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Lanterna Magica

Evivva la Squola!




Pieter Bruegel il vecchio, L'asino a scuola, 1556.





Appartenere ad una Scuola è una garanzia per il futuro.
Anzi, se posso permettermi di dare un consiglio al giovane architetto: ne scelga una e, se può, organizzi un fans club. Probabilmente la sua attività professionale, ma soprattutto (se ne ha la velleità) accademica, ne avrà tutto da guadagnare.

L'architettura italiana andava forte quando la Tendenza faceva faville. È un fatto.
Costruzioni poche, buone (se ben ricordo) quasi nessuna. Però paginone sulle riviste e monografie, e saggi (biografici, autobiografici, scientifici, parascientifici, astrologanti, riepilogativi) e seminari. Cose insomma che, alla fine, si traducevano in belle cattedre universitarie.
Da quando le Scuole ci arrivano preconfezionate dall'estero non si batte chiodo. Perciò bisogna adattarsi: o ci si arrangia col poco che c'è (una qualche forma di regionalismo, la scuola siciliana, la scuola romana e... boh... non mi viene in mente altro... e anche queste due agonizzano... in effetti c'è davvero pochino) oppure ci si iscrive via Internet ad una Scuola più in carne.

[06jan2003]
Non c'è che da scegliere: minimalisti, decostruzionisti, high tech, regionalisti d'alto bordo (tanto siamo globalizzati e nullaosta a che un padano si metta a fare il portoghese, un romano flirti col medio oriente e faccia il turco, un pescarese il californiano e i milanesi si spaccino per spagnoli).
Insomma si può fare. Conviene. Si faccia.

Ma perché non ti iscrivi tu? Mi manderà a dire il solito pedante. Bravo furbo: io sono già troppo vecchio e poi la mia parola d'ordine, se mai ne avessi una, sarebbe "disertare". Non per altro, ma perché non ho scelta. Alla mia età, dopo che da una vita vado in giro conciato da pezzente, non posso mica mettermi il kilt delle grandi occasioni e riciclarmi, chessò, come highlander d'alto lignaggio sceso a valle per mozzare tutte le teste possibili. Né mi travesto da lupo di mare, ché farei ridere.

Ma, dice, disertare che?
In primo luogo le "Scuole" e l'educazione al branco, per la quale, del resto, sono decisamente fuori tempo. È la comune appartenenza al branco, infatti, che la "Scuola" segnala, anche se si traveste ogni volta in maniera diversa.
Però non mi fraintendete, non è che io la diserti perché vi si reprime la famosa Creatività Individuale (l'eroico concetto di Individualità Creativa è, credo, una delle più triviali scemenze da cui sia molestata l'architettura e la Scuola, nonostante le apparenze, l'accudisce perché porta acqua al suo mulino). Più che altro essa si limita a delineare il territorio di caccia del branco. Ma, così facendo, non offre spazio per nulla che non sia finalizzato alle sue attività venatorie.
Il motto di Hans Castorp, "Placet experiri", in questo recinto non avrebbe senso. Chi lo adotta deve anzi essere ridotto al silenzio, così come correntemente capita.
Se un iscritto extra-vagasse, dedito ad altro ed incurante della caccia, andrebbe soppresso o emarginato, perché col suo esempio finirebbe per mettere a repentaglio l'economia energetica del gruppo e stabilirebbe un pericoloso precedente ecologico che potrebbe portare alla sua liquidazione (prospettiva spaventevole per il membro del clan, per il quale non esiste alcuna differenza tra la scomparsa del suo entourage e l'estinzione della specie).

Ora, quando il branco caccia deve affilare i denti o tutto quanto utilizza come strumento di caccia. Se la caccia avviene, come in questo caso, attraverso lo strumento del linguaggio è proprio il linguaggio che andrà affilato e reso minaccioso ed efficiente.
Perciò il branco deve porsi la questione dello "stile", cioè del linguaggio come mezzo di rappresentazione dei suoi miti espressivi.
In altre parole: il branco non può che porsi in modo inautentico davanti all'evento costruttivo, sempre deve distorcerlo e deve distorcerlo perché deve usarlo, ponendosi necessariamente e sin dal principio in posizione di dominio nei suoi confronti, facendogli violenza.
Ne andrebbe, altrimenti, della sua stessa sopravvivenza.
Ma lo ripeto, non difendo l'extra-vaganza per via di una qualche propensione per la trita figura del talentoso "bizzarro, libero e selvaggio". Costui sarebbe anzi un magnifico capobranco.
No, io ritengo piuttosto che se ne debba aver cura solo perché essa, in fondo, sta nel "proprio" della costruzione, abitandone la povertà e la modestia, preservandone la distanza da ogni dominio del senso, da ogni forzatura simbolica o "espressiva", e dunque radicalmente rifiutando ogni "uso" ed ogni "padronanza" di linguaggio.

Attraverso l'educazione al branco, il cucciolo non mette, infatti, come si sarebbe portati a credere, il suo "Io" tra parentesi (che sarebbe, ne convengo, già qualcosa) semmai si abitua a puntellarlo a dovere grazie ai ponteggi fornitigli dallo stile del gruppo.
Egli gode (esercitando la maniera del branco) dell'inebriante sensazione di potenza che gli deriva da esperienze venatorie precedenti e già messe alla prova, nonché dalla consapevolezza di possedere, comunque vadano le cose, un clan che lo protegge.
Quest'aria da padroncini (e l'indubbio beneficio che ne deriva) si paga, però, con una durezza di comprendonio che non conosce confini e con un'assenza totale di senso dell'avventura.
Non si deve credere, tra l'altro, che la particolare solitudine dell'extra-vagante sia una pittoresca caratteristica, deliberatamente ricercata ed arbitrariamente perseguita. Una sorta di dandismo estetizzante. No, questa solitudine è, molto semplicemente, necessaria perché solo qui risiede l'istanza fondamentale dell'architettura e solo qui ci si può davvero porre in ascolto del suo richiamo.
Rimanere, dunque, molto fuori del branco, fiutarne le tracce per evitarlo.
Farsi paria.
Né si sfugge, parlando della presunta diversità epocale di questa o quella "Scuola", all'eterna legge del branco: la Scuola è il territorio del branco e null'altro.

Occorre dunque rappresentarne i limiti con inaudita forza espressiva, perché questi non sono mai "dati" in natura, non sono mai "fondati" da una qualche trascendenza (anche se i miti del branco questo raccontano). Non esistono, in questo campo, mai confini naturali che delimitino il Sacro Terreno della Patria, nessun divino "genius loci" in divisa controlla il passaporto ai turisti. Perciò bisogna piantare i picchetti e poi metterci sopra le bandierine, o pisciare sul terreno, oppure mettere i cartelli con su scritto "attenti al cane"... ma comunque rappresentare in qualche modo il proprio dominio, imporre barriere doganali. Uno stile riconoscibile è dunque fondamentale per ogni Scuola e viene comunemente rappresentato come ispirazione leggendaria delle bestie totemiche che crearono il clan e, con esso, l'universo. Se ne parlerà nei bivacchi e attorno ai fuochi.

Ma è proprio quest'essenziale (per l'esistenza del gruppo) atto di violenza "linguistica" sull'evento del costruire, questo irreggimentarlo in narrazioni tribali a rendere immediatamente impossibile l'architettura. Questo tracciare il confine e dire all'altro "o con noi o contro" per chi entra nel gruppo sarà approntata immediatamente un'adeguata giustificazione biologica (è nato qui, è nato là, si è "formato" con, si è "formato" a): perché se noi scegliamo questo o quel linguaggio (non importa quale) noi scegliamo pur sempre qualcosa che non ha nulla a che vedere con l'architettura.
Il branco, dunque, praticherà il "linguaggio" regionalista, minimalista, decostruzionista e denominerà il suo territorio di caccia "Scuola" regionalista (portoghese, spagnola, sicula...) oppure di altro genere (decostruzionista, minimalista...) l'extra-vagante, invece, sarà fortuitamente nato qui o là, in quest'epoca o in un'altra, ma non importa da dove provenga, né, a rigore, dove vada, e neppure in quale luogo "eserciti la professione" perché in realtà non fa "professione" di un bel nulla. Non si appassiona all'espressione dello zeitgeist né sacrifica al genius loci, non sono cose che lo riguardino. Solo della sua erranza ha cura e, se può, che ognuno abbia cura del suo errare.
Così prova ad accudire questa misera, fragile, infondatissima cosa che è l'architettura.

Ma, badate bene, non è che la "Scuola" (regionalista o no) non si proponga come protettrice del "progetto"! Tutt'altro. Anzi, l'attitudine venatoria si delinea perfettamente nella posa iper-progettualista che sovente ogni "Scuola" ama assumere.
È del tutto pacifico, per il branco, propugnare il "primato" del progetto, non solo perché così facendo afferma indirettamente la propria supremazia tribale, ma in primo luogo perché un'oscura pulsione animale gli assicura che solo attraverso la chiarificazione del dato si perviene al suo perfetto controllo.
Caldeggiare, per esempio (come qualcuno, pure, ha fatto) che l'insegnamento della storia, nelle facoltà di architettura, dovrebbe andare appannaggio dei "progettisti" (di Scuola?), ed affermare che è "impensabile" che nelle facoltà di architettura questo insegnamento continui ad essere effettuato da chi non possiede "pratica progettuale" non è semplicemente una cantonata.
Certo, se le parole non sono solo vento ciò significa che fior di storici non dovrebbero avere diritto di cittadinanza in una "Scuola" di progettisti la quale viceversa sarebbe tenuta ad avvalersi delle dilettantesche elucubrazioni storico-critiche dell'architetto pratico (i cui esempi già ci sommergono).
La cosa, insomma, potrebbe anche farci sganasciare dalle risate.

Invece la pensata è di lusso.
Già me l'immagino. Truppe di architetti-architetti che declinano "progettualmente" la storia onde agevolarne l'utilizzo concreto e l'uso pratico; poi caterve di primi della classe che travasano il compitino nella susseguente esercitazione progettuale.
Ma, soprattutto, si spalancherebbero al branco meravigliosi orizzonti e territori di caccia prima impensabili.
Nella prospettiva d'uso del linguaggio, infatti, dotarsi di un sistema di travaso efficiente e diretto (dal produttore al consumatore) consente, intanto, un'economia energetica straordinaria e, per naturale conseguenza, una superiore efficienza nella punta e nello stanamento della preda.
Ne esce inoltre garantita la clonazione.
Ma non basta: si potrà, con un poco di fortuna, addirittura industrializzare la caccia e sostituirle il macello, con favolose prospettive di ingrasso dei cuccioli.
Il piccolo del branco, infatti, potrebbe preservare le energie e capitalizzarle in lardo, perché il pasto gli sarebbe assicurato a priori senza alcun dispendio da parte sua.
Ancora una volta dunque ciò che qui signoreggia non è l'idea di un tessuto relazionale attraverso cui il progettista dovrebbe muoversi in proprio con intelligenza stabilendo il suo percorso (comprendendo, fraintendendo, errando, tessendo e tramando, sforzandosi di esercitare quel tentacolare artigianato "costruttivo" e la proteiforme attitudine di Metis che dovrebbero essergli propri) ma l'idea della transumanza e della migrazione di massa, la superstizione del linguaggio dominato e piegato ad un "uso" nonché l'idolatria, conseguente, di questo "linguaggio d'uso".

Nel branco ogni cosa s'incastra a perfezione e il meccanismo evolutivo macina vittime, non c'è "gioco".
E non c'è gioco perché non c'è "spazio".
Il sottoscritto riterrebbe invece (momentaneamente) che questo gioco, condotto nel suo spazio naturale, sia il movimento più proprio dell'architettura.
Perciò, pur riconoscendo che o fai (e sei) Scuola o non fai nulla e non sei nessuno e invitando senz'altro chi ha belle speranze a scegliersene una e frequentarla, per se stesso se ne esime.
Gli mancano le ambizioni e, piuttosto, gli piace dormicchiare e, se capita, sognare che il branco, prima di azzannare, vada sempre disperso.

Perché l'architettura in fondo vive della sua stessa deriva e nessuno strumento di controllo può darne ragione. Nessuna Scuola è capace di amministrarla, meno che mai queste "Scuole" da rivista (da parata) basate su minuscoli stilemi formali che non sono in grado di mettere in moto altro che processi di pura e semplice imitazione. Stilemi che però vanno "trasmessi", devono viaggiare attraverso media prensili e di semplicissima fruizione. Per essere tradotti subito in linguaggio d'uso. Ciò non comporta solo una banalizzazione, il che sarebbe persino ovvio, ma proprio, e ancora, quel brutale esercizio di dominio che snatura, infine, l'evento costruttivo privandolo del suo nucleo luminoso, rendendolo opaco. Mutata in effigie e imbagasciata a dovere l'architettura, irrigidita in rappresentazione, verrà poi agevolmente condotta sulla scena e farà passerella tra gli applausi, o i fischi, dei loggionisti. Per il democratico divertimento di tutti, come richiede il botteghino.

Ugo Rosa
u.rosa@awn.it



P.S.
Dimenticavo... attenzione, però, soprattutto alla "Scuola dei senza Scuola": tra tutte è di gran lunga la peggiore.

la sezione Lanterna Magica
è curata da Ugo Rosa


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