Sotto
il tappeto della storia: l'archiscopio di Bruno Fumaluppi |
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G.B. Piranesi, Gruppo di scale, 1743. |
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Ho
gli anni sufficienti per avere potuto, da bambino, godere del privilegio,
oramai desueto, di ricevere in regalo un caleidoscopio. Non molti, tra
quelli della mia età, tuttavia, devono avere approfittato delle
magnifiche opportunità offerte all'intelligenza da quel mirabolante
strumento. Sembra, infatti, che la generazione cui, più o meno,
appartengo debba passare alla storia per avere, nella sua parte femminile,
abolito il reggicalze sostituendolo con il collant, mentre, per quello
che riguarda la componente virile, si sia distinta nel confezionamento,
equilibrato, di caterve di giornalisti ignoranti, arroganti e voltagabbana
e di ulteriori caterve di nostalgici cretini del "com'eravamo"
di forza intellettuale uguale e contraria. Ma non vorrei divagare. Quel
che invece desideravo rilevare era che per molte generazioni (grossomodo,
appunto, fino alla mia) i bambini sono sempre rimasti affascinati da
questo delizioso strumento ottico. Bruno Fumaluppi, che vorrei ricordare in questa pagina, visse tra la fine dell'Ottocento e gli inizi del secolo scorso e non fece eccezione. Ebbe soltanto qualche possibilità in più per via della ricchezza e della generosità materne. Perciò poté, sin dalla più tenera età, collezionare magnifici esemplari di questi delicati giocattoli e studiarne la struttura, l'estetica, le proprietà ottiche e meccaniche. Da adulto, nella necessità più sociale che economica di scegliersi un mestiere e di esercitarlo (il padre, infatti, mediocre e tarchiato elemento della ricca borghesia piemontese, non era per nulla propenso alla giustificazione dell'ozio altrui per quanto, come tanti suoi simili, fosse benevolmente disposto a fare un'eccezione per il proprio) decise di occuparsi d'arte in maniera professionale. Combattuto tra i suoi interessi, protervamente contemplativi, e quelli paterni, disinteressatamente monetari, operò una scelta composita pervenendo ad una condizione liminare tra i quattrini e le arti belle, quella di mercante d'antiquariato. Deambulò per qualche anno attraverso i variegati camminamenti di questa professione anomala interessandosi, o fingendo di farlo, a statue, paralumi, oreficerie, ninnoli e riciclando saliere della nonna, orologi, sonagliere e croste invereconde aventi come unico alibi il lenzuolo del tempo. Alla fine, subito dopo la scomparsa dell'amatissima madre, decise di smetterla con quell'attività cimiteriale e di assecondare finalmente la sua caleidoscopica vocazione. Allestì dunque un piccolo ma attrezzatissimo laboratorio in un appartamento situato al centro di Torino, tra Piazza Castello, piazza S. Carlo e la Mole. Sembra che i suoi interessi fossero concentrati sull'applicazione dell'ottica caleidoscopica alla percezione, e addirittura alla progettazione, dell'architettura. Entrò, pare, in contatto con l'architetto Otto Wagner e soprattutto strinse amicizia con il suo allievo più dotato, Joseph Maria Olbrich. Ho avuto modo dare un'occhiata a parte della corrispondenza intercorsa tra i due e invito caldamente gli storici dell'architettura a prenderne visione (oggi il carteggio è di proprietà del signor Adolfo Pertico, ricciuto posteggiatore abusivo napoletano che ne è venuto in possesso, dice, durante una casuale colluttazione con un postino avvenuta in una pizzeria di Posillipo; voleva cedermela per una cifra bizzarra che, naturalmente, non posso permettermi, ma per qualche decina di euro si può anche consultare presso di lui; sempre che si riescano a tollerare i riflessi della sua brillantina). Da quel che ne ho capito aiutandomi maldestramente con un pessimo vocabolario, sembra che il celebre architetto austriaco avesse visitato il laboratorio del caleidoscopista. Non solo, ma che ne avesse ricevuto in dono una strana apparecchiatura, ancora allo stadio sperimentale, che egli utilizzò ampiamente nel corso della progettazione del padiglione della Secessione Viennese e di un'altra delle sue opere più celebri: la colonia degli artisti a Darmstadt. Lo stesso Ludwig di Baviera contattò, a quanto pare, l'antiquario Torinese affinché gliene fornisse un esemplare di dimensioni adeguate da montare nel suo palazzo. Purtroppo, nel frattempo gli eventi precipitarono: il padre di Bruno, sempre più tarchiato e permanentemente mediocre, non solo minacciò di diseredarlo, ma gli mise sotto sequestro la preziosa collezione e il laboratorio. Fu così che, messo alle strette, il nostro decise di por fine alla tirannia paterna in modo efficace e definitivo. In breve: lo suicidò per avvelenamento. Il suo piano di disinfestazione fu così artisticamente congegnato che solo dodici anni più tardi (e solo per puro caso) se ne comprese la struttura (previa la noiosa solerzia di un impiegato della polizia giudiziaria torinese non meno tarchiato e mediocre della vittima). |
[13mar2004] | |||
Ma
tutto ciò riguarda il criminologo. Quello su cui si vuole richiamare l'attenzione del lettore è invece il frutto maturo del periodo, presumibilmente felice, che intercorse tra il delitto ed il suo disvelamento (avvenimenti di cui s'è data notizia solo ad uso e consumo dello psicanalista, per farlo avventare sulla bistecca e stare buono). Tale invenzione fu ulteriormente messa a punto e perfezionata. Nacque così l'archiscopio: geniale e labirintico intrico di minuscole lastre che, mediante una serie di rifrazioni accuratamente controllate, consente di applicare il principio del caleidoscopio ad immagini reali. Esse, in tal modo si possono variamente assortire controllandone di volta in volta il mutamento, anche se non il risultato, che rimane casuale. L'archiscopio trovò anche una sua marginale applicazione nel campo della storia dell'architettura, permettendo l'esplorazione di combinazioni barbariche o addirittura di casi teratologici di mescolamento stilistico. In tempi più recenti l'archiscopio trovò diffusa collocazione sul tavolo da disegno degli architetti prima postmoderni e poi decostruttivisti divenendo, a detta di alcuni, ineliminabile sussidio ai loro architettonici sforzi creativi. M'è parso doveroso spezzare una piccola lancia a favore del dimenticato eppur grande (e delicato) parricida torinese. Spero solo di non essere incriminato per apologia di reato, con i tempi che corrono sarebbe uno smacco. Ugo Rosa u.rosa@awn.it |
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