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Lanterna Magica

Gli architetti e la storia




Diego Velazquez, Marte.





Spero che nella vita mi venga risparmiata la vergogna di trovarmi là dove accade qualcosa d'importante o, addirittura, di storico. Per la verità non mi faccio troppe illusioni perché non passa giorno, ora e minuto senza che capitino cose di portata epocale.

Per non incappare nello scoop bisognerebbe essere continuamente vigili, presenti a se stessi ed in grado di svicolare in fretta. Non sempre però questo è sufficiente, la storia è oramai pervasiva: magari sei scampato per miracolo dal presenziare al triste saluto del principe Carlo ai sudditi cinesi che, mentre ancora risuonano le note di "Pomp and Circumstance", subito ti si accavalla alle orecchie Elton John ed incappi nelle esequie di Lady Diana. Se sopravvivi c'è Padre Cionfoli (fondatore del nuovissimo ordine televisivo dei Cionfoloni) che celebra Madre Teresa di Calcutta, Wojtyla che abbatte per l'ennesima volta il muro di Berlino, Bossi che fonda la nazione padana e Benigni che interpreta Pinocchio. Se questo ancora non basta abbiamo gli anniversari, i cinquantenari, i bicentenari e il giubileo.

[18jan2003]
Le cicatrici della storia, insomma, ci disegnano addosso un ricamino da fare invidia al Robert De Niro cucito assieme dal Frankenstein di Kenneth Branagh.
La promozione del fatto di cronaca ad accadimento con ripercussioni planetarie, mi si dirà, è però un gioco puramente giornalistico, perché definire "storico" tutto questo ciarpame? Ahimè, una simile obiezione è oramai fuori tempo massimo. Il gesto giornalistico è tale da modificare la nostra percezione della realtà, come quello del prestigiatore. Ma mentre in quel caso sapremmo che intercorre una differenza effettiva tra il reale e la sua rappresentazione, in questo non siamo assolutamente in grado di concretizzare tale differenza. È la realtà stessa che ci si offre in uno con la sua rappresentazione e che si sostanzia, di fatto, in questi puri attimi percettivi del tutto privi di continuità e di peso. La rappresentazione coincide oramai con il reale, la cronaca è Storia.

Sarebbe ridicolo, ad esempio, ritenere che le duecento persone sgozzate in Algeria lo stesso giorno in cui si schiantava Lady D. contino, rispetto a questa, qualcosa. Non sono niente, non muovono nulla, non vendono e difatti sono scomparse silenziosamente nel gorgo mentre cantanti e stilisti, compuntamente, versavano lacrimoni per la principessa del popolo e gli si scioglieva il cerone sotto i riflettori di tutte le televisioni del pianeta.
Chi, del resto, può ragionevolmente pretendere che qualche migliaio di donne, vecchi e bambini afgani o iracheni sepolti sotto le bombe per pareggiare il conto (semplici effetti collaterali...) valgano più di un pio pensierino pronunciato ad alta voce, prima ancora di pensarlo, da una poltroncina del salotto di Maurizio Costanzo, dal momento che nessuna superstar ha fatto a gomitate per montare sul palco a commemorarli (mioddio! quanto sarebbe stato out...)?

Daremo la colpa di questo a gazzettieri e paparazzi?
Sarebbe sciocco. Il giornalista non è che l'uscita del tubo digerente e, come sfintere, gli spetta "funzionare" e non "decidere", le sue contrazioni restano perciò ampiamente involontarie.
L'evento di cronaca, se adeguatamente valutato dagli strumenti d'informazione di massa, mantiene, del vecchio "fatto storico", tutta l'opacità e il volume. Anche se ne perde il peso, permane come un'enorme massa di polistirolo espanso tinteggiato a colori vivaci: inconsistente, forse, ma statuario e greve alla vista tanto quanto quello.

L'accadimento epocale (che in questo non è mutato) è qualcosa che impone arbitrariamente una cesura al tempo, che apre una ferita e poi, per colmo d'ironia, pretende anche di chiuderla. È ciò che si deve raccontare usando le parole "prima" o "dopo" e mai "durante". Chi, infatti, ha la disgrazia di viverlo è sordo, muto e cieco e non ha alcuna percezione della sua stupidità, che nell'evento storico acquisisce dignità statuaria e permane per sempre, tramandandosi ai posteri (oggi, anzi, soprattutto ai poster, perché l'ingegneria genetica e la televisione non ci consentono di azzardare ipotesi a lungo termine circa il mantenimento della specie così come noi la concepiamo...).
Attraverso quella cesura nello scorrere compatto del tempo il momento storico, ovvero il fatto di cronaca emancipato dalla servitù della gleba, viene isolato dal flusso degli eventi e presentato di volta in volta all'utente come "Nascita della Nazione", "Dichiarazione di Guerra", "Discesa in campo del Tale", "Guarigione del Miracolato" e così via. Questo brulichio di fotogrammi è, certo, percepibile come lungometraggio ma ognuno di essi è in realtà l'epifania quotidiana della storia, che in ciascuno si riflette, oramai, per intero. E non si deve credere che si tratti di fatti tra loro sostanzialmente diversi: è sempre la stessa storia. L'evento specifico si frantuma come un grissino a fronte di questa storicità tetragona e le briciole confluiscono attraverso i canali di scolo nei centri di raccolta dove verranno ripescate dai mass-media che le ricicleranno subito per venderle di nuovo a buon prezzo ai sottosviluppati.

L'uomo moderno, con tutti i suoi portati, è perciò, temo, votato a diventare carne da macello per la storia.
Quelle che un tempo si definivano "arti", lontanissime dal tenere una posizione di privilegio, sono state tra le produzioni dell'intelletto umano le prime a finire nel tritacarne.
Non abbiamo mai avuto tante storiche figure artistiche messe in fila come birilli, mai tanti capolavori prodotti, edificati e acquistati a suon di miliardi, mai tanti premiati e decorati al valore, né passa giorno senza che qualche povero cristo, incensato a dovere, non venga portato in trionfo sotto l'occhio vigile dei cronisti che già da prima prendevano appunti. Che nessuno più ci creda è irrilevante, la storia se ne infischia e procede; ha già archiviato pratiche immani e dalla locandina risulta che non si è mai registrata una tale presenza di mattatori.

Io, ottimisticamente, m'illudevo di non essere sopravvissuto a questo bombardamento di geni, invece, giorni addietro ti incontro un ex collega d'università che non vedevo da decenni e che nel frattempo è diventato professore ordinario d'architettura, mi fa: "...eh! eh! dopo vent'anni siamo ancora qua..." e ha l'aria soddisfatta. Lo guardo perplesso: di che sta parlando? Ma, soprattutto, di chi sta parlando? Vorrei rivelargli la verità: "No, guarda, ti sbagli, io non ci sono da un pezzo" ma ci ripenso, gli rispondo con qualche banalità e mando i saluti alla signora. La prossima volta, ne sono persuaso, mi ritroverà ancora. Così mi vado convincendo che persino un inessenziale come me si può assentare solo unilateralmente. Mi assento e, per tutti, ci sono. Figurarsi la tragedia di quei poveri geni assolutamente essenziali alla storia dell'architettura, per i quali assentarsi è ad ogni modo del tutto impossibile. Queste figure iperesistenti sono tenute ad essere sempre presenti, innanzitutto a se stesse. Se ne vanno a spasso in coturni ed ogni volta che parlano sono le loro ultime parole. Alla lunga finiscono per crederci. Ma l'architettura, che è scettica, crepa di disperazione. Crepa povera e pazza.

Mi dicono che gli architetti (e quelli giovani, pare, più degli altri) si lamentino del fatto che televisioni e giornali si occupano poco di loro mentre, secondo me, potrebbero magari esserne felici. Chissà! Solo accudendo questo disinteresse, forse, riuscirebbero a sfuggire ancora per qualche tempo ai fanaloni della storia e, se sufficientemente agili, persino a muoversi velocemente sulla ragnatela mortale della civiltà dell'informazione senza incappare nella bestia fosforescente. L'architetto infatti è, a mio avviso, geneticamente allergico alla luce, abbisogna del buio come il vampiro, e di pendere periodicamente a testa in giù in abbandono. Se poi fa un poco di ribrezzo, non fosse che a se stesso, diciamolo, è anche meglio. La ragione per cui Adolf Loos si fece sordo fu questa: non poteva più tollerare la petulante e ciarliera coscienza di sé degli architetti, l'ego storico (prima ancora che storicista), la rogna contro cui l'architetto moderno deve da sempre combattere: questa vigile, azzimata, coscienza di sé che produce cose marce dalle fondamenta, questo classificarsi come "autore" già prima di nascere, questo mettere il timbro d'autenticità agli scarabocchi per poi mostrarli senza ritegno ad ogni allocco che sembri disponibile a bersela.

Questa dipendenza dalla storia, insomma, che, quando non lo inchiodano ad un giornale o non lo appendono ad un pannello, fa andare l'architetto in crisi d'astinenza e gli provoca le convulsioni. E più la storia si occupa di lui, dell'autore, più l'architettura diventa trasparente e scompare: abbiamo così una caterva di geni dell'architettura e non abbiamo più l'architettura, che s'è rintanata nelle forre.

Le scuole, da parte loro, ce la mettono tutta a formare dei piccoli vanesi che vanno in giro stralunati da una mostra all'altra, s'intossicano di fotografie disquisendo sul bianco e nero e sulle inquadrature e non perdono occasione per farsi a loro volta fotografare come monumenti, illuminati di sguincio e con il naso puntato al vento verso il partendone, oppure (per ora va molto l'autoironia) in mutande e a testa in giù.
I primi della classe, nelle facoltà d'architettura, si riconoscono subito: oggi come venti anni fa. Non solo per la comunanza dei caratteri somatici che inequivocabilmente li significa come appartenenti alla razza, ma soprattutto per quel particolare savoir faire disinvolto e sbarazzino, da mascotte di truppa, che già li incide preventivamente come maratoneti della storia, cultori della materia, dottori di ricerca e in seguito professori a contratto, associati e ordinari.
Le poche volte che mi capita di trovarmi nel bel mezzo di una kermesse universitaria li riconosco al volo; procedono in ordine sparso, ma alla prima occasione si avventano in branco con manovra a tenaglia come il velociraptor, uno con un libro di Heidegger sotto il braccio, l'altro che persino quando parla riesce a mettere il trattino alle parole ed a fartelo visualizzare come Enrico Ghezzi, e infine quello in fondo alla sala, che per smontarti ti sunta Feyerabend.

Per me, che in pratica faccio l'architetto al solo scopo di coltivare la mia ignoranza come un fiore di serra, sostare in aula è un rischio mostruoso e i Professori, che lo sanno, hanno sempre provveduto (e gentilmente provvederanno, immagino) a farmelo correre il meno possibile. Ma questo è ancora niente: in un'esposizione di disegni fatti da studenti del secondo anno per l'esame di composizione ho visto degli schizzi datati e firmati, già pronti per il libro di testo. Confezionati per l'epigrafe.

Sento dire che nelle Americhe c'è qualche spiritoso che vuole far sparire la storia dalle facoltà di architettura, ma nessuno di questi cervelli è sfiorato dall'idea che ci sarebbe, in primis, da far sparire l'architetto dalla storia.
E invece quando s'è mai visto uno sfarfallio di cravattoni d'architetto paragonabile a quello di questo nostro momento così intrinsecamente e luminosamente storico? Quando mai fu concesso ai teleutenti di godersi, senza abbandonare neppure per un attimo le pagine di "Sorrisi e Canzoni", un bel servizio sul Guggenheim di Bilbao con foto dell'allegro nasone di Gehry appena sopra le poppe della Cucinotta e giusto a lato della fulgida immagine del papa abbracciato a Fidel e di un presidente del consiglio che fa le corna con la manina al malcapitato premier straniero?

Ugo Rosa
u.rosa@awn.it

la sezione Lanterna Magica
è curata da Ugo Rosa


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