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  Tafuri Instant Forum



 

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PREMESSA. Un importante convegno ha avuto luogo a New York nell'aprile 2006. Il fulcro dell'evento è stato, secondo gli organizzatori, la presentazione della traduzione inglese del volume Ricerca del Rinascimento. Principi, città, architetti, (Yale University Press con Harvard GSD, 2006), a cura di Daniel Sherer. La loro intenzione dichiarata è usare l'evento come "un'occasione per valutare le sue eredità critiche".

[14apr2007]

Peter Lang, Ph.D., è Professore di Architettura presso la Texas A&M University. Santa Chiara Center.

A un primo sguardo, i pezzi da novanta invitati a partecipare e la rigorosa piattaforma tematica erano notevoli. L'elenco dei partecipanti assomiglia a un who's who della teoria dell'architettura, ma questo prestigioso appello per Tafuri curiosamente elude diversi punti critici per i quali Tafuri dovrebbe essere ritenuto responsabile, non ultimo il suo ruolo guida nel sopprimere i molti effervescenti movimenti sperimentali che stavano emergendo negli anni Sessanta. Il rigido dogma marxista di Tafuri, che alcuni non esitano a dire stalinista, dovrebbe essere esaminato anche per quello che esso non può accettare, in particolare un ambito di eterogeneità architettonica rimasto ampiamente marginalizzato all'interno della sua opera. E, ancora, cosa aggiunge oggi il discorso critico di Tafuri al dibattito sulla globalizzazione, sulla post-colonizzazione, alla condizione delle periferie, allo scontro di civiltà che sono in cima alla nostra agenda culturale?

Pochi metterebbero in discussione il genio di Tafuri, o il suo contributo critico a un campo che fino al suo arrivo faticava a liberarsi dalla morsa hegeliana sulla storia dell'architettura moderna. Ma le cose nel frattempo sono cambiate, e un convegno di tale peso e importanza che rimanga fedele all'opera di Tafuri senza considerare punti di vista contemporanei e alternativi, per esempio quelli degli oppositori sopravvissuti o la nuova generazione di critici, rischia di apparire regressiva o semplicemente irrilevante.

Per essere corretti nei confronti sia di chi ha raccolto l'eredità di Tafuri sia di quegli individui che non erano presenti al convegno, vorrei estendere un invito a partecipare a un aperto forum di discussione, per dare l'opportunità di discutere, adulare, manomettere o rispettare le tesi tafuriane, o le dottrine che comunque ciascuno vuole osservare. Uno spazio per il dibattito aperto utile a evidenziare voci critiche che rappresentino tutte le generazioni contemporanee, da ogni parte del mondo esse vengano.

NB: I seguenti nove saggi sono stati offerti a questo forum, molti sono giunti subito dopo l'invito iniziale, lanciato nell'aprile 2006. L'istantaneità, quando ha a che fare con traduzioni e correzioni, diventa un concetto relativo.

Peter Lang
petertlang@gmail.com
 
     
  ANDREA BRANZI
DAVID GRAHAME SHANE
MANUEL ORAZI
ESRA AKCAN
UGO ROSA
STEFANO MIRTI
LUKA SKANSI
FRANCESCO GAROFALO

GABRIELE MASTRIGLI
 
   
  ANDREA BRANZI

 
Andrea Branzi, architetto e designer, nato a Firenze nel 1938, dove si è laureato nel 1967, vive e lavora a Milano.
Nel mese di aprile del 2006 si è tenuto allo IUAV di Venezia (a cura di Bernardo Secchi, Marco Biraghi e Marco de Michelis e coordinato da Paola Viganò) un incontro sull'opera di Manfredo Tafuri, in preparazione di un Convegno internazionale che si è tenuto dopo pochi giorni alla Columbia University di N.Y. In un ambiente universitario molto avaro di contributi sui maestri del pensiero e non solo delle pratiche costruttive, questa iniziativa non può non essere sorprendente.

Il grande storico ha infatti segnato una intensa stagione della cultura internazionale del progetto e ne ha condizionato una intera generazione; e non solo nel mondo del progetto. I suoi seminari con il filosofo Massimo Cacciari dimostravano che l'architettura non era (e non è mai stata) soltanto l'arte del costruire; ma corrispondeva a un pensiero complesso, a una forma specifica di conoscenza del pensiero umano e delle sue forme costruite nella storia. Di questa patrimonio teorico che l'Architettura produce, solo una piccola parte (e non la più importante) è destinata a diventare edificazione, mentre il suo indotto più vasto illumina i livelli profondi della storia di una società.

L'opera di Manfredo Tafuri si colloca a cavallo di due epoche storiche contrastanti: quella piena di fermenti politici degli anni '60, quando le Facoltà di Architettura furono il teatro di una sorta di psico-dramma disciplinare, da cui traevano energia concettuale anche le prime avanguardie radicali. E subito dopo, durante gli anni '70, in piena continuità ambientale, le stesse Facoltà di Architettura diventarono il teatro di un vasto disegno reazionario, impegnato a ripristinare l'ordine accademico della Disciplina e l'autorità della Storia, interpretata dal movimento post-modern italiano (alla Paolo Portoghesi).

Questa singolare stagione bi-fronte, rivoluzionaria prima e reazionaria subito dopo, avvenne sotto l'egida di Manfredo Tafuri, il quale nelle prime opere aveva ripreso uno dei temi centrali delle Avanguardie Sovietiche, costituito dall'idea di una "prossima morte dell'architettura" come espressione di una cultura borghese avviata a un inarrestabile declino. Ma nelle opere successive Tafuri dimostrava che solo nella storia l'architettura trova fondamento, e che quindi andava rifiutato qualsiasi processo evolutivo introdotto dalla modernità.

Così facendo la morte dell'architettura si attuava attraverso una sorta di suicidio cosciente: la modernità come salvezza possibile della borghesia, era rifiutata in nome di uno strangolamento politico della stessa cultura moderna. Tra i due poli di questo oscuro e fascinoso teorema, c'era di mezzo l'Italia della degenerazione terroristica; l'avvento del governo Craxi e il suo richiamo a un ordine borghese (corrotto); il passaggio dal modello della Rivoluzione politica di Mao, a quello genetico di Pol-Pot...

Spero dunque che una rilettura di Tafuri non si limiti solo sul suo contributo alla storia dell'Architettura, ma sappia estendere lo sguardo anche ai monumenti di imbecillità di quegli anni; ai paesaggi oscuri e pericolosi che l'opera di Tafuri, forse più di qualunque altro, rappresenta nella sua geniale meccanica interna. Può essere questa una occasione per riflettere su un aspetto profondo della nostra storia recente, in una epoca dove l'architettura non ha dato soltanto il suo tradizionale contributo di edifici, ma ha costituito un laboratorio di idee che ha guidato la politica verso la sua profonda involuzione.

C'è stato un momento in cui si era costituita in Italia (e nel mondo universitario) una sorta di triade di "cattivi maestri", che in forme diverse e con responsabilità diverse hanno segnato il momento di questo delicato passaggio epocale dalla Rivoluzione (impraticabile) e una Restaurazione (impraticabile). Questi maestri sono stati: Manfredo Tafuri, Toni Negri e Aldo Rossi. Tre autentici Geni che hanno ripristinato in Italia il concetto di Autorità, sdoganando il nostro paese dalle verità di Partito, verso il libero mercato delle idee. Ma le loro morti precoci (Tafuri nel 1994, Aldo Rossi nel 1997 e la carcerazione di Toni Negri) hanno lasciato un grande vuoto culturale, a dimostrazione della quasi totale impraticabilità del loro magistero; un magistero segnato sempre da una intransigente auto-referenzialità.

L'assenza di qualsiasi attenzione alla complessità dei tempi nuovi e alla necessità di elaborare strategie e pratiche più duttili e dinamiche, li rilega inesorabilmente tra quei fenomeni che hanno segnato la fine del XX secolo: e non ai flussi deboli del secolo nuovo. Le loro idee, nel bene o nel male, appartengono ancora a quella tarda logica della Modernità, che pericolosamente riteneva ancora possibile la ricerca di soluzioni definitive e progetti forti e permanenti. Tutto sommato figli dell'epoca delle Rivoluzioni e non profeti dei segni e dei pensieri di una società perennemente auto-riformista come la nostra.

Il ritardo culturale di Manfredo Tafuri rispetto ai tempi nuovi che emergevano attorno a lui, lo si può cogliere leggendo il suo saggio pubblicato nel 1972 sul Catalogo della mostra "Italy: new domestic landscape" al MOMA di New York. Fuori dai massimi sistemi della Storia emerge la sua incapacità di comprendere, non solo il design, ma attraverso di questo il mondo contemporaneo.

Manfredo Tafuri coglie la rivolta degli oggetti italiani, ma ne critica la componente surrealista e ne confronta i risultati edonistici con quelli ipotetici che deriverebbero da una economia programmata sotto la guida di uno Stato-Imprenditore. Tafuri auspica l'intervento dell'IRI nel settore della ristrutturazione urbana, intervento che "non può non avere conseguenze irreversibili anche nel settore del design". La sua analisi vetero-marxista e tecnocratica, segnala un ritardo politico e culturale (con la completa rimozione della nuova centralità del mercato rispetto alla produzione); ma quel che è peggio, testimonia di una sindrome accademico-universitaria, che lo porta a rifiutare con insofferenza l'invadenza del design in nome della centralità dell'Architettura.

Emergono già allora i difetti congeniti dell'architettura italiana contemporanea, che si trova a operare in una "città di oggetti", ma come i Saggi di Salamanca rispetto alla scoperta dell'America, ritiene che tutto questo "sia un male"e quindi debba essere rimosso attraverso una condanna morale. Personalmente mi auguro invece che da queste riflessione sull'opera del grande storico possa emergere un risultato diverso, che consiste nell'interrompere finalmente quel silenzio traumatizzato che la scomparsa di Tafuri (e di Aldo Rossi) da dieci anni ha lasciato nel dibattito di architettura, soprattutto in Italia. Una sospensione di giudizio, una spaventata prudenza a affrontare i sacri confini che i Maestri hanno tracciato, caratterizza la generazione degli aldo-rossiani e dei filosofi del progetto, che orfani di Padri autorevoli sono incapaci di confrontare le loro idee con quelli di coloro che oggi di quelle idee non sanno che farne, e forse non sanno neppure che sono esistite.
 
 
  DAVID GRAHAME SHANE

 
David Grahame Shane è Adjunct Professor of Architecture presso la Columbia University Graduate School of Architecture, Planning and Preservation.
RICORDO DI TAFURI. Nonostante la Guerra Fredda, negli anni Sessanta e Settanta cresceva, in Europa, una critica marxista della città capitalista, che andava da Henri Lefebvre ai marxisti britannici della London School of Economics, dalla quale sarebbe poi emerso il geografo David Harvey. La critica marxista britannica, che avevo familiare negli anni Sessanta, era ampiamente dedicata allo sviluppo del capitalismo economico e del colonialismo, ma empirica in termini precise di attacco a forme dello sviluppo speculativo. Seguendo Ruskin e Morris, la critica di sinistra assumeva un alto tono morale nei confronti degli speculatori di ogni genere, quindi quanto ero studente nessuno sognava di lavorare per operatori immobiliari, come il "Colonnello Seifert" (il principale architetto commerciale inglese). Tutti sognavamo di lavorare per agenzie pubbliche e di produrre grandi numeri di abitazioni. La Signora Thatcher e Tafuri hanno cambiato tutto questo.

L'idea dell'autonomia dell'architettura ha tagliato tutte le strade, permettendo agli architetti di lavorare nella "mediocre" sfera commerciale, in quella normativa e allo stesso tempo di produrre una bolla di bravissimi architetti da "boudoir", il cui lavoro, innovativo e formalmente espressivo, potrebbe stare all'origine dell'attuale star system. La Politica era collocata in una sfera a sé, argomento che Tafuri aveva raccolto in anticipo dalla Scuola di Francoforte, e l'Architettura come linguaggio formale, una idea presa dai linguisti russi.

Personalmente, da giovane, durante 10 anni sulla scia di Tafuri, non ho mai potuto accettare del tutto la sua retorica e la razionalizzazione del completo distaccamento dell'architettura dalla società, nonostante abbia studiato a Cornell con Colin Rowe, il quale a volte faceva le stesse discussioni sull'autonomia. Ho accettato le analisi di Tafuri sulla standardizzazione capitalista, su razionalismo e produzione di massa e le loro conseguenze derivate da Walter Benjamin e Siegfried Giedion. Ma ho visto queste come il prodotto delle costruzioni imperfette dell'analisi urbana modernista.

Tafuri è stato importante per me perché ha sottolineato aspetti del modernismo trascurati da Giedion, come la tradizione socialista in Germania, la Rivoluzione Russa, le innovazioni olandesi ecc... e le ha fatte rientrare all'interno di una più ampia scrittura storica. Un dibattito sul modernismo e i suoi prodotti universali nella Russia stalinista o nella Germania di Hitler, l'Italia di Mussolini o la Tennessee Valley statunitense. Qui le sue radici in Antonio Gramsci e nell'analisi comunista italiana hanno reso tagliente la sua critica, richiedendo prodotti migliori per tutti, quando la maggior parte dei modernisti stavano ancora battendo il tamburo per una riduttiva, fordista, produzione di massa. Essendo, da studente, un appassionato di Archigram, il messaggio di andare oltre la produzione standardizzata di massa in direzione di un prodotto più personalizzabile non sembrava così strano, anche se Tafuri aveva castigato Archigram e altri come utopisti sognatori, inadeguati successori dei francesi fourieristi, sansimonisti ecc. (era evidentemente in errore su questo punto). Ma quando è arrivato alle questioni urbane, Tafuri, preso in considerazione con Rossi, è stato importante. Qui ha potuto contribuire con un'utile critica di Archigram e del costante "Merzbau" di corrente dadaista, dei rifiuti che si accumulano nella nostra civiltà come risultato dell'enorme e acritica capacità produttiva del capitalismo. Se Archigram e Superstudio avevano compreso le implicazioni di questo in forma di rete, globalizzazione e comunicazioni, Tafuri si concentrava sugli strumenti del capitale, sui grattacieli e sulle enormi strutture di rappresentazione simbolica della società di massa, sul Campidoglio ecc.

Rossi e Tafuri, in quanto italiani, hanno potuto parlarci della cultura della città. Non mi sto riferendo tanto a Progetto e utopia quanto al suo libro sul Rinascimento italiano in Italia. Ma Progetto e utopia è stato importante. Ha collocato la produzione della città all'interno del sistema della produzione di massa e dimostrato il ruolo dell'utopia nella preparazione del percorso per future innovazioni tecniche, fissando gli obiettivi per il futuro (tuttavia questo privilegio sia stato esteso ai suoi contemporanei, nel momento in cui Archigram, Superstudio o Archizoom avevano compreso il ruolo dei media e della comunicazione meglio del saggio di Venezia).

Se Tafuri ha fornito la dimensione storica e la comprensione del processo di produzione relativo alla storia, Rossi, con la sua consapevolezza delle regole che governano le strutture urbane europee e la loro produzione, ha definito le linee guida per un progetto autonomo, allo stesso tempo in contatto e separato dal contesto culturale (con uno stile modernista e retro-stalinista, come un monumento al tessuto vernacolare, populista). Gli scritti di Tafuri sulla città americana con Dal Co sono stati molto importanti. Il suo saggio su "Oppositions" dedicato a New York e il grattacielo ha anticipato Rem Koolhaas. La sua analisi del potere della griglia di Jefferson come strumento per stabilire una rete non era nuova, ma un benvenuto promemoria. Il suo riconoscimento dell'importanza simbolica e diacronica di Washington come città capitale, in contrasto/dialettica con la dinamica e sintagmatica New York, collegata con l'enorme meccanismo produttivo dell'America capitalista, ha dato a tutti noi una boccata d'ossigeno.

Il Tafuri di Progetto e utopia è stato importante per me come una pietra miliare che mi ha permesso di allontanarmi dal mio ambito locale, a Londra, e dai miei colleghi della East Coast statunitense, verso un'altra piattaforma che si sarebbe potuta aprire, nel caso, alla globalizzazione, agli studi post-colonialisti e sul genere attraverso il lavoro di David Harvey e di Ed Soja, geografi urbani radicali degli anni Ottanta. Tafuri non ha fornito, con Progetto e utopia, sistemi per la razionalità universale, ma la sua opera su Sansovino e Venezia, e il suo lavoro sulla storia urbana nel Rinascimento italiano hanno prodotto una sorta di struttura.

L'uso che Tafuri ha fatto del teatro, mostrando come nel Rinascimento la scena era la culla delle utopie, degli spazi urbani utopici che la borghesia urbana italiana sognava di costruire, è per me di grande importanza. Il suo lavoro su Urbino come "laboratorio di prospettiva" del Rinascimento, dove ad esempio si formò Raffaello e poi Raffaello formò Peruzzi da Siena a Roma, e a seguire Serlio, che lavorò con Sansovino su Piazza San Marco a Venezia ha offerto un'apertura allo sguardo sul potere della prospettiva nel disegno del mondo, come forma simbolica urbana che potrebbe essere ricollegata ai suoi studi sulla maglia di Jefferson in America. Questo schema poteva essere trasposto come istruzioni verbali e visive, virtuali, di un libro, ma anche disegnare un continente. Si trattava di storia locale a oltranza, che si ricollegava a una prospettiva globale. In effetti Tafuri è stato uno dei primi ad aprire gli occhi sull'Europa centrale e sulle molte città nuove costruite nel Rinascimento dagli abitanti, facendo uso dei modelli italiani.

Ma Tafuri non ha prodotto questa connessione con i modelli globali ed è morto prima che questo aspetto virtuale della sua logica potesse dispiegarsi. La sua frequentazione negli ultimi anni della sua vita con Foucault, Georges Teyssot e con il concetto di eterotopia, che è diventato per me molto importante, non è stato mai sviluppato nel suo lavoro. Alienazione ai suoi tempi significava l'uomo alienato, soggetto europeo, stile esistenziale, non identificazione con l'"altro" o con quelli esclusi come individui (i suoi agenti della "Storia" le masse di lavoratori, erano chiaramente un "altro" differente da quello che riconosciamo oggi). In teoria Tafuri è rimasto per me intrappolato all'interno di una stretta tradizione razionalista tedesca (Hegel, Husserl, Heidegger), nonostante attraverso i suoi studi approfonditi sulle elite storiche hanno mostrato un autentico aspetto dei suoi interessi dominanti.

In teoria egli era incapace di guardare al mondo, se non in termini di ordini gerarchici e di strutture di potere, e questi non hanno potuto aprire a partecipazione, teorie della complessità, meccanismi a feedback complessi, new media e modellazione concettuale, il supposto consumo di massa, la massa come individui, dove un pubblico al potere locale e globale avrebbe avuto una dimensione virtuale in grado di creare le nuove forme della città network.
 
     
  MANUEL ORAZI

 
Manuel Orazi (Macerata, 1974) ha svolto un dottorato in Storia dell'architettura e della città presso la Fondazione di Studi Avanzati in Venezia. Scrive articoli e recensioni per "Domus", "Log" e lavora per la casa editrice Quodlibet.
IL PROGETTO, L'UTOPIA E LO SCACCO. Tutta la produzione teorica di Manfredo Tafuri, riletta col senno di poi, mi appare come un continuo elogio del progetto. Negli spazi storici indagati da Tafuri -fin dalla sua giovanile esperienza professionale- il progetto è rimasto il perno della sua analisi, anche e soprattutto nei suoi ultimi libri dedicati al Rinascimento, benché in maniera meno evidente. Non a caso le reazioni più veementi le ha riservate ai due estremi del progetto: da un lato le allegre utopie, oggi tanto rispolverate, dell'età della megastruttura, dall'altro l'assenza di progetto cioè il cinico realismo professionale.

 

  Bisogna però riconoscere la discontinuità, anche attraverso brusche svolte, che ha caratterizzato l'itinerario intellettuale tafuriano. Sprezzante verso il pressappochismo storiografico della cultura architettonica italiana che lo circondava, ha sempre cercato interlocutori diversi e nuovi, allargando di colpo il proprio pubblico con Per una critica dell'ideologia architettonica (1969) (1) e poi restringendolo dopo il 1980 ai suoi lettori più esigenti ed esperti. In ogni caso la sua critica ha messo in luce il mutamento radicale del ruolo dell'architetto. Né apocalittico né integrato, Tafuri ha sperimentato strumenti storici eterogenei cambiandoli all'occorrenza: dal materialismo storico di Benjamin alla critica formalista di Sklovskij, alla storia evenemenziale delle Annales, etc. con uno stile denso di pathos anche se spesso eccessivamente allusivo.

Ha però avuto il coraggio di riconoscere alcuni suoi errori -seguendo in questo la lezione di Ludovico Quaroni, maestro di autocritica-, per esempio è un dato di fatto come i suoi ultimi studi rinascimentali avessero ormai messo da parte le categorie marxiste. Inoltre sin dai primi anni Settanta, in vari studi collettivi con gli altri storici gravitanti intorno allo IUAV, era già stato protagonista di una delle più formidabili opere di revisionismo storico, sia verso l'architettura del periodo fascista sia verso quella socialista; in particolare l'architettura e l'urbanistica sovietiche furono impietosamente denudate da Tafuri di ogni mistificazione legata alla "ideologia del piano".

1. Manfredo Tafuri, Per una critica dell'ideologia architettonica, in "Contropiano", n. 1, 1969, pp. 31-79; nello stesso anno pubblicava L'architettura dell'Umanesimo, Roma-Bari, Laterza 1969.

  Scriveva profeticamente Giulio Carlo Argan in Progetto e destino (1964): "È facile prevedere che la fenomenologia del mondo di domani sarà tutta fondata sull'immagine. Se non saprà valutare le immagini, il mondo non saprà più valutarsi, esisterà senza avere neppure la coscienza di esistere". (2) Oggi questa condizione si è compiutamente realizzata: in massa, gli architetti producono immagini svincolate da qualsiasi teoria o necessità materiale; avendo rinunciato a modificare la realtà si limitano a farsela piacere decorandola. (3) Non basta: il progetto è stato depotenziato e screditato attraverso il circolare di modelli succedanei come il diagramma o il plan. In altre parole il progetto sembra essere ormai inattuale, vittima della fobia di ciò che è superato e dell'ansia di superamento -questi riflessi deformati dell'idea di progresso- che sono uno degli aspetti ridicoli della cultura come attualità.

Manfredo Tafuri ha descritto la crisi dell'utopia del moderno, che consiste nel ritenere possibile l'adeguamento della realtà al progetto, del disordine all'ordine, anzi ha visto tutta l'architettura moderna come un'espressione di crisi e di conseguenza la città contemporanea come un problema fattosi irrisolvibile. Eppure Tafuri tiene sempre salda la centralità del progetto. Come ha notato Alberto Asor Rosa, "per il creatore di forme, per il costruttore di città [...] il massimo possibile del progetto corrisponde inevitabilmenteal massimo possibile dello scacco" (4), ma è vero anche il contrario. È proprio nel momento in cui ci sentiamo più impotenti di fronte alla realtà che occorre andare alla ricerca di una reazione progettuale. In fin dei conti mi pare questo il senso ultimo dell'Umanesimo tafuriano.

2. Il saggio è poi confluito nel libro omonimo Giulio Carlo Argan, Progetto e destino, Milano, Il Saggiatore 1965, p. 57.
3. "Il «diventar immagine» del capitale non è che l'ultima metamorfosi della merce, in cui il valore di scambio ha ormai completamente eclissato il valore d'uso", Giorgio Agamben, Glosse in margine ai Commentari sulla società dello spettacolo, in Guy Debord, Commentari sulla società dello spettacolo, Milano, Sugarco 1990, p. 236.
4. Alberto Asor Rosa, Manfredo Tafuri, Progetto e utopia. Architettura e sviluppo capitalistico, in "Bollettino di italianistica", n.s., anno II, n. 1, 2005, p. 187.

 
  ESRA AKCAN

 
Nata a Ankara, architetto, Esra Akcan vive ora a New York, dove è postdoctoral lecturer presso la Columbia University.
I due sintomi elementari che mostrano la ricezione di Tafuri sembrano oscillare tra il farlo diventare un indiscutibile eroe e biasimarlo per aver bloccato le possibilità della "architettura sperimentale". Un modo per disporre di uno sguardo più equilibrato sullo storico può derivare dalla lettura attenta delle sue storiche osservazioni su specifici architetti. A questo scopo riporto qui alcuni estratti dalla conclusione del mio intervento proposto al convegno 2006 della Society of Architectural Historians a Savannah, dal titolo "The Future of Manfredo Tafuri".

Le parole di Manfredo Tafuri "there can never be an... architecture of class, but only a class critique of... architecture" hanno sollevato, in numerosi architetti e critici il dubbio sulla possibilità di una pratica critica in architettura. Questo intervento sostiene l'ipotesi che la conclusione di Tafuri è stata storicamente basata su una particolare interpretazione di pochi progetti di riforma urbana in Europa, in particolare sull'abitare a Weimar. Per collocare storicamente le conclusioni di Tafuri e per dimostrare la loro parziale dipendenza da specifiche condizioni storiche, così come dalla sua personale posizione intellettuale, vorrei discutere le successive semplificazioni della ricerca, da parte di Tafuri, di una verità prescrittiva per il ruolo critico dell'architettura nella società. Con il collocare la critica di classe all'architettura di Tafuri all'interno del proprio contesto ideologico, tento di avviare una valutazione degli stessi limiti di una critica di classe, per giungere ad altri importanti progetti per una critica dell'ideologia.

Solleverò due principali osservazioni contro l'analisi di Tafuri. Uno degli aspetti più curiosi nel modo in cui Tafuri affronta la riforma urbana di Weimar è la sua rivendicazione del fallimento di quei buoni risultati ottenuti nella ricerca sulle abitazioni sociali. La sua dura critica di classe è tuttora valida: le Siedlung non hanno, in fin dei conti, ottenuto "il positivo superamento della proprietà privata", per citare Marx. Ma non sono questi progetti nientemeno che "enclave di trasformazione sociale" e non implicava lo stesso Tafuri, quando si riferiva alle Siedlung come a "spazi lasciati aperti dal contratto sociale" che contraddicevano la gabbia di Weber, qualcosa di simile a questa "teoria dell'enclave"?

Perché, poi, Tafuri inizia la sua analisi riconoscendo alle Siedlung la qualità di enclave di uguaglianza, ma poi dopotutto ritorna ad una posizione che ribadisce l'assunto di Weber? Perché Tafuri chiama un tentativo fallito gli otto anni in cui Wagner e Taut sono riusciti a costruire oltre 10.000 valide abitazioni in circa venti differenti insediamenti su tutta Berlino?

Tafuri considerava il risultato finale del progetto delle avanguardie, che precedeva la riforma abitativa di Weimar, la totale distruzione dell'oggetto architettonico davanti alla struttura urbana. Solo due progetti non realizzati avevano raggiunto questo destino: La Grossstadt di Hilberseimer e il piano di Le Corbusier per Algeri. Solo questi due progetti concepivano l'intera città come una singola unità, come una "macchina sociale" con cellule elementari che andavano dall'edificio fino a tutto l'organismo urbano. Il singolo edificio non era più un "oggetto", poiché "l'oggetto architettonico si è completamente dissolto". Questi progetti, d'altra parte, possono realizzarsi soltanto in un ambiente pubblico, dove nessuna proprietà individuale può intervenire sulla struttura urbana concepita come una totalità.

La condanna di Tafuri per i progetti abitativi di Weimar come esercizio critico fallimentare deve essere valutato quindi, all'interno dello scenario di questo particolarissimo e idiosincratico progetto intellettuale, piuttosto che usato come una giustificazione per l'impossibilità di una pratica critica. Il più grande successo dell'abitare sociale nella storia, capace di catalizzare, tra l'altro, grandi numeri di persone economicamente provate, sembrerebbe un fallimento solo agli occhi di chi è orientato a guardare la totale dissoluzione dell'oggetto architettonico nella massa urbana, dell'architetto nel produttore anonimo, dell'impresa privata nell'esistenza senza proprietà. Per gli altri, questi dovrebbero essere ancora riconosciuti come pratica critica.

La mia seconda osservazione è sull'arbitrarietà morale della critica di classe di Tafuri. Perché lo sfruttamento del lavoro della classe operaia si fa prioritario; perché non lo sfruttamento del lavoro domestico, del lavoro coloniale o del lavoro animale? Mentre la classe operaia emerge come un gruppo che merita la massima attenzione, Tafuri rimane terribilmente in silenzio nei riguardi degli altri gruppi storicamente oppressi, come le donne, le popolazioni colonizzate, e così via. Nel presentare le oppressioni causate dalle categorie basate sulle classi, non è fuori luogo dire che egli non ha notato le categorie basate su sesso, razza o etnia. Il relativo silenzio dello storico sulle implicazioni dichiaratamente colonialiste del progetto di Le Corbusier per Algeri è un caso significativo, sottolineato in seguito dalla critica postcolonialista. Per Tafuri, il piano urbano di Le Corbusier per Algeri era il "più avanzato" e insuperato progetto di moderna pianificazione urbana, per la sua capacità di comprendere l'intera città, l'intero paesaggio al di sotto del suo gesto unificante. Impegnato nella ricerca di una architettura totale, Tafuri fallisce nel vedere in questo progetto l'oppressione della casba e della popolazione africana, e giustifica la discriminazione urbana in nome di una immagine urbana unificata. È difficile affermare che Tafuri si sia impegnato per criticare la posizione dell'architettura nella colonizzazione italiana della Libia o dell'Etiopia.

Quindi, perché la mia decisione di scrivere un intervento che tende a giudicare la futura importanza di Tafuri? Oggi la continua rilevanza di Tafuri non risiede necessariamente nelle sue conclusioni, ma nel suo metodo analitico usato per mostrare le strette relazioni tra architettura e dominio, progetto e potere, spazio e oppressione. La sua stretta focale centrata sulla critica di classe può essere messa in discussione, ma i suoi metodi nell'analizzare lo sfruttamento basato sulle classi può essere proficuamente utilizzato per smascherare altri tipi di sfruttamento. La realizzazione dell'ideologia architettonica lascia ogni architetto e critico nella possibilità di scegliere se praticare o criticare l'establishment. La seconda via è ancora possibile. È soltanto quando si riduce il significato di "criticità" ad una stretta area di analisi basata su classi che si può fallire nel vedere la continua urgenza e possibilità di una pratica critica.
 
 
 

UGO ROSA

"...abituarci a considerare la storia come una continua contestazione del presente, come una minaccia anche, se si vuole, ai tranquillizzanti miti in cui si acquietano le inquietudini e i dubbi degli architetti moderni. Una contestazione del presente: ma anche una contestazione dei valori acquisiti dalla "tradizione del nuovo"
Teorie e storia dell'architettura
, pagg. 266-267

"La critica parla solo se il dubbio con cui investe il reale si ritorce anche verso di lei"
La sfera e il labirinto
, pag. 17

 
Ugo Rosa, architetto. Vive e lavora a Caltanissetta. Tiene su "ARCH'IT" la rubrica "Lanterna Magica", fa parte del comitato di redazione di "Casabella". Ha insegnato progettazione architettonica alla Facoltà di Enna.
Ipotizzai una volta un critico d'architettura ibrido che si chiamava Brunedo Tafevi (oppure Manfruno Zevuri) e che sarebbe stato capace di ingoiare i due maggiori critici italiani sputando via come ossicini gli indigeribili schemi ideologici di Bruno Zevi e le sentenziose tedescaggini di Manfredo Tafuri. Uno che avesse il piede leggero del primo mantenendo però la capacità del secondo di indossare lo scafandro da palombaro; così da potersi permettere di ballare il tip tap nel profondo, là dove la luce dei riflettori non arriva.

I due, ahimè, non si fusero mai nella realtà e l'ibrido, purtroppo, rimase nella mia immaginazione. Anzi non solo non si fusero, ma si allontanarono fino a perdersi completamente di vista trasferendosi ambedue nell'ambito della statuaria mitologica, paludata, nell'uno, di avanguardismo pimpante e, nell'altro, di erudizionismo polveroso.

Il tempo però, che non sempre è galantuomo, è sovente un maestro d'ironia. Ha fatto stravincere Bruno Zevi ma facendolo stravincere lo ha fatto anche straperdere. Grazie all'invasione su scala planetaria di una pletora di volatili parlanti prodotti in serie che compitano come un rosario le sue litanie è emersa infatti la sconsolante inconsistenza delle inossidabili certezze Zeviane. Le sette invarianti impazzano e, purtroppo, non ricordo altri proclami, nell'ambito della storia dell'architettura, in grado di produrre stupidità con la medesima, enfatica, efficienza.

Il delizioso papillon che dava a quelle enunciazioni l'aria scanzonata grazie alla quale non sembravano prendersi troppo sul serio, purtroppo, non c'è più. Rimane solo la protervia degli esecutori materiali: questi scannano la vittima senza enunciare altro che l'ammontare della parcella necessaria e sufficiente per la macellazione.

Dall'altra parte, dove ufficialmente s'è perso, fiocca la neve e, ogni tanto, passa un daino.
La barba di Tafuri ormai fa tutt'uno con i rovi ed i cespugli. Non c'è anima viva. Solo freddo e silenzio. Se ti capita di transitarci per la vigilia di natale puoi star certo che finisci dentro il ghiacciaio come Konrad e Susanna in Bergkristall di Stifter: a goderti l'aurora boreale. In compenso non vi si aggirano tipini internazionali che, carte alla mano, ti spiegano come va siliconata l'architettura per essere avvenente.

Nessuno ti rompe le scatole. Secondo me Manfredo Tafuri ci sta da papa. Quando di tanto in tanto lo vado a trovare neppure io mi ci trovo poi tanto male. Basta solo che mi porti, nello zainetto, un salamino per la colazione e un thermos di caffè corretto per tenermi caldo.

Insomma tutto sommato, alla fine, lui si è salvato dai suoi esecutori testamentari, Zevi no.
Tra qualche anno, quando l'ubriacatura iperattuale sarà passata, forse ne riparleremo. Sempre che, per allora, riesca a sopravvivere, tra gli addetti all'architettura, qualche portatore sano d'intelligenza scampato al vaccino.
 
 
  STEFANO MIRTI

 
Stefano Mirti, Torino 1968. Partner di Id-lab & coordinatore del Dipartimento di Design di NABA.
HO VISTO UN RE.
Ricevo una email da Peter Lang.
Il tema è quanto meno intrigante: "Architecture after Tafuri - Tafuri after Architecture". A major conference about Manfredo Tafuri in New York...

Ogni tanto capita che alcuni frammenti di passati lontani & dimenticati ritornano alla superficie dei nostri pensieri.
Se la mia testa ha una fossa delle Marianne, bene, Manfredo Tafuri è chiaramente lì (assieme all'UfoSolar, ai Trasferelli e a quella volta che i tifosi del Borussia avevano tirato una lattina in testa a Roberto Boninsegna in una partita di Coppa dei Campioni).

La Fossa delle Marianne è la fossa oceanica conosciuta più profonda al mondo, il luogo più profondo della crosta terrestre. È localizzata sul fondo dell'oceano a Nord-Ovest dell'Oceano Pacifico, ad est delle Isole Marianne, a 11° 21' Nord di latitudine, e 142° 12' Est di longitudine, vicino al Giappone. La fossa è delimitata dall'incontro di due placche tettoniche, in una zona di subduzione, dove la Placca del Pacifico va ad infilarsi sotto la Placca delle Filippine. La fossa forma un leggero arco lungo circa 2.500 Km. Il punto più profondo supera di 2.061 metri l'altezza del monte Everest, e si trova a 10.911 metri sotto il livello del mare. Sul fondo della Fossa delle Marianne, l'acqua esercita una pressione di 1086 bar, (pari a 108.6 MPa)
(da Wikipedia, ed. italiana)

Manfredo Tafuri fa parte di quella categoria di persone, concetti, luoghi e cose che a un certo punto della nostra vita sono importantissimissime, che galleggiano colossali sulla superficie, che tutti i giorni ci sbatti il naso contro. Poi, poco per volta, il peso inizia a farle affondare, e senza quasi accorgersene si fanno tutti i 10.911 metri fino a posarsi lievemente sul fondale della suddetta Fossa delle Marianne.
Curioso no?
Chissà come mai certe robe affondano in maniera implacabile e altre invece no?

Però ancora, così come quando ci ritroviamo tra le mani un vecchio album delle figurine Panini, ricevere l'email sul convegno su Tafuri è piacevole (perché ci fa tornare giovani).
Cioè, se avessero fatto un convegno su Roberto Boninsegna e Mario Corso sarebbe stato ancora più bello, però, tant'è (giusto per condividere il gusto, sarebbe stato come dire: "Inter after Bonimba - Bonimba after Inter" A major conference about Roberto Boninsegna at Maracanà...)

Ma lasciamo da parte il calcio e procediamo con la lettura della mail. Che è molto ben scritta e stimolante:

"The fulcrum of the event was, according to the organizers: the introduction of the English translation of Tafuri's Interpreting the Renaissance: Princes, Cities, Architects ( Yale University Press in association with the Harvard GSD, 2006), translated by Daniel Sherer. Their stated intention is to use the event "as an occasion for a new assessment of his critical legacies."

Mmmhhhh...
Ma che critical assessment si può fare dell'eredità critica di Tafuri? Non so proprio.
Se ce lo siamo tutti dimenticato, una ragione ci sarà pure (mi immagino).
Una volta che abbiamo stabilito che nessuno come lui riusciva a capire e spiegare il Rinascimento i suoi principi, le sue città e i suoi architetti...
...e che nel contempo non riusciva a capire niente della società contemporanea in cui viveva, cos'altro possiamo dire?
Boh. Sarei curioso di leggere le relazioni di tutti questi importanti ospiti al convegno per capire meglio.

Provo a fare un giro di telefonate e di email.
A parole, tutti concordano che Tafuri ha devastato l'architettura in Italia per alcuni decenni.
Dico: "figo". Proprio anch'io avevo questa idea, che facciamo? Scriviamo un pezzo?

Lì però tutti si bloccano. Ho chiesto a cinque persone diverse e alla fine tutti avevano da fare. Manco che 'sto Tafuri fosse Vito Corleone (ma magari si tratta effettivamente di un caso fortuito).
Come sia, come non sia, ancora oggi, a scrivere che don Manfredo Tafuri non capiva niente del mondo, pochi ci si mettono.

- "That's my family Kay, It's not me" (spiega un gentile Al Pacino / Michael Corleone a un'attonita Diane Keaton / Kay Adams)

Chiacchierando nessuno riesce a tirare fuori uno straccio di argomento per difenderlo, per dire: "sì però, quel pezzo lì era importante allora e importante oggi".
Poi, però, venendo al dunque (e scriviamo una cosa), nessuno ha tempo di documentarsi, di leggere, di riprendere quel libro taldeitali e così via.

Curioso. A me da studente piaceva moltissimo la faziosità della storia (delle storie) di Zevi e la praticità del Frampton.
Che però non si poteva (adesso non so, perché non seguo più il tutto da vicino) dire. E allora ti sparavi 'sti due volumi del Tafuri con Dal Co, e gli altri saggi che a diverso titolo erano assolutamente illeggibili e incomprensibili.

Tafuri, a parte questa straordinaria e pazzesca somiglianza con Stanley Kubrick (chissà se se ne erano mai accorti?), che cos'altro ci lascia?

Boh... A me sembra il classico intellettuale da ventesimo secolo, con tutti i suoi (non così tanti) pregi, e i suoi (sterminati) difetti.
Ti costruisci un'immagine del mondo, eppoi tutto quello che non ci sta dentro lo tagli fuori, lo stronchi, cerchi di eliminarlo...
Renzo Piano, tre righe in nota alla storia dell'architettura italiana dal quarantaquattro all'ottantacinque. Ah be'.

- Si be'.
- Ah be'...
- Ho visto un re.
- Se l'ha vist cus'e'?
- Ho visto un re. Che piangeva... un re seduto sulla sella...


...piangeva tante lacrime ma tante che bagnava anche il cavallo!

- Povero re!
- E povero anche il cavallo...

Che poi c'è questo altro paradosso.
Che Tafuri scriveva in un italiano che nessuno capiva. Da studente, tu leggevi questa pagina e alla fine non avevi capito nulla. Poi la rileggevi e non capivi nulla uguale. Passavi alla pagina successiva ed era peggio.
Dopo qualche anno, ti ricapitava il libro taldeitali sotto il naso e rifacevi l'esperimento e ancora non capivi mica nulla.

L'unico libro che si capiva era la storia dell'architettura italiana dal 1944 al 1985.
Che però aveva questa caratteristica che era una storia che raccontava di un mondo che sicuramente era nella testa di Tafuri, ma che non corrispondeva al mondo reale intorno a noi.

Buffo (a dir poco).
Senza contare di quando andavi all'estero. Che eri alla facoltà xyz e incontravi uno che ti diceva:
"Italiano! Che fortunato! Poter leggere Tafuri nella sua lingua: grande invidia. Per noi il disastro sono le traduzioni, perché lì si perde molto...".
E tu a rispondere; "Eh, sì. Deve essere proprio la traduzione. In italiano fila tutto liscio e chiaro. Sorry" (poi giravi la testa dall'altra per non dovere guardare l'interlocutore negli occhi).

...e sempre allegri bisogna stare che il nostro piangere fa male al re...
...fa male al ricco e al cardinale
...diventan tristi se noi piangiam,
...e sempre allegri bisogna stare che il nostro piangere fa male al re...
...fa male al ricco e al cardinale
...diventan tristi se noi piangiam,

(continuano Dario Fo e Enzo Jannacci nella loro celebre canzone scritta apposta in onore di Manfredo Tafuri...)

Peter Lang nella breve mail di accompagnamento scrive:

"Tafuri should also be held accountable for, not the least his leading role in squelching the many effervescent experimental movements that were emerging through the sixties. Tafuri's ridged Marxist dogma - some don't hesitate to say Stalinist, should also be examined for what it could not accept, namely a level of architectural heterogeneity that remained largely marginalized throughout his work."

Qui non sono sicuro di essere d'accordo.
Quelli che Peter chiama gli effervescenti movimenti sperimentali, sono il punto di partenza di quello che è l'architettura contemporanea attuale.
Senza il Superstudio non avremmo Koolhaas e lo star-system. I Metabolist, Kikutake, sono il luogo di partenza di Toyo Ito e Sejima.
Etichettare Cedric Price e gli Archigram come un "effervescente movimento sperimentale" mi sembra un'operazione vagamente riduttiva.

Quelli che Peter definisce come una sorta di mattacchioni dalle idee strane, erano quelli che avevano capito il mondo con trent'anni d'anticipo. Il Sottsass che va nel deserto è lo stesso Sottsass che qualche anno dopo schianterà tutto il mercato globale del furniture design con Memphis.
Altro che "effervescente". Isozaki, Hans Hollein, i radical, erano degli assassini (ovviamente in senso di complimento) che stavano stravolgendo completamente le regole del gioco.

Questa idea che gli architetti radicali erano dei simpaticoni che facevano dei disegnini divertenti e ascoltavano i Beatles, è un equivoco tipicamente italiano.
A me sembra che loro erano personaggi lucidissimi, che lavoravano in maniera sistematica e implacabile usando parole d'ordine del tipo: network globale, società dell'immagine, progettare il desiderio. Facendo piazza pulita di un'intera generazione di architetti e critici che usavano strumenti progettuali e concettuali orribilmente spuntati e non particolarmente utili per venire a capo della realtà.

Che Tafuri di tutto questo non capisse nulla mi sembra evidente (da questo punto di vista non è che il lavoro di Tafuri marginalizza questi movimenti, è l'affermazione su scala globale di questi movimenti che marginalizza Tafuri).

Dopodiché,
io ammetto i miei limiti. Non sono uno storico, non sono un critico, magari 'sti cazzarola di libri di Tafuri io non li capivo perché sono scemo. Possibilissimo.
Che io ho un q.i. in grado di capire il Frampton, Benevolo, William Curtis, Zevi... Ma che si ferma di fronte a don Manfredo.

Ma allora, tra tutte queste persone intelligenti, non ce ne sarebbe una che mi spiega perché Tafuri era importante allora e perché dovrebbe esserlo adesso?

Attenzione. Senza trucchi, please (ti conosco mascherina).
Scrivendo in un italiano che io capisco. Come fosse il bignami.
Se riusciamo a spiegare tutto l'universo scibile a colpi di bignami, dovrà pure esserci il modo di tradurre il Tafuri-pensiero per quelli come me. Perché poi, come ci ricordano quelli come Jannacci e Gaber, al mondo oltreché ai re, ai ric, ai siur e ai cardinali ci sono anche quelli che portano le scarpe da tennis, quelli che sono un po' dei barbun... (descrizione che a grandi linee funziona molto bene per me):

El purtava i scarp de tennis, el parlava de per lu
...rincorreva già da tempo un bel sogno d'amore.

El purtava i scarp de tennis, el g'aveva du occ de bun
...l'era il prim a mena via, perche' l'era un barbon.

L'an truva' sota a un muc de carton, l'an guarda' che 'l pareva nisun,
l'an tuca che 'l pareva che'l durmiva lasa sta che l'e' roba de barbon...

El purtava i scarp de tennis, el parlava de per lu
...el purtava i scarp de tennis, perché l'era un barbun,
...el purtava i scarp de tennis, el parlava de per lu

...el purtava i scarp de tennis, perché l'era un barbun...
 
 
  LUKA SKANSI

 
Luka Skansi, 1973, Dottore di ricerca in Storia dell'architettura e della città, IUAV, Facoltà di Architettura di Venezia.
L'opera storico-critica di Manfredo Tafuri è talmente complessa e delicata che ha prodotto soprattutto epocali fraintendimenti.

Non vorrei far parte di coloro che difendono senza incertezze la sua opera (poiché diverse sarebbero le cose da rimettere in discussione) né di quelli che cercano forzatamente in lui cause determinanti per le morti dell'architettura, pesi, soffocamenti, in quanto ritengo che la sua opera sia, nel bene e nel male, del tutto sepolta e dimenticata. Viene a dir poco ignorata, in particolar modo nel contesto italiano, ad eccezione di pochi recenti e importanti studi.

Non vorrei neanche entrare nei numerosi temi che Tafuri ha affrontato e analizzato, in quanto la forma di instant discussion qui proposta, per ovvie ragioni di brevità e dinamicità, non offre il contesto appropriato per un'analisi circostanziata e adeguatamente completa dei singoli argomenti. Quello che mi sentirei di specificare invece è una sorta di cauta premessa, o meglio, auspicio per qualsiasi tipo di dibattito futuro sull'opera di Tafuri.

Quello che ritengo stia emergendo sempre più, e che in occasione della conferenza newyorkese è diventato del tutto evidente, è che bisogna iniziare a fare alcune distinzioni teoriche e pratiche prima di affrontare l'argomento in maniera sufficientemente rigorosa, "scientifica" e se si vuole "storica". Con ciò non si intende seppellire le volontà extra-filologiche di discutere Tafuri, ma solamente rendere chiaro che solo conoscendo a fondo i problemi che si affrontano è possibile evitare un risultato solamente negativo o addirittura del tutto insignificante.

Innanzitutto bisogna tornare a studiare i suoi scritti. Bisogna sgombrare la discussione dal chiacchiericcio accademico, dalle opinioni, dalla continua aggressione dei problemi esposti da Tafuri, basata sulla solita ignoranza e sulla solo parziale comprensione di ragioni e di cause. L'unico modo, a mio avviso proficuo, è aggiornarsi sui recenti studi e saggi pubblicati, sulle tesi di dottorato svolte un po' in tutto il mondo, confrontandoli costantemente con la fonte primaria: i testi di Tafuri.

Il secondo passo necessario è fare una sorta di separazione generazionale per selezionare il proprio interlocutore. Non credo più che la generazione di Tafuri o di quelli che hanno avuto l'occasione di lavorare, dialogare o confrontarsi con lui (sia nel contesto americano che in quello italiano, ma anche qui ci sono delle rare eccezioni) abbia la capacità di aggiungere molto di più a quello che già si conosce e che riesca a uscire dalla imponente e conflittuale individualità del personaggio. Concretamente, a New York sono stati in pochi ad affrontare Tafuri, mentre molti hanno soprattutto parlato del loro rapporto con Tafuri, del loro ricordo di Tafuri.

Il terzo punto, sebbene può sembrare del tutto banale, è cercare di rispondersi alla domanda basilare: perché bisogna tornare a occuparsi di Tafuri? Che cosa cerchiamo in Tafuri? Un proposito che non può semplicemente rispecchiare una moda post-strutturalista, come sembra sia quella americana, o da una semplice ambizione per l'indagine monografica chiusa in se stessa e del tutto inoperativa, come spesso accade nei circoli accademici italiani.

Il quarto passo che va fatto prima di ri-iniziare a parlare di Tafuri è quello di distinguere due discorsi che vedo, in questo specifico momento storico, del tutto separati: da una parte il rapporto tra Tafuri e il mondo del progetto e dall'altra Tafuri e la storiografia dell'architettura. Sono due mondi che usano, leggono ed elaborano la disciplina in maniera sostanzialmente differente e che cercano in Tafuri risposte del tutto diverse (il che non esclude un loro confronto in futuro).

Gli storici hanno il compito di storicizzarlo, rendere evidenti le diverse fasi della sua produzione storico-critica, mettere in luce i fondamentali paradigmi sgomberando le ipotesi messianiche e risolutive della sua opera, mettendo in discussione le sue tesi che sono solo parzialmente presenti solamente in Tafuri. Egli è anche, e qualche volta soprattutto, un intellettuale che appartiene ad un'epoca storica, che ha concettualizzato la realtà e l'architettura in una determinata maniera. Comprendere la vastità dei problemi affrontati da Tafuri significa anche storicizzare un'intera epoca di pensiero, nella quale siamo ancora parzialmente ancorati.

Per quello che riguarda il mondo del progetto penso che la conoscenza dei testi di Tafuri sia purtroppo ad un livello ancora, senza alcuna aspirazione sprezzante, didascalico: ovvero Teorie e storia dell'architettura, Progetto e utopia e La sfera e il labirinto.

Tutto ciò porterebbe ad affrontare Tafuri fuori da una convinzione diffusa e affrettata, come quella italiana, che Tafuri ha ucciso l'architettura italiana, o quella americana che vede la sua opera come marxista-ortodossa o addirittura, come leggo, stalinista. Queste sono etichette del tutto inutili e fuorvianti e non offrono nessun vero strumento critico per affrontare la sua opera.

Se mi è permesso commentare il convegno di New York, credo che il mondo americano pecchi di due tipi di incomprensioni: la prima è, convinzione diffusa tra i relatori, che si pensi di trovare in Tafuri uno sbocco politico-critico per il progetto contemporaneo, trasformandolo in una sorta di messia marxista che può riaprire gli occhi sul duro mondo del bushismo postdemocratico (molti interventi al convegno newyorkese hanno cercato di estrapolare dalla "Ricerca del Rinascimento" la nozione di "sprezzatura", di trasgressione della regola classica operata dagli architetti del primo Cinquecento, per una nuova concettualizzazione del progetto contemporaneo, ma che, come sembra evidente a tutti, vive in un'epoca nella quale vi è una totale assenza di regole, e quindi non ha più niente da trasgredire).

La seconda è quella che non riescono a staccarsi dall'idea del formato critico della pubblicazione "Any" (n. 25, 2000) e dalla possibilità di affrontare il suo lavoro in maniera un po' più complessa rispetto al commento e la conoscenza delle traduzioni inglesi, per quanto buone o cattive, dell'opera tafuriana (è singolare notare come gran parte degli articoli saggi di Tafuri pubblicati nelle riviste italiane abbia avuto sempre contemporaneamente anche la traduzione, in fondo alle riviste, in inglese. Queste sono state sempre ignorate negli studi americani). Considero infine la traduzione di Daniel Sherer eccellente, con un'ottima introduzione, e credo che in seguito potrà risultare determinante per il contesto anglosassone, sono convinto che aprirà ulteriori strade per nuovi studi e nuove comprensioni del lavoro di Tafuri.

Credo che l'unica vera strada sia quella di tornare a riflettere su questi argomenti dal punto di vista della nostra generazione. Tafuri non ha soppresso nessuno, né ucciso nulla (a parte forse molti giovani storici nei concorsi per le cattedre): ha semplicemente storicizzato dei fenomeni contemporanei, illustrando delle contraddizioni, il che è molto diverso. Ha scritto soprattutto dei libri e dei saggi che rimangono dei capisaldi per la storiografia dell'architettura. È da qui che bisogna ripartire.
 
 
  FRANCESCO GAROFALO

 
Francesco Garofalo, responsabile di Garofalo Miura Architetti e Professore di progettazione presso la Facoltà di Architettura di Pescara, ha pubblicato libri sull'architettura italiana, su Adalberto Libera e Steven Holl. Sono stato al convegno su Tafuri a New York, e vorrei approfittare di questa occasione per sviluppare il mio intervento nel dibattito che ha concluso le due giornate. Sperando di chiarire perché la posizione di Peter Lang non mi convince affatto, vorrei proporre una diversa ricostruzione dell'impatto di Manfredo Tafuri sull'architettura contemporanea. È dal 1994 che mi chiedo perché si elude il problema: il numero commemorativo di "Casabella" era molto ricco, ma non conteneva un solo articolo che parlasse del rapporto tra lo storico e gli architetti. Marco Biraghi ha cominciato a farlo, ma dovendo ridurre un libro impegnativo a una battuta, mi è sembrato che parlasse piuttosto dell'influenza degli architetti su Tafuri, che di quella opposta. Libro di Biraghi a parte, è in corso una rimozione frettolosa e superficiale che tende ad attribuire allo storico romano-veneziano la responsabilità dei guai dell'architettura attuale. In particolare, gli si vuole imputare la paralisi creativa dell'architettura italiana che non avrebbe avuto la forza di scrollarsi di dosso la radicalità della sua critica ideologica.

A New York si è detto fin dall'inizio che bisognava superare luoghi comuni come l'attribuzione a Tafuri di una sentenza di "morte dell'architettura". Tuttavia, poco si è detto dell'architettura che la sua critica corrosiva, ma anche selettiva, ha incoraggiato. Che abbia contribuito a far naufragare le simpatiche utopie radicali dei tardi anni Sessanta può preoccupare Peter Lang, e i numerosi fan dell'attuale revival; a me non suscita nostalgie particolari. Credo invece che il discorso di Tafuri sia stato "tradotto" da alcuni architetti, o almeno ha trovato in loro una vera consonanza disciplinare. Per brevità mi limito a fare i nomi di Kahn e Scarpa, ma soprattutto di Stirling e Rossi. Quale era il paradigma comune a queste figure, prima che stabilissero liaisons dangereuses con lo storicismo? La costruzione del progetto come messa in scena o narrazione del frammento, la rottura dell'unità dell'organismo architettonico, e la diffidenza per l'utopia. Questo paradigma è potente, anche perché per la prima volta l'architettura contrae uno speciale debito con la riflessione filosofica, trasformandosi in un'attività autoriflessiva. Da qui nasce quella che è stata chiamata l'architettura critica o Critical practice (una parola che in inglese può significare sia "professione", che "pratica" in senso foucaultiano).

La cosa notevole è che in fondo il paradigma del frammento perdura negli anni ottanta e, al di la delle forme superficiali e dell'aggiornamento filosofico, non viene realmente superato dal decostruttivismo. Esso propone un nuovo Zeigeist determinista, per il quale ad un mondo caotico e "indecidibile" dovrebbe corrispondere un'architettura che lo sia altrettanto. Questa filosofia funziona anche come base giustificativa dell'autografia delle superstar fino all'ultima generazione, e ci lascia in eredità un gran numero di architetture goffe e deformate dalla necessità di corrispondere all'intellettualismo dei propri autori.

Si dirà: ma quale sarebbe l'alternativa? Io credo che la traccia di una posizione diversa sia visibile da molti anni. È una posizione che consente la riconquista dell'unitarietà senza cadere nel recupero di un'organicità moderna e tanto meno post-moderna. È una posizione sviluppatasi nel triangolo tra Basilea, Londra e la penisola iberica, su remote premesse italiane. Le prime avvisaglie si trovano proprio nella critica a Tafuri di Ignasi de Sola Morales, soprattutto se temperata dall'altro suo testo: "Architettura debole". Una nuova nozione di realismo e persino di monumentalità non sono estranee a questa possibile via d'uscita. Del resto, qualcuno vede in giro altre strade? O ha il coraggio di proporci la palingenesi digitale?

Negli ultimi tempi si è affacciata negli Stati Uniti una tesi che si è definita "post-critica" (Cfr. "LOG" n. 5, 2005), e che confesso di non avere capito fino in fondo. Mi pare che i suoi sostenitori si approprino dei risultati dell'ultimo Koolhaas, quello più orientato al contenuto e "performativo", per mettere definitivamente in scacco la figura di architetto-intellettuale incarnata da Peter Eisenman. Per coerenza con quanto detto finora, vorrei esprimere un parere definitivo solo in presenza di architetture convincenti. La mossa tuttavia deve essere insidiosa, se lo stesso Eisenman vi ha dedicato il suo intervento al convegno. Ripartendo da Tafuri, ha sintetizzato tutto il ciclo dell'architettura contemporanea come frutto di una "politica dell'attenzione ravvicinata" (close attention), che coincide con il paradigma critico che ho descritto. A chi ne dichiara la fine, ha replicato non con una difesa, ma con la proposta di un superamento, qualcosa che deve ancora prendere la forma di un progetto compiuto. Infatti, ha spiegato questa idea raccontando diffusamente la trama di un film francese. Così facendo, ci ha offerto uno dei pochi interventi capaci di attualizzare il tema del convegno senza banalizzarlo (insieme a Marco De Michelis, Reinhold Martin e Antoine Picon), E tuttavia mi ha ricordato il barone di Munchausen che si salvava dallo sprofondare nella palude tirandosi per i capelli.
 
 
  GABRIELE MASTRIGLI

 
Gabriele Mastrigli, architetto e critico, vive a Roma. Insegna teoria e progettazione presso la Facoltà di Architettura di Ascoli Piceno e indaga l'editoria come forma critica di architettura. VISIONE DEL RINASCIMENTO. (1) A volte è utile partire dalla fine. Così Ricerca del Rinascimento, l'ultimo libro pubblicato da Manfredo Tafuri, appare oggi come il tentativo più compiuto dello storico veneziano di risalire la china dell'intero pensiero architettonico contemporaneo, riportandolo ai suoi presupposti così come configurati all'inizio dell'età rinascimentale. È in questo modo che Tafuri individua il cuore del problema: il Rinascimento si dà infatti come l'età della rappresentazione, il momento in cui le idee classiche di bellezza, purezza, ordine e verità appaiono per la prima volta non riproducibili ma rappresentabili attraverso l'esperimento, la finzione, l'artificio.

1. L'autore ringrazia Francesco Altea, Stefanie Lew e Daniele Pisani per i preziosi consigli e l'aiuto nelle traduzioni in inglese e dal tedesco.
2. Manfredo Tafuri, Ricerca del Rinascimento. Principi, città, architetti, Einaudi, Torino, 1992, p. 15.
3. "Durch diese eigentümliche Übertragung der künstlerischen Gegenständlichkeit in das Gebiet des Phänomenalen verschließt die perspektivische Anschauung der religiösen Kunst die Region des Magischen, innerhalb derer das Kunstwerk selber das Wunder wirkt, und die Region des Dogmatisch-Symbolischen, innerhalb derer es das Wunder bezeugt oder voraussagt, - sie erchließt ihr aber als etwas ganz Neues die Region des Visionären, innerhalb derer das Wunder zu einem unmittelbaren Erlebnis des Beschauers wird, indem die übernatürlichen Geschehnisse gleichsam in dessen eigenen, scheinbar natürlichen Sehraum einbrechen und ihn gerade dadurch ihrer Übernatürlichkeit recht eigentlich "inne" werden lassen;" Erwin Panofsky, Die Perspektive als symbolische Form, in: Vorträge der Bibliothek Warburg, 1924/25, B.G. Teubner, Leipzig-Berlin, 1927, p. 330. Ripubblicato in: Aufsätze zu Grundfragen der Kunstwissenschaft, Berlin, Hessling, 1974, p.167. Traduzione dal tedesco dell'autore. Si noti che anche la traduzione del passaggio nell'edizione italiana citata in nota da Tafuri, che qui riportiamo per confronto, presenta numerose incongruenze rispetto all'originale tedesco: "Attraverso questa peculiare trasposizione della oggettività artistica nel campo fenomenico, la concezione prospettica sbarra ogni accesso per l'arte religiosa alla regione del magico, nell'ambito del quale l'opera stessa preannuncia - ma dischiude per essa una regione completamente nuova, la regione del visionario, nell'ambito del quale il miracolo diventa un'esperienza immediatamente vissuta dalla spettatore, poiché gli eventi soprannaturali irrompono nello spazio visivo apparentemente naturale che gli è proprio e gli permettono così di "penetrare" propriamente la loro essenza soprannaturale;" in Erwin Panofsky, La prospettiva come "forma simbolica", a cura di G.D. Neri, trad. di Enrico Filippini, Feltrinelli, Milano 1961 (10a ed. 1994), p. 76. Imprecisa è anche la traduzione inglese. Erwin Panofsky, Perspective as Symbolic Form. Translated by Christopher S. Wood (New York, NY: Zone Books, 1991), p. 72.
È interessante notare inoltre come la recente edizione inglese di Ricerca del Rinascimento riveli implicitamente il problema di questo passo. Il traduttore Daniel Sherer, pur senza riportare la traduzione completa del passaggio, rimuove l'errore di Tafuri, invertendo di fatto il significato della sua falsificazione: "The perspectival concept opens religious art to the visionary realm. In this space the miraculous can be immediately grasped by the beholder; this takes place because supernatural events erupt into apparently natural visual space belonging to them and which permits them to 'penetrate' to their supernatural essence (...)". Manfredo Tafuri, Interpreting the Renaissance. Princes, Cities, Architects, trad. Daniel Sherer, Yale University Press, New Haven, 2006, p. 13".

  L'imitazione dell'antico -topos teorico degli architetti del Rinascimento- pende così tra due estremi: da una parte, cosciente dell'irrecuperabilità dell'ideale vagheggiato, l'imitazione ripiega su artifici e finzioni; dall'altra, ci spiega Tafuri, essa non rinuncia al superamento del suo modello e trova proprio nella costruzione di uno specifico apparato rappresentativo il senso e lo scopo della "rinascita" del fare architettonico.

Va da sé che la rappresentazione non è qui il semplice medium che rimanda alla verifica della costruzione. Essa è il luogo specifico in cui sforzi teorici e prassi concreta dell'architetto convergono sovrapponendosi. È, per dirla in termini più attuali, il luogo in cui il progetto si legittima di per sé e la costruzione teorica si realizza proprio come nelle pratiche rappresentative che nel Cinquecento si affacciano come la vera novità dell'epoca. Non tanto il linguaggio degli ordini classici quanto la sua riformulazione da parte della trattatistica, la riscoperta del modello di architettura, ma soprattutto l'invenzione della prospettiva sono i luoghi in cui si progetta la rappresentazione. È attraverso questo progetto che l'architetto sancisce il superamento dall'antico facendosi carico in prima persona di tale svolta. È qui che il punto di vista diventa visione e dunque non solo prassi rappresentativa ma, letteralmente, teoria.

Tafuri, va detto, è molto più cauto nell'enfatizzare il ruolo dell'architetto e ribadisce a più riprese il carattere arbitrario e convenzionale delle regole istituite in seno ai nuovi canoni di rappresentazione. Tuttavia, se si gratta un po', sotto la dura scorza del disincanto tafuriano si rivela la straordinaria tensione che alimenta la forza dello storico, molto meno "debole" di quello che lo stesso Tafuri lascia intendere: una forza il cui scopo ultimo non sembra semplicemente quello di "lasciar sospesi i verdetti" ma al contrario di ribadire il ruolo di un'arte e un'architettura che con coraggio danno a se stesse lo statuto di ipotesi tese ad un, pur imprecisabile, futuro, "con tutti gli strappi che ciò comporta". A dimostrazione della tensione che anima lo storico (e dunque l'architetto) valga lo svelamento della clamorosa falsificazione operata su uno dei più celebri passi di Panofsky, in cui Tafuri, attraverso una ardita interpolazione, tenta di sbarazzarsi di quello che ritiene l'ultimo residuo idealistico della rappresentazione rinascimentale, ovvero il carattere visionario dello sguardo prospettico così come letto dallo storico tedesco. Tafuri cita testualmente dall'ultima pagina de La prospettiva come "forma simbolica":

"La concezione prospettica sbarra ogni accesso per l'arte religiosa alla ragione del visionario, nell'ambito della quale il miracolo diventa un'esperienza immediatamente vissuta dalla spettatore, poiché gli eventi soprannaturali irrompono nello spazio visivo apparentemente naturale che gli è proprio e gli permettono di "penetrare" propriamente la loro essenza soprannaturale; (...)". (2)

Ma Panofsky in realtà aveva scritto:

"Attraverso questa peculiare trasposizione dell'oggettività artistica nell'ambito del fenomenico, la visione prospettica preclude all'arte religiosa sia la regione del magico, all'interno della quale la stessa opera d'arte compie il miracolo, sia quella del dogmatico-simbolico, all'interno della quale essa testimonia o preannuncia il miracolo. Essa le dischiude, tuttavia, come assoluta novità la regione del visionario, all'interno della quale il miracolo diviene un vissuto immediato dello spettatore, poiché gli eventi soprannaturali, per così dire, irrompono nello spazio visivo apparentemente naturale che gli è proprio e mediante ciò gli consentono di "interiorizzare" la sua essenza soprannaturale." (3)

La prospettiva, secondo Panofsky, sbarra la strada al magico proprio per aprire al visionario, ovvero alla costruzione di uno specifico spazio figurativo a partire dagli elementi e dallo schema dello spazio visivo empirico. Per questo è vero, come sintetizza più avanti Tafuri, che l'elemento nuovo, rispetto all'intero medioevo, è uno soltanto ma sostanziale: l'introduzione di un sistema compiutamente rappresentativo in cui non i "contenuti" sono nuovi, bensì il processo che permette la loro formalizzazione in una sistematica "messa in immagine" del mondo. Ma non è vero che ciò porta, come prosegue Tafuri appoggiandosi surrettiziamente a Panofsky, al "declino del visionario". Al contrario è proprio nella dimensione visionaria inaugurata dalla prospettiva che la rappresentazione si dà come esperienza immediata che, conclude Panofsky, "sembra ridurre il divino a mero contenuto della coscienza umana, ma insieme amplia la conoscenza umana sino a renderla capace di accogliere e contenere in sé il divino"; una dimensione che si presenta come uno dei luoghi eminenti in cui l'architettura e la cultura di età umanistica -tornando al passaggio di Tafuri- tengono saldamente unite due opposte polarità: quella che si basa su stabili fondamenti e quella che si rifà all'arbitrio soggettivo.

Ma se è vero, come mostra la Novella del Grasso legnaiuolo con cui Tafuri apre il libro, che è la trasgressione che fonda la regola e non viceversa, allora si può leggere lo stravolgimento -il tradimento- del passo di Panofsky operato da Tafuri come esplicita legittimazione del ricorso alla scorrettezza nel mestiere dello storico; una scorrettezza che opera in funzione di una ideologia che progetta la storia forzandone necessariamente le stesse regole, le quali vengono tradite non per il gusto dell'effrazione o peggio per una qualunque ipotesi decostruttiva, ma al contrario per ritrovare il senso dell'atto stesso del ricercare e dunque del progettare.

Per questo, come ha ricordato Cacciari nell'orazione funebre per Manfredo Tafuri, "il libro è ben più di una ricerca sul Rinascimento: è la visione del Rinascimento come ricerca." Allora Ricerca del Rinascimento non è soltanto il "Wittkover degli anni Novanta", come ha sostenuto Joseph Connors, ovvero il modello di un nuovo genere storiografico che ridisegna la figura del pensatore umanista abbattendo i confini tra storia, architettura, cultura e scienza. È soprattutto il tentativo di rimettere insieme in gioco la storia (degli storici) e il progetto (degli architetti) come due facce distinte della stessa medaglia, quella appunto della rappresentazione, che è visione e dunque teoria che "inquieta il nostro presente" portandoci a interrogare in forme sempre più radicali la realtà. Non a caso in un'intervista del 1992, alla domanda su quale fosse il segreto delle grandi opere degli architetti del Cinquecento e del perché esse suscitino ancora interesse, Tafuri rispondeva: "il loro segreto siamo noi".
 

La foto in copertina di ARCH'IT è di Giovanni Klaus Koenig.

 

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Manfredo Tafuri
"Interpreting the Renaissance: Princes, Cities, Architects"
Yale University Press / Harvard University GSD
pp. 568, $50.00 $37.00


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