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Lanterna Magica

La sostanza delle nuvole - 2
Quando nasce l'architettura?




René Magritte, I valori personali, 1952.



Sai tu chi sei
quando dormi?...
Sai tu dove si trova la Notte,
mentre guarda il Giorno passare?
Taliesin




L'architettura prende corpo da piccoli disegni. Piccoli, s'intende, rispetto alle dimensioni dell'architettura. Noi disegniamo un edificio di cento metri di lunghezza per venti d'altezza che, nel nostro foglio, occupa uno spazio di cinquanta centimetri per dieci.
Con i computer, le cose si sono radicalizzate.
Qualunque sia la dimensione dell'edificio, esso non occupa spazio più ampio di quello circoscritto dai confini del nostro schermo.
Potremo ingrandire l'immagine, certo, ma quei confini non li aboliremo.

Chi ha un poco di pratica d'architettura sa perfettamente perché questo accade: essa prende corpo da un progetto, che dovrà essere redatto "in scala". Vale a dire che le dimensioni del disegno dovranno essere proporzionali, ma sempre inferiori, a quelle della costruzione. Se fossero superiori il disegno non servirebbe a nulla. Se invece fossero uguali (cosa che talvolta, per dettagli sufficientemente piccoli, avviene) esso non sarebbe utile; accadrebbe quel che accadde al topografo borgesiano, il quale disegnò una mappa dell'impero così dettagliata da coincidere con l'impero stesso.
Un tempo si disegnava con la matita e i pennini, oggi a mettere il disegno su carta ci pensa il plotter: lo si pratica "virtualmente" al computer. Ma la sostanza non è mutata. Il progetto va rappresentato in scala per poi, forse, essere costruito e diventare architettura "vera".
Questo, ancora, lo stato dell'arte.

Non è impensabile che un giorno la fase disegnativa possa essere eliminata e il progetto prendere corpo, in forma d'ologramma a dimensioni reali, direttamente sul posto della costruzione. È anche immaginabile che in un futuro neppure lontanissimo, attraverso sensori adeguati, l'architetto possa muoversi al suo interno, prendere visione dei materiali che man mano va scegliendo, toccarli, sentirne la grana, la consistenza. Ipotizzabile che egli manipoli in sito l'opera e che, una volta definito, il progetto (ma in tal caso non sarà, forse, neppure più adeguato parlare di "progetto") possa essere concretizzato dai costruttori come attraverso uno stampo. Senza alcun disegno, semplicemente seguendo punto per punto l'ologramma fino a materializzarlo.

Oggi, però, non è così. Non è stato così per millenni.
L'architettura, come noi la concepiamo attualmente, è dunque ancora profondamente strutturata dall'ordito del disegno (che sia computerizzato conta meno, secondo me, di quanto si sia propensi a credere). Ci piaccia o no. Ma soprattutto è profondamente intrisa da questa miniaturizzazione. Dal fatto di nascere "in scala" per dirla in termini tecnici.
Scrivo di "nascita dell'architettura" e mi rendo conto subito di non sapere esattamente di che sto parlando. Quand'è che "nasce", infatti, l'architettura? Quando se ne disegna il progetto? Non mi pare. Ci sono progetti di grandi architetti mai costruiti e nessuno ne parla come di "architetture".

L'architettura nasce allora all'atto della costruzione, in cantiere?
Sì. E al tempo stesso, no. È evidente che essa, a quel tempo, è già nata, altrove.
Si direbbe che cresca, piuttosto? Forse, ma come da se stessa a se stessa in una specie di rimando autoreferenziale che continuamente prende distanza dalla sua origine, proiettata in un luogo e in un tempo imprecisabili. Neppure affermare che "cresca" è dunque, propriamente, esatto: non c'è vera crescita in questo comparire scomparendo.

Mutazione, semmai, e frattura. Una soluzione di continuità con cui l'architettura si mette in questione nel momento in cui si manifesta.
Quando l'architettura nasce (e prende figura: sul foglio, sullo schermo) non è ancora tale. Non è ancora nata.
Ma quando essa nasce davvero (sicché possiamo dire "eccola" e toccarla, annusarla, assaporarla) allora dobbiamo convenirne: era già nata molto prima.
Vi è, nelle origini dell'architettura, qualcosa di paradossale, come una distanza endemica da sé.
È proprio questa distanza, e non altro, che tuttavia la fa uscire dai limiti del disegno e la porta a "divenire se stessa".

Distanza da sé che, stranamente, si fa dunque raggiungimento di sé.
Sembra quasi che la cifra dell'architettura consista nel suo aurorale non essere se stessa ma nel tendere continuamente ad esserlo.
Tra l'architettura e l'architettura, insomma, resta un gioco.
È lì che si gioca il gioco vero dell'architettura.
Però quando sostengo che l'architettura è puttana (non ricordo se l'ho scritto, di sicuro lo penso e non credo d'essere il solo) non mi riferisco soltanto a questo.
Torniamo, per un momento, all'inizio.
Noi architetti, dunque, concepiamo in piccolo. Necessariamente.
L'architettura è elaborata "in scala", mai alla sua grandezza reale.
Per quanto ne so non s'è mai riflettuto a fondo su questo. Forse sarebbe necessario farlo.
La miniaturizzazione e la stilizzazione, cui utilmente (e necessariamente) è sottoposta l'architettura-in-atto-di-nascere-prima-di-nascere, segna profondamente il rapporto che gli architetti intrattengono con essa.
E che il progetto sia rappresentato oggi su uno schermo piuttosto che su un foglio da disegno, lo ripeto, non cambia per nulla le cose.

[02nov2003]
Il progettista, attraverso la scalatura, comprende l'architettura e, nel medesimo tempo, la prende, l'afferra e, infine, immagina di dominarla.
Egli crede, come tantissimi cornuti, di avere catturato una volta per tutte "la sua preda" e che essa gli sia del tutto sottomessa. Del resto, data la sua disponibilità e la remissiva maneggevolezza di cui fa mostra sembra proprio che l'architettura gli si conceda completamente che se ne stia, muta e passiva, sotto il suo assoluto controllo.
Non è vero, naturalmente.
L'architettura illude il progettista e (lei che nasce in gioco...) in realtà lo gioca, sfuggendogli.
Quando sarà (essendo già stata), l'architettura comprenderà il progettista che s'è immaginato di comprenderla, lo prenderà, lo fagociterà, lo inghiottirà nel suo ventre.
E l'architetto pensa e disegna qualcosa che continuamente fugge via verso la sola dimensione in grado di conferirgli realtà e concretezza, la dimensione del costruito.
Perciò l'architettura è un paradosso: essa, in fuga da sé, corre verso se stessa.
Tocca il foglio e già fugge verso qualcos'altro che, si dice, è se stessa (la "vera" se stessa!) ma che tuttavia essa non è mai stata e non sarà finché non nascerà, ma in quel momento sarà chiaro che essa nasce molto prima di nascere.

E mentre la parola scritta permane con la sua materia e la sua dimensione, fino ad arrivare in vista del fruitore, mentre il tratto della matita e del pennello, la materia della scultura, il suono della musica permangono, fondamentalmente intatti, fino all'impatto con gli occhi e le orecchie che ne prenderanno atto, l'architettura no.

Cos'ha a che fare quel segno che noi tracciamo sulla carta, cos'hanno a che fare questi fogli o questi puntini colorati che compongono figure su uno schermo, con ciò che infine chiameremo architettura "costruita"?
Nulla: materia differente, dimensione differente.
Altra sostanza.
Noi dovremo chiamare architettura queste pietre o quei segni?
Né le prime né i secondi, forse.
Piuttosto qualcosa che ci sfugge e che possiede, appunto, solo la sostanza delle nuvole.

    Ugo Rosa
u.rosa@awn.it

la sezione Lanterna Magica
č curata da Ugo Rosa


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