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Lanterna Magica

[urbanistica parallela 3]
Inzia, cittą dello sguardo



M.C. Escher, Eye, 1946.





Signore! questo non č il mio ombrello...
c'č qui una stella che non c'era, in quello!




 
Queste parole, che gli Inziani assumono volentieri a motto, sono scolpite sul cantone nord di piazza delle Selenie, nel cuore della città antica. Furono pronunciate da una figura che da queste parti è quasi leggendaria: Mastro Giacomo Tartucchio.

Non era un filosofo, non era poeta, non politico né stratega. Il suo particolare talento fu quello di riuscire per tutta la vita ad evitare la disidratazione pur non concedendosi il cedimento di un solo sorso d'acqua. Miracolo d'equilibrismo ottenuto mediante la scientifica immissione in quell'immaginifico contenitore corporeo di liquidi d'altro tipo, variabilmente ma perennemente spiritosi. Equilibrismo caratteristico, peraltro, che lo conduceva spesso ad esibirsi senza rete sul filo di un marciapiede immaginario il quale subiva, sotto i suoi prensili piedi, poderose ed imprevedibili oscillazioni.
Durante uno di quei numeri d'alta acrobazia questo dinoccolato flaneur venne un giorno inghiottito dalla misteriosa soluzione di continuità di una parete, che, fortuitamente, collegava con l'esterno una piccola ma accogliente sala di barbiere.

Ne uscì dopo qualche tempo, con eleganza ma non senza avventura (data l'estrema mobilità dell'apertura che lo aveva precedentemente fagocitato) odoroso d'acqua di colonia e, suo malgrado, perfettamente rasato.
Nonostante la sostanziale riuscita dell'operazione Mastro Giacomo incappò occasionalmente, nel corso della sua movimentata uscita, in un ombrello diverso da quello con cui era, si fa per dire, entrato. Della cosa non s'avvide se non quando, dopo averne riflessivamente ponderato cause ed effetti, si risolse ad aprirlo.
Fu allora che accortosi della presenza, nella concava volta dell'ampio paracqua, di un rispettabile pertugio e del consequenziale scorcio di firmamento che vi si scorgeva attraverso, pronunciò quella frase memorabile.
La rivolse, per pura esuberanza dialettica, ad un assennato lampione che passava di lì per caso.
Che queste parole, modesti prolegomeni ad un'ermeneutica dello sguardo, siano assurte a simbolo della città non deve sorprendere perché Inzia è, infatti, luogo eminentemente oculare.
Vediamo cosa ne scrive, con la sua prosa sentimentale e un poco demodé, Bernardo Volier, viaggiatore ed aeronauta del secolo scorso:

"Dio, quanto ho amato Inzia!
Da bambino, quando sedevo sul muretto che delimita il sagrato di Listonia, e ne osservavo il campanile arrivando a percorrere con lo sguardo anche la più sottile delle modanature che ne contornano la lanterna e, netta, la disegnano contro il cielo... il mio pensiero era colmo di Inzia.
Di Inzia.

Molteplice e altera, città che nel suo cielo ne ospita altre mille. Così me la immaginavo, com'era descritta nei resoconti che ne avevo letto o udito. Sin da allora osavo appena delinearne con la mente i confini, sfumati tra i colli e il mare che ne lambisce i fianchi di cavalla pregna. La popolavo poi di genti favolose, certo, ma per me più agevolmente contornabili delle sue difficili architetture.
Confesso che talvolta quei pochi dettagli e monconi che potevo cogliere nel povero costruito di Listonia mi servivano da mattoni, e ogni tanto sognavo, conscio della irrimediabile insufficienza della mia immaginazione, qualcosa che avrebbe potuto essere forse la più modesta tra le sue costruzioni ma che mi appariva baluginante e splendida come una stella cadente. Poi componevo quella stella con altre simili in un firmamento magico cui donavo il nome di Inzia.
Città per me dolcissima, perduta tra gli innumerevoli celesti dei suoi intonaci ed i rosa ineffabili dei tetti. Molti secoli fa, in qualche estrema provincia, un uomo sostenne che essa non esisteva e molti ne presero atto, nessuno si preoccupò di smentirlo. Così ancor oggi vi è, tra quelle popolazioni, chi la crede invenzione da favola.

Io, ora, povero viaggiatore di questi tempi, che ha veduto Inzia e ne ha toccato le pietre, non saprei veramente, ogniqualvolta me ne allontano ed il mio sguardo non la insolentisce più, sostenere impavidamente il contrario...".

Ed ecco con quali esili segni si presenta:
"Io credo che nessuna città al mondo si annunci con segni così tenui. In principio soltanto i gabbiani, in alto, dietro i colli, e i loro canori richiami. Poi stormi di piccoli uccelli colorati che si levano ad intervalli stranamente regolari dai rami dei grandi alberi che ombreggiano una larga e lunghissima strada.
Infine la gente.
Frotte di passeggiatori: le donne di Inzia nei loro raffinati abbigliamenti e gli uomini, sobri ed eleganti. Una miriade di chiare pagliette, velette leggere, bastoni da passeggio e tacchi alti.

Solo a questo punto Inzia compare: senza gli spruzzi di case, quegli inutili spargimenti di costruito che fiaccano le altre città.
Appare tutta insieme, di colpo. Imponente eppure ineffabile, irreale ed incredibilmente compatta, ordine senza legge, caos che una ragnatela invisibile irretisce e, senza modificarlo, trasforma nel suo opposto. Città che mai ha avuto mura che ne delineassero i confini ma che, magicamente, ha tracciato nel cielo una linea e mai l'ha superata, che da secoli si ripete, identica a se stessa. Tranquilla confutazione dell'umano computo del tempo.
È questa contraddizione irrisolta tra l'inconsistenza delle sue tracce e la sua inusitata apparizione che mozza il fiato: come se, distesi al sole sulla spiaggia, ci arrivasse addosso un'onda fresca e inattesa. Inzia è un'aquila che lascia orme di passero."
La vocazione visuale di Inzia è confermata, del resto, dal fatto che la due opere di architettura cui generalmente si associa il suo nome sono le celebri Terrazze, progettate da Gerolamo Verdolesi, ed il non meno rinomato faro di Labios. Un luogo da cui si guarda ed uno che va guardato.
Dalle Terrazze la città si vede tutta intera, fino al mare e, più in là, fino all'isola di Labios, cui la unisce un fino cordone ombelicale di terra che, quando la marea è bassa, appare sotto un sottilissimo velo d'acqua senza mai affiorare del tutto in alcun punto.

Tra Labios ed Inzia il mare è così poco profondo che la città non possiede un vero e proprio porto se non sull'isola; Da lì fino alla terraferma il trasporto delle merci e dei viaggiatori avviene tramite enormi traghetti a basso pescaggio. È sull'isola che trova posto il celebre faro di Labios, capolavoro d'ingegneria, rara e prodigiosa applicazione pratica dell'elegante e disertato principio di Francois Lavalet sulle riflessioni ottiche combinate in condizioni d'opalescenza aerea. Questo raffinato marchingegno ottico, unico nel suo genere ogni notte proietta immagini mobili nel cielo d'Inzia. Il procedimento di proiezione rimane ancora misterioso ed i guardiani del faro costituiscono una vera e propria casta che ha il compito di custodirne e tramandarne il segreto. Sappiamo solo che il suo interno è completamente rivestito di vetri rarissimi, provenienti da Carfi e da Taufania e custodisce un piccolo diamante sfaccettato, su cui sono incise (mediante particolari procedimenti di miniaturizzazione) le immagini poi proiettate in cielo. Il diamante viene sostituito ogni notte, affinché le figure non siano mai uguali a quelle della precedente, e conservato in uno scrigno segreto all'interno del faro, cosicché l'archivio del faro custodisce, di fatto, la storia di Inzia.

Tanti secoli fa, nel corso di una guerra che impose a questa silenziosa regione il suo farraginoso rumore, l'esercito di una potente città rivale, Aumone o Sastri, conquistò Inzia. Troppo deboli, o troppo saggi, per resistere ad un assalto, gli Inziani abbandonarono la città e si rifugiarono sui monti che ne cingono le spalle.
Gli invasori giunsero, chiassosi e prepotenti, saccheggiarono le case e, in molti, vi si insediarono stabilmente. Nel frattempo gli antichi abitanti, nascosti nelle loro nuove dimore montane, li osservavano in silenzio. Notte e giorno.
Dopo qualche tempo il comportamento degli invasori divenne sospettoso e bizzarro. Uscivano poco dalle case, e quando lo facevano si muovevano in modo goffo e impacciato, guardandosi intorno e osservando il cielo, scrutandosi a vicenda ed esitando persino nell'attraversare una strada.
In poco tempo le loro facce divennero smunte, pallide e pazze, le loro donne smisero di partorire, nessun bimbo giocava più nei cortili di Inzia. Infine, dalla loro postazione, gli osservatori li videro andar via: prima in gruppi sparuti poi sempre più grossi, finché l'ultimo dei gloriosi conquistatori non fuggi via lasciando il paese di nuovo libero e vuoto.

In questo modo gli Inziani sconfissero gli invasori e riebbero le case e i loro averi.
Nessun altro esercito da allora ritentò l'impresa blasfema di prendere Inzia, impresa che da allora venne anche ritenuta impossibile e folle. Perché gli eserciti possono combattere e sconfiggere dei corpi umani, corpi che hanno occhi, certo, ma anche mani, piedi, capelli... ma chi ha mai insegnato loro a combattere il loro solo, tenace e invisibile, sguardo?
Vorrei anche riportare infine, nelle sue linee generali, la grande disputa che non molto dopo l'invasione, divise i dottori della chiesa riguardo alle interpretazioni teologiche dell'evento. Ad essa diedero inizio alcuni filosofi Saltruriani che, interpretando non senza malizia l'episodio dello "sguardo Inziano" che fece impazzire i predoni, erano giunti a sostenere temerariamente che Dio non esiste oppure è cieco e dunque imperfetto, perché se egli esistesse ed i suoi occhi vedessero, nessun uomo potrebbe resistere al suo sguardo e tutti certamente impazzirebbero. Questa diabolica opinione provocò l'intervento di alcuni teologi ortodossi i quali sostennero che l'esistenza di Dio (ed il suo ottimo visus) è provata ipso facto, giacché gli uomini, in verità, sono pazzi. La loro posizione, però, era debole e, forse proprio per rafforzarla correggendola, si costituì quella che fu poi definita "Scuola teologica Inziana". I suoi membri ammettevano che non tutti gli uomini, certo, sono folli ma che alcuni lo sono e che ciò, tuttavia, basta a provare l'esistenza di Dio. Alcuni dottori però osarono di più, sostenendo che proprio chi è più vicino a Dio ed al suo sguardo è soggetto alla follia.
Conclusione logica. Ma che purtroppo non soddisfece gli ambienti teologici ufficiali, lasciando intravedere una pericolosa, ed alla lunga incontrollabile, identificazione tra follia e santità. Perciò si chiese ed ottenne l'intervento del Santo Padre, il quale, secondo le attese, bollò di eresia i teologi Inziani e decretò, onde por fine alla questione, che Dio, nella sua perfezione non può essere cieco né miope ma che, per infinita pietà, distoglie talvolta dagli uomini il suo perfettissimo sguardo, accordando loro, misericordiosamente, una limitata saggezza.
Santo è colui su cui, per grazia e concessione dell'Altissimo, lo Sguardo Divino non grava. Gli altri sono folli.

Ugo Rosa
u.rosa@awn.it
[22dec2002]

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