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Sulla profondità del tempo e dello spazio. Conversazione con Telmo Pievani



Telmo Pievani è un filosofo della scienza specializzato nel campo della filosofia della biologia e delle scienze cognitive. È autore di diversi saggi tra cui Homo Sapiens e altre catastrofi. Per una archeologia della globalizzazione (Meltemi, 2002). La ragione del nuovo sconfinamento disciplinare che propongo con questa intervista è legata al fatto che più procedo nei miei studi sulla tecnica e i nuovi media più mi convinco della necessità di assumere un punto di vista biologico ed evolutivo. Occuparsi di nuovi media significa occuparsi della trasformazione dell'uomo e dei modi della sua relazione con lo spazio. Ragionare sul presente significa interrogarsi sul passato (su quello che siamo stati e da cui siamo venuti) per guardare nel futuro. Non c'è presente se non a partire da un passato e in vista di un futuro. [MLP]



MARIALUISA PALUMBO: Questa conversazione riguarda un tema apparentemente lontano dall'architettura e dalle nuove tecnologie di rete. Eppure, a ben guardare, interrogarsi sull'evoluzione umana significa anche, in un certo senso, affrontare le origini dell'architettura e della tecnica. Infatti, se è nell'attraversamento dello spazio aperto (quell'attraversamento in cui come architetti riconosciamo il momento generativo dell'architettura poiché l'attraversare implica il lasciare tracce ovvero l'abitare e segnare lo spazio), che la famiglia degli ominidi si distacca da quella delle scimmie antropomorfe (attraverso una ristrutturazione anatomica completa che a partire dall'alluce e dalla pianta del piede giunge sino alla forma del cranio), con la comparsa delle prime pietre scheggiate (alcuni milioni di anni dopo l'acquisizione dell'andatura mista) l'evoluzione umana comincia a lasciare delle tracce di natura molto diversa dai propri resti o impronte fossili, tracce peculiari al solo genere umano.



La tendenza all'attraversamento dello spazio e, in un secondo momento, alla costruzione di strumenti (vere e proprie tecniche, codificate, trasmesse ed elaborate sulla base di modelli mentali in vista di utilizzazioni future), ancor prima della comparsa di forme di intelligenza simbolica, sembrano costituire la cifra del genere umano. Per questo ho trovato molto significativo che il tuo libro Homo Sapiens e altre catastrofi si apra col racconto del lancio della sonda spaziale Pioneer 10 dalla base di Cape Canaveral (il 2 marzo 1972) verso l'orbita di Giove. In un certo senso, un filo continuo lega i primi ominidi a questa "creatura curiosa" che dopo aver raggiunto l'orbita di Giove è stata ulteriormente accelerata dalla fionda gravitazionale generata dal pianeta e lanciata di rimbalzo verso l'orbita di Plutone, il pianeta più estremo del sistema solare e da qui, ancora, verso la stella Aldebaran, fuori dal sistema solare, nella costellazione del Toro... Dal tempo profondo allo spazio profondo, la riflessione sul nostro passato e il nostro futuro sembrano profondamente intrecciate!

TELMO PIEVANI: La metafora della sonda lanciata nello spazio mi è sempre parsa molto significativa perché ben rappresenta l'idea che l'evoluzione umana si svolge non soltanto nel tempo, ma anche nello spazio, uno dei temi conduttori di Homo sapiens e altre catastrofi. Noi associamo sempre l'evoluzione, giustamente, a una discendenza genealogica, a una storia di ramificazioni e di trasformazioni. Considerando soltanto l'aspetto temporale, però, corriamo il rischio di affidarci a "narrazioni" seduttive, a ricostruzioni in cui il presente viene letto come una inevitabile conseguenza del passato, una marcia lineare di progresso. Se invece immergiamo l'evoluzione anche nella sua dimensione spaziale, cioè ecologica su piccola e su larga scala, scopriamo un altro mondo, ci accorgiamo che le specie sono insiemi di popolazioni che si spostano in contesti concreti, che si frammentano, che migrano, che si incontrano e si scontrano nello spazio. La storia di Homo sapiens è soprattutto questo: una specie giovane, nata in Africa duecentomila anni fa, che poco dopo la sua speciazione comincia a spostarsi, a migrare, a colonizzare prima il Vecchio Mondo e poi i nuovi mondi del Pacifico e delle americhe.

Questi sentieri di movimento nello spazio diventano le linee fondamentali della diversificazione nei differenti popoli della Terra. Diventiamo una specie cosmopolita invasiva, adattandoci a nicchie ecologiche molto diversificate. Incontriamo i nostri cugini arcaici e poi in un modo o nell'altro li sostituiamo. In questo comportamento riscontriamo, secondo me, qualcosa di molto vicino a ciò che ci rende effettivamente "umani", attraverso poi le grandi transizioni dell'invenzione dell'agricoltura (un'altra scoperta che altera profondamente la disposizione dei sapiens nello spazio) e dell'evoluzione culturale e tecnologica, quel tipo particolare di evoluzione che oggi ci permette di esplorare gli spazi profondi del nostro sistema solare con le sonde più sofisticate.



MLP: Nell'immaginario comune è ancora fortemente radicata l'idea di un'evoluzione umana avvenuta per tappe o gradini successivi secondo una sequenza lineare e progressiva che avrebbe determinato una graduale trasformazione, di un'unica specie, dalla scimmia all'uomo. Oggi sappiamo non solo che l'evoluzione umana ha avuto la forma del cespuglio più che della scala (con una molteplicità di specie conviventi con caratteristiche proprie) ma anche che i meccanismi stessi dell'evoluzione hanno una natura estremamente contingente dove, spesso, quelli che potrebbero apparire come adattamenti primari sono in realtà effetti collaterali, e quelli che potrebbero apparire perfetti adattamenti della forma alla funzione sono il frutto di improvvisi e imprevedibili bricolage. L'evoluzione insomma non è più il regno della necessità ed "ottimalità adattativa"...

TP: Certamente. Quella è un'idea legata alla nostra abitudine di considerare l'evoluzione per selezione naturale come il prodotto di una intelligenza, di un progetto. Abbiamo pensato di sostituire il "disegno intelligente" dei creazionisti con un'interpretazione della selezione naturale a sua volta intesa come sommo architetto e progettista, o addirittura come un ingegnere che ottimizza, pezzo per pezzo, le sue "creazioni". In realtà la selezione naturale fa quello che può, in un contesto di vincoli interni (vincoli di sviluppo) e di vincoli di contesto. L'adattamento stesso è un concetto relativo, dipendente dalle circostanze esterne contingenti, sempre incompiuto. Andrebbe inteso più come un processo che come un prodotto. E poi molto spesso gli organismi, anziché rispondere alle sollecitazioni ambientali escogitando ogni volta tratti adattativi o strategie specifiche, sopravvivono riutilizzando ciò che hanno già a disposizione, cooptando vecchie strutture per nuove funzioni, convertendo un tratto adattativo per nuove esigenze. Come ha scritto François Jacob, evoluzione significa insegnare nuovi trucchi a vecchi geni, cioè significa lavorare più di bricolage che non di ottimizzazione. I più recenti sviluppi della biologia evoluzionistica, come l'evo-devo (biologia evoluzionistica dello sviluppo), ci insegnano esattamente questo. Il risultato su larga scala è quello di una molteplicità di soluzioni adattative, di sperimentazioni evolutive più o meno di successo, frutto di meccanismi selettivi o di derive genetiche.



MLP: Un altro mito molto radicato, messo duramente alla prova dalla teoria degli equilibri "punteggiati", è quello dell'equilibrio della natura. Oggi l'ecologia delle comunità ci insegna che gli ecosistemi con le migliori caratteristiche di resilienza, creatività interna, vitalità e diversità, sono proprio quelli vicini al limite massimo di instabilità. Assistiamo dunque ad un ribaltamento del mito dell'equilibrio naturale: gli ecosistemi in armonia stabile sono i più vulnerabili e i meno promettenti. Da questo punto di vista è interessante il caso della realizzazione della Biosfera 2, in Arizona, un ecosistema artificiale che avrebbe dovuto simulare la rete delle relazioni biologiche della biosfera reale ma che nel giro di due anni sfuggì al controllo degli scienziati divenendo una comunità ecologica autonoma dove alcune specie proliferarono ed altre si estinsero e dove, progressivamente, forse per l'evoluzione di alcuni microrganismi, il tasso di ossigeno cominciò pericolosamente a scendere, costringendo gli otto ricercatori che vivevano sotto la cupola sigillata, ad abbandonarla. Scrivi: "Biosfera 2 cominciava ad essere inospitale. Aveva deciso di autorganizzarsi secondo standard che non prevedevano la sopravvivenza di Homo sapiens. Nulla di eccezionale, sta succedendo anche alla biosfera vera."



Viviamo su un pianeta in trasformazione e che noi stessi abbiamo profondamente trasformato. Che cosa significa secondo te oggi "sostenibilità"?

TP: Quella frase è in realtà una provocazione, che nasce però dal particolare sguardo che hanno gli evoluzionisti sul problema del rapporto fra la specie umana e la biosfera. Gli esseri umani, con le loro attività (cinque cause secondo Edward O. Wilson: distruzione degli habitat, sovrappopolamento, specie invasive, inquinamento industriale e chimico, sovrasfruttamento per caccia e pesca), hanno già prodotto un'estinzione di massa della biodiversità terrestre, la cosiddetta "sesta estinzione" (se rapportata alle altre cinque del passato, le più catastrofiche, come quella che ha portato alla scomparsa dei dinosauri 65 milioni di anni fa). Ciò significa che la specie umana è in grado di alterare profondamente gli equilibri esistenti della biosfera, i cicli di regolazione che permettono la sopravvivenza delle forme più complesse di vita. È importante però ricordare che se anche l'uomo decidesse di sfogare tutti i suoi peggiori istinti distruttivi porterebbe all'estinzione principalmente se stesso e altre forme di vita complesse, ma non la vita in quanto tale, che resisterebbe comunque e avrebbe un nuovo inizio a partire da forme semplici e resistenti. Quindi la specie umana ha soprattutto il compito di salvaguardare gli equilibri ecosistemici per garantire a se stessa un futuro, oltre che per conservare la natura. La sfida ecologica è anche una sfida antropologica e una sfida scientifica.



La specie umana è stata "insostenibile" fin da quasi subito, da quando estingue tutti i mammiferi di grossa taglia nelle americhe, da quando crea un surplus alimentare attraverso l'agricoltura e l'allevamento, generando culture stanziali per la prima volta. Da quel momento, quindi da almeno dodici millenni fa, noi siamo una specie invasiva, per la quale distinguere naturale e artificiale è alquanto difficile. Il messaggio di biosfera 2 è piuttosto semplice e riguarda le dinamiche dei sistemi non lineari, cioè composti da una rete di elementi fittamente interconnessa: il cambiamento di solito tende ad accumularsi in "picchi" o transizioni discrete, anziché spalmarsi gradualmente nel corso del tempo. Questo avviene perché tali sistemi sono molto resistenti alle perturbazioni per lunghi periodi, salvo poi reagire bruscamente quando al superamento di una soglia si riorganizzano su parametri differenti. Io penso che sia un modello (di tipo fisico, ben noto) da tenere presente nel caso della relazione uomo/ambiente. Nulla a che vedere dunque con un facile catastrofismo o con certe versioni olistiche new age delle cosiddette "teorie della complessità". Si tratta invece di una valutazione seria sui migliori modelli di previsione del comportamento di sistemi non lineari quali quelli ecologici.



MLP: L'ultimo punto di riflessione che vorrei proporti riguarda la dimensione narrativa della paleontologia ma anche più in generale della biologia: i fossili non parlano da soli, così come la storia evolutiva degli organismi non può che essere ricostruita su basi ipotetiche e interpretative piuttosto che di leggi e spiegazioni esatte. Che cos'è una teoria nell'orizzonte del pensiero biologico?

TP: La biologia in senso lato è una scienza unica, perché deve fare i conti, più che in altre dimensioni della scienza, con l'irripetibilità di eventi storici avvenuti nel passato (nessuno può tornare indietro e vedere in diretta come si sono estinti i dinosauri), con la singolarità dei suoi oggetti di studio, con spiegazioni basate sulle funzioni adattative delle strutture organiche, con fenomeni che spesso non si lasciano ordinare in tassonomie precise o in leggi universalmente valide. Ciò non significa però, come ancora alcuni sostengono, che la biologia evoluzionistica non goda per questo di un pieno statuto di scientificità. Anche i fatti storici sono ricostruiti sulla base di evidenze empiriche cogenti.



La teoria dell'evoluzione ha individuato i motori fondamentali che, con regolarità, producono il cambiamento in natura. Da qualche tempo sono stati anche affinati apparati matematici e quantitativi molto efficaci. Le capacità esplicative e predittive della teoria dell'evoluzione sono indubitabili. Certo, come sempre nella scienza, non esistono fatti puri, ma fatti interpretati attraverso la lente di un'interpretazione teorica. I fatti però, insieme all'architettura argomentativa e alle inferenze logiche, sono vincoli ineliminabili per una teoria scientifica. In tal senso, oggi la "teoria" dell'evoluzione in ambito biologico non è soltanto una speculazione o un'ipotesi in attesa di conferma, bensì un programma di ricerca articolato, indispensabile per comprendere il vivente e assai fecondo sul piano sperimentale.
[26nov2007]

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La sezione interview è curata
da Marialuisa Palumbo
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