La
scoperta di un trattato inedito d'autore ignoto - 2 |
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La costruzione della Torre di Babele in una miniatura tratta dal "Bedford Book of Hours" del 1424. |
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Si
fondi! Laddove s'ha il dovere di fondare s'affonderà la mano nel profondo (e nell'unghietta s'accaserà il lombrico). Prevenire, bisogna, il cedimento, Il quale, per le toste elevazioni, come un languore infido si diffonde. Lo snervamento domina il costruito. V'infonde un ineffabile sospiro, quasi il fondo fondesse (e s'effondesse). Ecco: da sfondo fa, la fondazione, al possente gravare del mattone. Ma a quel fondale (fondativo e fondo, fondamentale, muto e non veduto) cos'è che fa da fondo? E se sfondasse? |
[22may2003] | |||
"Laddove
si ha il dovere di fondare" Già la parola d'apertura del capitolo è ambivalente: quel "laddove" è avverbio di luogo o di tempo? I versi successivi non lo chiariscono del tutto. Ma in quest'ambigua sospensione tra tempo e luogo nasce il sospetto che si tratti di una perifrasi che definisce l'architettura. Che altro è, infatti, l'architettura se non quella cosa "laddove a tempo e luogo si ha da fondare", quella cosa che non si dà se non fondata? Ma è proprio da questa definizione che B. procede verso la messa in questione di tale fondatezza. "si affonderà la mano nel profondo (e nell'unghietta si accaserà il lombrico)." Il secondo e il terzo verso ci conducono subito nel luogo proprio della fondazione, sottoterra. Situazione tettonica per eccellenza, ma minata da qualcosa che non prevedevamo. La mano, per fondare, affonda nel profondo della terra, ma proprio qui, nel luogo e nel tempo della fondazione, in quel terreno che fornisce solida base ad ogni costruzione, ecco apparire ciò che, quella solidità, nega: il verme di terra, il lombrico. Lì, nel terzo verso. Fisicamente, concretamente presente, metafora d'ogni rovina e d'ogni disfacimento: il verme. Ed il verme s'accasa nell'unghia. L'unghietta, ammettiamolo, è parte non irrilevante nella complessione dell'architetto. Che lavori per guadagnarsi, a scapito di altri, le grazie del politico, quelle dell'editore, del direttore di rivista o del professore, per l'architetto all'unghia solo la lingua è pari; egli ha da essere un virtuoso nell'uso di ambedue. Perciò non sorprende che l'unghia trovi posto nel luogo e nel tempo in cui l'architettura si fonda. È la mano che fisicamente affonda nel profondo della terra per fondare. In questa tumulazione rituale, in cui, con la base dell'opera, sono apparentemente inumati i dubbi circa il suo cedimento e si procede all'edificazione (da lì a poco la costruzione sarà elevata verso il cielo, con annessi e connessi, frattaglie, tubature, cessi e sfiatatoi) ecco, allora, che B. introduce il verme. In quest'insediamento parassitario sembra annunciarsi metaforicamente quell'altro, di cui si dirà subito dopo: il cedimento, come un verme, s'accasa nel costruito. "Prevenire, bisogna, il cedimento, Il quale, per le toste elevazioni, come un languore infido si diffonde." Perché si fonda, dunque? Si fonda per "prevenire il cedimento" quel cedimento che "...per le toste elevazioni, come un languore infido si diffonde" risponde B. Ma, in questa risposta è contenuta assai più che una semplice constatazione: vi è la consapevolezza che il cedimento non sia fatto incidentale bensì elemento consustanziale dell'architettura. Non si dà, infatti, architettura che non tenga già in se stessa il suo crollo, la sua rovina. Gli architetti se ne dimenticano sovente, sembra dirci B. occorre invece ricordarlo sempre, fin dal principio, fin da quel momento fatale in cui, appunto, la mano affonda e, nel profondo, fonda. "Lo snervamento domina il costruito. V'infonde un ineffabile sospiro, quasi il fondo fondesse (e s'effondesse)." Qui si traggono le conclusioni della premessa contenuta nel "Gradus ad Parnassum" o piuttosto, verrebbe da dire, è da queste conclusioni che può trarsi quella premessa. Se infatti, come ci è stato suggerito nel prologo, non possiamo certo illuderci circa il fatto che la tegola serva a qualcosa, ciò è conseguenza del fatto che l'architettura rimane dominata da quel daimon sfibrante che ne intride il tessuto: lo snervamento, appunto. Ed è perché non c'è rimedio né scampo a tutto questo, che quell'ineffabile sospiro (e non è un caso, ovviamente, che si adotti tale termine) è veramente il Pneuma della costruzione. Ciò che, paradossalmente, la fonda non fondandola, la costituisce rovinandola, la fa disfacendola, ma ne è, ad ogni modo, l'essenza. Lo spirito. Questo soffio, distruttivo e tuttavia vitale, costruisce, disedificandola, l'architettura e ne è il cuore. E parallelamente, dal punto di vista linguistico, quell'"ineffabile sospiro" occupa il cuore e il centro della poesia. Osserviamone la struttura. Questi versi possiedono una non trascurabile simmetria. Sono quindici, divisi in tre strofe: una centrale, di tre, e due di sei in apertura e in chiusura, secondo lo schema 6-3-6. La strofa di mezzo è, perciò, proprio la metà (propriamente il mezzo, e il mozzo) delle due che la racchiudono. Ed è nel mezzo del mezzo (nel secondo verso dei tre che compongono la strofa, nel quindicesimo verso, il verso dispari, perché come scrive il sublime Flann O'Brian, "Dio è un numero dispari"...) che troviamo il Pneuma della costruzione, la sua anima ineffabile e il suo soffio vitale. E per spiegarci meglio quel che intende, ma nello stesso tempo per concludere la strofa e darle un fondo, ecco che B. utilizza una similitudine di allarmante candore: "quasi il fondo fondesse" e aggiunge, per inciso, "e s'effondesse". Come se il fondo che fonda fosse fatto di ghiaccio; acqua solidificata che quando fonde s'effonde e si sparge espandendosi. "Ecco: da sfondo fa, la fondazione, al possente gravare del mattone." Nell'ultima strofa l'autore spiega, quasi accoratamente, ciò che ha appena enunciata. Lo fa con mezzi più convenzionali, richiamando in maniera diretta, fondazione e mattoni. B. prepara il suo colpo di grazia ponendo sotto gli occhi del lettore l'apparente potenza della costruzione fondata. Ma lo fa per concludere nel più ambiguo dei modi: non con un'affermazione, ma con una domanda che, ancora una volta, mette in gioco il lettore, il discente, chi s'accosta con intenti conoscitivi alla materia. "Ma a quel fondale (fondativo e fondo, fondamentale, muto e non veduto) cos'è che fa da fondo? E se sfondasse?" Ciò che lega le tre strofe e le cuce insieme è (in fondo) un gioco verbale. esso si esercita sul termine di cui sempre si occupano le prime pagine di ogni trattato di architettura, ciò con cui la costruzione ha inizio: la fondazione. Da fondare ad affondare, a profondo, a diffondere, fondere, effondere, infondere, fondativo, fondo (usato la prima volta come sostantivo e la seconda come aggettivo) fondamentale, fondale, sfondo fino allo sfondamento finale. Si comincia (a parte il baldanzoso "Si fondi!" del titolo: imperativo, un ironico grido di battaglia) con la parola più tetragona di tutte, la parola "fondare", posta per di più, all'infinito e resa, perciò eterna, perenne, indistruttibile, immarcescibile. E si sdrucciola fino allo "sfondare" dell'ultimo verso che, si noti, non è scritto all'infinito ma posto in un'interrogazione condizionale, la meno tetragona di tutte le domande, domanda che non è certa neppure di se stessa: "e se sfondasse?", domanda, per altro, posta sul fondo (appunto) a chiudere il capitolo in un delirio d'imprecisione e di incertezza. A questo proposito occorre notare, in ultimo, l'imprecisione metrica con cui, simmetricamente, il testo stesso si conclude. Abbiamo detto che B. usa, di norma, l'endecasillabo. Qui, però, l'ultimo endecasillabo è spezzato in due. Abbiamo così un verso (il penultimo) di sette sillabe, e un verso (l'ultimo) di cinque sillabe. In tutto dodici sillabe, non undici perché, nella spezzatura si è, come per gemmazione, generata una sillaba. Il fondo del testo è quindi sfondato. Quando, nella lanterna precedente, si parlava dello di B. come un non-contemplante s'intendeva esattamente questo: al nostro non basta "affermare" un'imprecisione; egli, immediatamente, la pratica e la rende concreta. Mai teoros, dunque, sempre artefice. Poièsi e non teoria, sembra essere il suo motto. Ugo Rosa u.rosa@awn.it |
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