Blackbird
singing... Esercizi di dislocazione |
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Mi ricordo le tende alle finestre e, al pomeriggio, l'ombra di un balcone che accarezzava il muro (di questo son sicuro). Pure il gatto ricordo, silenzioso e leggero che si ferma e mi guarda, dall'altro marciapiede... e la donna, che passa e non mi vede. Ma devo confessare che qualche volta ho un dubbio, a dire il vero: che ovunque io sia stato, ahimè, non c'ero. Cornelius Lathbury |
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Suppongo
che, a certificazione della mia esistenza, dovrei testimoniare, per
primo, io. Per farlo mi sarebbe utile indossare lo scafandro da architetto
e, così conciato, attestarvi che sono qui (per quanto dall'altra
parte del vetro e sott'acqua) e che vi sto facendo ciao con la manina. Potrei così parlarvi dell'idea di luogo (qualcosa per cui gli architetti mostrano un interesse, mi sembra, professionale) e farlo per come va fatto. Ma è inutile menare il can per l'aia, in realtà non credo di esserne capace. Se mi riesce, invece, scriverò un poco del luogo, proprio a partire da ciò che, direi, non ha luogo: la musica. Ma la musica è ancora troppo, ne converrete. In quell'invaso ho cercato dunque quel che ha meno luogo possibile e ho trovato la canzone. La canzone ha meno luogo perché ha meno spazio: in tre minuti è andata e talvolta ci rimane anche il dubbio se mai c'è stata. La canzone sembra stare dalla parte opposta a quella in cui sta l'architettura che, invece, non solo pretende di aver luogo ma, addirittura, di costruirlo. Questa è, a mio avviso, una pretesa eccessiva e ci trae in inganno inducendoci a credere che esso ci prescinda, consistendo in eterno. Io propenderei per forme d'esistenza meno precise e più parziali. Si esiste, insomma, occasionalmente e in combutta con i luoghi (vero) ma senza esagerare, giacché queste esistenze "reciproche" durano assai meno di un attimo e non si fa a tempo ad inquadrarle. Non sono esistenze rappresentative perché non sono esistenze rappresentabili. Insomma, parlo per me perché magari qualcuno potrebbe offendersi: siamo sempre fuori luogo. Anche per questo non sarà male parlare di canzoni. Le canzoni ci consentono di non dimenticare l'esiguità del consistere nostro e dei luoghi, ma così facendo ci aiutano, più che a sopravvivere, proprio ad esistere. Ad esistere nella sfumatura che ci è propria. All'inizio del 1967 esce uno dei più celebri "single" della storia della musica pop, contiene due brani: Strawberry fields forever e Penny Lane. Di John Lennon, il primo, di Paul McCartney, l'altro. Strawberry fields e Penny Lane sono luoghi della loro città natale, Liverpool. Luoghi banali, insignificanti per chiunque non ci abbia vissuto e non li abbia frequentati e, probabilmente, insignificanti anche per la maggior parte di quelli che ci hanno vissuto e che li hanno frequentati. Sono luoghi che non esisterebbero per alcuno, se non esistessero quelle due canzoni. Due filmati, in effetti, accompagnano i brani secondo un uso che da lì a qualche anno diventerà comune prassi pubblicitaria. Essi dovrebbero, in qualche modo, testimoniarne l'esistenza e zittire i miscredenti, ma il fatto è che quei filmati hanno poco a che vedere, fisicamente, con i luoghi a cui si riferiscono, come vedremo. Le canzoni di cui vi sto parlando sono, per la cronaca, le prime canzoni che i Beatles incidono dopo la morte (avvenuta nell'agosto del 1966) di Brian Epstein, l'uomo che li aveva scoperti e a cui, in fondo, dovevano la loro esistenza. Rappresentano uno spartiacque perché, probabilmente, è da lì che comincia la fine del gruppo. La grandissima I am the Walrus le precede di appena qualche giorno, dopo, è vero, ci sarà ancora un capolavoro (The White Album che, forse, insieme a Sergent Pepper's è il loro più bello) ma, per il resto, a parte qualche buon pezzo, nulla che possa davvero attribuirsi ai Beatles, nulla che conservi ancora quell'aroma ineffabile e assolutamente misterioso che li rendeva unici. Abbey Road, per esempio (ancora dedicato a un luogo, la strada in cui si trovano gli studi della Apple) è un gran bel disco, ma non direi che appartiene davvero ai Beatles. È come un Martini con un quarto del gin che ci dovrebbe essere. Troppo McCartney, troppo poco Lennon; e il primo non stemperato dal secondo lievita fino a diventare una specie di Elton John al cubo. Avremmo visto in seguito di cosa sarebbe stato capace una volta abbandonato a se stesso. Tirato a lucido e per bene, per carità, ma sa un po' di plastica Abbey Road (ricordo infatti che, sorprendendo me stesso, lo scambiai con Let it bleed degli Stones... ma va detto che era rovinato). È giusto, in fondo, che, come il canto del cigno, vi trovi posto quel sublime sonetto che è Here's comes the sun di George Harrison. Quelle due canzoni, comunque sia, sembrano davvero segnare un punto di svolta. Ora, nessuno dei due "promo", come dicevo, ha a che fare con Liverpool. Furono in realtà girati ambedue, tra il trenta gennaio e il sette febbraio del 1967, a Londra (Knole Park, Sevenoaks). Si parla di un luogo e se ne vede un altro. All'inizio del video di Penny Lane c'è uno scambio di occhiali tra Paul e John, che indossa quelli offertigli dal primo: strani, scurissimi, forse opachi. Proprio gli occhiali che ci vogliono, sembrano dirci le immagini, per prendere visione di Penny Lane. C'è inoltre, in questi occhiali scuri, anche un riferimento evidente ad un altro luogo e ad un'altra canzone, alla sua diversissima gemella siamese Strawberry Fields: Living is easy with eyes closed / misunderstandig all you see, è facile vivere con gli occhi chiusi, fraintendendo tutto quello che vedi. Rimbalziamo insomma da una canzone all'altra, da un video all'altro, da un luogo all'altro. Nelle sequenze immediatamente successive Lennon (...nowhere man in nowhere land) camminando, si guarda intorno: un vicolo, vecchi muri di mattoni. Potremmo essere ovunque se non vedessimo un autobus con la scritta "Penny Lane". Il luogo, per definizione immobile, ci è certificato attraverso un mezzo di trasporto, cioè attraverso un mobile. Ad un certo punto, da qualche parte indefinita dello spazio e del tempo, vengono fuori ancora dei mezzi di loco-mozione, ma questa volta fuori dal loro tempo e dal loro spazio (per cui sarebbe più preciso definirli mezzi di loco-rimozione). Si tratta di cavalli: tre bianchi, uno nero. Le ragioni della cabala sfuggono, né è detto che ve ne siano (il cavallo nero è quello di Harrison, fosse stato di McCartney un altro tassello si sarebbe aggiunto alla leggenda metropolitana della sua avvenuta dipartita). I cavalli si muovono dapprima tra i vicoli, poi attraverso una porta (che in questo caso non congiunge, come di solito succede un esterno e un interno, bensì due esterni...) si trovano in campagna, la stessa campagna dov'è ambientato il video di Strawberry. Si nota, in effetti, un fotogramma della vera Penny Lane, o così sembra, uno solo, quasi un'immagine subliminale. Poi un poliziotto sorridente, anche lui a cavallo (nel testo si parla di un barbiere, di una nurse, di un banchiere e di un pompiere, non ci sono poliziotti a cavallo). In mezzo alla campagna troveremo, d'altra parte, quanto di più urbano c'è dato immaginare: una tavola imbandita per il tè. Ci si accomoda. Arrivano subito i camerieri. Portano tè e biscotti? Niente affatto: portano chitarre. Si pensa alla risposta del "soldato" Lennon all'ufficiale che, in How I won the war (Come ho vinto la guerra), gli chiedeva "Sei sposato?": "No, suono l'armonica". Dalla dislocazione verbale a quella figurativa. Tavola con candelabri e camerieri in parrucca e livrea in una campagna gelida e grigia. La tavola verrà, infine, rovesciata e il tè se n'andrà a puttane. Nel video di Strawberry Fields Forever John, Paul, George e Ringo si trovano invece impegnati nella costruzione di qualcosa che forse è uno strumento musicale, magari un'arpa eolica, ma potrebbe essere anche qualcos'altro, qualunque altra cosa, e che alla fine si autodistruggerà rivelando la sua completa inutilità. Qui siamo davvero in nowhere land: un paesaggio assolutamente desolato e un albero intorno al quale si svolge "l'azione" (o ciò che è fatto passare per tale). Lo spazio ruota su stesso e si trasforma in tempo: si passa dal giorno alla notte e il luogo, pur restando il medesimo, si muta letteralmente in nulla. Il video si conclude con i quattro che si allontanano e scompaiono "decapitati dalle tenebre" (per usare una splendida espressione di un poeta della dislocazione, Bruno Schulz). L'ultima immagine che ricordo di questo filmato è costituita dai pantaloni bianchi di Paul McCartney che ondeggiano nel buio. Se, ora, ascoltiamo le due canzoni (ferma restando la differenza tra il disegno lineare e incisivo di Paul McCartney e quello lunatico e stravagante di John Lennon) ci accorgiamo di trovarci, sia qui che là, ancora e sempre in nowhere land. Si noti che, per colmo d'ironia, Penny Lane inizia con una preposizione locativa: "In Penny Lane there is a barber showing photographs". Ma proprio quell' "In" che dovrebbe posizionarci senza equivoci è, anche musicalmente, un problema e un equivoco. Provate a canticchiare la prima strofa e ve ne accorgerete. Senza "In" la frase letteraria e quella musicale coincidono perfettamente, con l'"In", invece, no. Ragion per cui tutti quelli che la cantano sotto la doccia, è ovvio, ne fanno a meno, saltano la preposizione di stato in luogo e cominciano direttamente con "Penny Lane there is a...". Quell'"In" ci costringe, infatti, ad una stramba contrazione del diaframma e ad un seccante contraccolpo vocale che ci fa iniziare cambiando passo, come se l'avessimo già perso ancor prima di muoverlo. Anche nella versione originale, infatti, l'"In" sembra non esserci e Paul comincia a cantare in modo evasivo e surrettizio. Perciò Penny Lane possiede quello strano inizio repentino. Sembra che sia cominciata prima e altrove e che se ne sia sempre perso il principio. Quella piccola preposizione ci fa cominciare col piede sbagliato e pare messa lì apposta per portarci fuori strada, un'indicazione ruotata dal teppista in senso inverso. Nella strumentazione non ci sono archi, solo legni (quattro flauti, due ottavini, un oboe) e ottoni (quattro trombe, un filicorno, un corno inglese) questo conferisce al pezzo tutta la sua brillantezza e la totale mancanza di nuance che lo caratterizza. Il luogo centrale del brano è proprio il suo punto più luminoso, il celeberrimo assolo di tromba. L'assolo fu eseguito (su suggerimento non di Paul né di George Martin, il grande orchestratore dei Beatles, ma dello stesso esecutore, David Mason, tromba della London Symphony Orchestra) su una tromba in la, e dunque un ottava più in alto del normale: una tromba dislocata rispetto alla tromba comune, su una scala differente. Questa dislocazione ha creato la leggenda, dura a morire, che esso fosse stato re-mixato a velocità maggiorata. Anche il luogo centrale di Penny Lane è dunque, guarda un poco, dislocato altrove. In un punto imprecisato dello spazio e del tempo (le sue ascendenze musicali non hanno nulla a che fare con il rock: il riferimento ideale è testimoniato dallo stesso McCartney ed è il secondo concerto brandeburghese di Bach). |
[16apr2004] | |||
E
Strawberry Fields Forever? Stavolta oltre a quattro trombe ci sono tre violoncelli che danno al pezzo un andamento dinoccolato con cui si distende pigramente. Le trombe si limitano a punteggiarne le lunghe linee orizzontali. Simile, in questo, a I am the Walrus, Strawberry Fields si muove in una dimensione in cui l'ombra d'ogni nota sembra allungarsi a dismisura, in un paesaggio al tramonto, fatto di mezze tinte e del tutto privo della brillantezza che, viceversa, possiede l'orizzonte azzurro e luminoso di Penny Lane. Per completare i nostri esercizi di dislocazione diremo però che Lennon la compose in Almeria, nel sud della Spagna, proprio mentre girava How I won the war. Pare che abbia iniziato a comporla sulla spiaggia e poi abbia finito in una vecchia e luminosa casa a patio, dov'era ospite. Una genesi sotto l'egida della luce solare e mediterranea. Ma i luoghi, si diceva, giocano a rimpiattino con il ricordo che si ha di loro. La melodia, giunta alle ultime battute, si sfilaccia e si disarticola, così come si sfalda l'arpa eolica o quel che è: implode e rovina su se stessa. Penny Lane conclude repentina, quasi surrettiziamente com'era cominciata, in levare, e sembra lasciare tutto in sospeso "Penny Lane is..." sono le ultime parole cantate da Paul che ci fa quasi visualizzare i puntini di sospensione, Strawberry invece conclude in modo assolutamente dispersivo, tenuta insieme solo dal ritmo della batteria. Ma in un caso e nell'altro quel che resta è lo stesso: uno spiazzamento. Non siamo "alla fine" ma dislocati da qualche altra parte e non sapremo mai, con precisione, dove. Nel ritratto di due adulti, lontani oramai anni luce da quello che erano quando davvero passeggiavano e giocavano in Penny Lane e in Strawberry fields, di questi due luoghi rimangono solo piccoli oggetti alla deriva, indicazioni contraddittorie e vaghe, nessun tempo perduto viene ritrovato perché quel tempo è cercato da un'altra parte, non c'è nulla di romantico e di sentimentale. Ma è proprio qui, in questa nitida imprecisione che risiede la loro bellezza. Sono due brani struggenti perché niente lascia presagire la nostalgia, che ti prende di sorpresa e non sai neppure di cosa. Ecco il punto. Queste due canzoni descrivono qualcosa che non c'era allora e che a maggior ragione non può esserci adesso. Nel momento in cui vi siamo immersi e lo viviamo il luogo sembra sfuggire ad ogni presa perché coincide con noi e in qualche modo è ciò che noi siamo. Poi ne ricorderemo qualcosa che sarà nulla. Io, adesso, nel momento in cui sono, non ricordo chi sono, non posso. Solo più tardi, mi ricorderò di essere stato qualcuno, ma qualcuno che non sono più, qualcuno di cui non afferro niente. Chi ricorda è, fatalmente, un altro. La vita quotidiana, nel suo presentarsi immediato, è immemore, procede in una strana luce meridiana e senza mezzi toni, che investe le cose brutalmente, rivelandole ma rendendole nello stesso tempo inafferrabili. In fin dei conti, riusciamo a far nostro, in qualche modo, solo quel che possiamo osservare con cura, alla luce smorzata del ricordo, il presente ci abbaglia. Ma, d'altra parte, quel che osserviamo alla luce del ricordo è inafferrabile. Così il nostro luogo e sempre da qualche altra parte. La vaga nostalgia che proviamo talvolta, in fondo, non si applica se non a se stessa. Nostalgia di nostalgia, nostalgia di una parvenza che, c'illudiamo, abbia avuto una realtà che non ha avuto. Ma ci è utile, nondimeno, ricordare quel poco o nulla perché è l'unica cosa che possiamo tenere in tasca e portare con noi. In fondo è un lieve ingombro, ci dà più di quel che pesa. I luoghi in cui abbiamo vissuto la nostra infanzia, e l'adolescenza, così. Non ci saranno né ci sono stati mai più vicini dell'ombra, la tocchi, ti tocca, cadi, cade, ma non esiste che in quella nudità filiforme ed eterea, in quel non esistere. Indifesa come un bambino e, come un bambino, invincibile. Due canzoni, che ruotano intorno a luoghi ed alla loro descrizione, ci restituiscono il senso della lontananza incolmabile che ci tiene perennemente a distanza noi da noi stessi. Luoghi del nostro passato che diventano rigorosa misura della nostra impossibilità a raggiungerli e, perciò, a raggiungerci. Vedete, ci fu un tempo (penso di poterlo affermare) in cui per me l'architettura non esisteva, in cui non distinguevo il profumo della zagara dal bianco della calce del muro che cintava l'aranceto. Un tempo in cui la parete della casa in cui abitavo non era altro che muschio e lichene o specchio per il sole. Sì, questo lo penso e so che non potrò più osservarla (la cosa che per adesso chiamo architettura) riflessa in quella splendente indifferenza nella quale, un tempo, devo pure averla vista. Ma, ugualmente, penso che il ragazzo che io ora ricordo e che toccava col dito, su quel muschio, il millepiede c'è solo adesso che non c'è, e non c'era invece, allora, quando c'era. Così non è qui, con me, e non è laggiù, a sfiorare il velluto sul muro con principesca naturalezza. Mai più vicino dell'ombra. Il rapporto con i luoghi (con i nostri luoghi) è un rapporto che non possiede alcuna stabilità. Mutevole ed impalpabile, ci disegna e ci definisce senza per questo essere, a sua volta, definito. Immaginiamo di descrivere il luogo in cui abbiamo trascorso l'infanzia: quell'albero, quell'edificio, quella strada e invece stiamo parlando d'altro, neppure noi sappiamo bene di cosa. Per esempio. La mia Penny Lane è una scala e un ragazzo quattordicenne che la scende saltellando su un piede. Ai piedi della scala un altro ragazzo, tredici anni, lo aspetta. Quando il primo arriva al pianerottolo si ferma e ride. L'altro pure gli risponde ridendo "La senti?" "Non sono sordo" "...e gli Stones?" insiste il ragazzo ai piedi della scala con un poco di malizia "Un disco così non l'hanno mai fatto" "Ah..." "...ma lo faranno, scemo..." Alla fine di quell'anno sarebbe arrivato l'album bianco, ma l'anno successivo sarebbe morto Brian Jones e, i Rolling, un disco come quello non avrebbero mai più potuto farlo. Loro, quei due ragazzi, sarebbero cresciuti da qualche altra parte, lontani uno dall'altro e da loro stessi per riapparire qui, dopo circa una vita, non più vicini dell'ombra. Di nuovo insieme per un attimo e poi sparire ancora, chissà dove. Ugo Rosa u.rosa@awn.it |
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