento, immagini e progetti?

Sul "Giornale dell'Architettura" appare evidente quanto da te sottolineato della prevalenza dell'informazione (testo) sull'immagine. Provo a ragionare sul rapporto tra informazione, approfondimento, immagini, progetti: secondo me va bene la notizia, ma limiterei la cronaca (il racconto dell'accaduto, che tra l'altro è già un fatto) per provare a ragionare su quello che vi sta intorno, ovvero le ragioni delle scelte (concorsi, inviti, piani, ecc.), le ragioni del progetto (le immagini le vedremo certamente meglio rappresentate altrove) e soprattutto delle idee che stanno dietro le scelte. Mi piacerebbe che si provasse ad "accantonare" quelli che sono i "materiali" di un possibile dibattito architettonico (non oserei pensare tanto); materiali il cui uso (e contributo) è lasciato ai suoi lettori, e che provino a depositare il gene di "informazioni" possibili (e necessarie) oltre la cronaca e le immagini sexy; la formula del settimanale mi sembra avere il passo giusto per stare tra la riflessione teorica e la cronaca dell'evento.
 
 
  "Gomorra"

MANUEL ORAZI

Quale rapporto hai con la rivista "Gomorra" e qual è il senso di una rivista oggi?

 
Manuel Orazi si è laureato allo IUAV ed è dottorando in Storia dell'architettura presso la SSAV di Venezia. Scrive per alcune riviste di architettura e collabora con la casa editrice Quodlibet.
È una rivista che leggo molto di rado anche per la difficoltà con cui la si può reperire. Non sono dunque la persona migliore per poterla giudicare, ma voglio provare lo stesso a rispondere al tuo invito. Credo che abbia qualche pregio come un'insoddisfazione di fondo per i confini disciplinari, che entro certi limiti è sempre salutare, e la generosa apertura a collaboratori nuovi e a volte semi-debuttanti (nell'ultimo numero ho contato 35 interventi in 132 pagine). Ricordo bene anche come fin dagli inizi "Gomorra" volesse distinguersi dalle stantie riviste accademiche e legarsi al tema della metropoli organizzando persino una presentazione in una discoteca veneziana. Ora, a parte il lancio paradossale, è evidente che da una rivista che si sceglie come sottotitolo "Territori e culture della metropoli contemporanea" ci si aspetterebbe una redazione internazionale o almeno la preponderanza di questioni straniere visto che l'Italia, fino a prova contraria, è un Paese privo di autentiche metropoli. E, invece, nonostante qualche tentativo, mi pare che la rivista abbia ripiegato sempre di più su se stessa e su Roma, sia nei temi affrontati sia negli interlocutori.

Roma però, come dice sempre Pier Vittorio Aureli, è una città senza infrastrutture, storicamente, e questo fa sì che la rivista di Ilardi rischia di risultare del tutto inadeguata per gli obiettivi che si pone e ovviamente il suo bacino d'utenza non potrà certo ampliarsi in questo modo. Il proliferare poi di una certa estetizzazione del degrado che si trasmette a partire dalle immagini di copertina e interne alla fine nasconde le poche proposte progettuali fin quasi a farle sembrare inutili. Per esempio l'ultimo numero, dal titolo involontariamente vendittiano "Grande Raccordo Anulare", non ha aggiunto molto a quello che già pensavo cioè che l'aumento della mobilità è come un fiume in piena che naturalmente esonda nel costruito (Bernardo Secchi), ma forse sono stato un lettore distratto.

Una rivista oggi credo dovrebbe ospitare in ogni numero almeno un saggio di peso, che tenti di fare una critica del presente a partire da una necessità reale, rigidamente svincolato dalla dittatura delle immagini. Il saggio infatti è una forma di riflessione in crisi, non solo in architettura, soppiantata com'è dal dilagare di testi meramente descrittivi cioè decorativi, delle interviste e delle sbobinature di discorsi orali, «È inconcepibile affidare il pensiero al parlato [...] L'oralità è sempre sporca. Nella scrittura si inventano i concetti» diceva Gilles Deleuze. Sono infatti convinto che la miseria dell'architettura italiana attuale coincida con la miseria della sua produzione teorica.

Vorrei che provassi a fare un riflessione sulla stagione romana che ha generato molti fermenti di cui "Gomorra" fa senza dubbio parte.

E quale sarebbe la "stagione romana"? Non la vedo, né per me hanno senso definizioni come identità romana o italiana dell'architettura, come vorrebbe Paolo Portoghesi. Posso anzi accettarle solo a patto di considerarli insiemi vuoti. Del resto da sempre le migliori architetture di Roma sono opera di architetti e committenti non romani. Perdonami, ma trovo la domanda un po' troppo vaga.
 
 
  "Gomorra"

ROBERTO ZANCAN

Quale rapporto hai con la rivista "Gomorra" e qual è il senso di una rivista oggi?

 
Roberto Zancan, dottore di ricerca allo IUAV. Insegna presso l'Ecole d'Architecture de Paysage dell'Universitè de Montréal e la Facoltà di Architettura a Siracusa dell'Università di Catania. "Gomorra" per me è una rivista stampata male, dalle immagini spesso di cattiva qualità, perché volutamente basata sull'intensità dei testi. L'impostazione monografica dei singoli numeri ha prodotto dibattito su alcuni temi forti, assolutamente trascurati da ben più prestigiose riviste. Insomma questo lavoro sembra dialettico a quello della "Domus" boeriana. Ciò è di rilievo perchè l'interdisciplinarità di "Gomorra" non è ambigua e "commerciale" come poteva apparire, obbligatoriamente in una rivista di grande diffusione e nell'economia della quale è cruciale la pubblicità, come "Domus". Insomma la rivista milanese cercava l'attualità nelle immagini, "Gomorra" la trova nella "necessità" del pensiero della scrittura.

A me pare che l'approccio simile ma inverso di queste due riviste assuma che sia oggi il pubblico a determinare il grado di approfondimento. Mi chiedo: la crisi di "Domus" e la difficoltà di penetrazione di "Gomorra" non scontano una percezione errata dei desideri di quel pubblico al quale vorrebbero fare riferimento. Due belle riviste che molti sfogliano, pochi leggono e meno ancora comprano... peccato per "Domus", ma per fortuna "Gomorra" conserva il carattere di "eterna promessa".

Vorrei chiederti nella tua veste di urbanista un giudizio di "Gomorra", perché, anche se mostrando soprattutto suggestioni e quasi mai progetti, mi pare che sia una delle poche riviste che cercando di riflettere sulla città.

Perché la città, con buona pace del Cacciari "filosofo", non è un progetto. Essa non si getta mai oltre, ma vive delle contraddizioni del suo essere uno spazio da gestire e vivere quotidianamente. Come direbbe il Cacciari "amministratore", con perfetta contraddizione, essa è una "palude di interessi e conflitti" nella quale bisogna tracciare continuamente nuove rotte. Nel rimuovere l'architettura in quanto affermazione di certezze e chiarezza, "Gomorra" fa ri-apparire esattamente questo senso della città, la sua qualità di metropoli dell'imperfettibile scontro di intenzionalità. Un approccio che ci piace, sia a me che a Ignazio Lutri, perchè ci evoca il ricordo della "città nell'incertezza e la retorica del piano" di Giovanni Ferraro... una figura che ci manca molto nell'urbanistica presente.
 
   

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