La
scoperta di un trattato inedito d'autore ignoto – 5 Materiali dell'architettura: la luce |
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Georges de La Tour, Saint Joseph charpentier, 1642. La luce (a Roberto Grossatesta) |
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Dall'imposta socchiusa, la mattina, vede luce, il reale, e le si aggrappa con un filo di polvere e di brina che lei, da levatrice esperta, strappa. Così ogni giorno, con muta disciplina, gli oggetti si dispongono sulla mappa intricata, di fili, che retìna e copre il mondo, come una gualdrappa. È la luce a guidarli sull'ordìto tenendone le redini flessuose e fini come rami di betulla. Luce, degli astri pallido detrito, speranza adamantina nelle cose e, insieme, nostalgia del nostro nulla. Nella "Critica della ragion pura" (Analitica Trascendentale, libro II, cap. II, sez. III) Immanuel Kant, dopo aver precisato il significato della parola Gemeinschaft (communio, commercium) nota "...la luce che agisce fra il nostro occhio e il mondo corporeo può produrre una Gemeinschaft fra noi e questo". Giovanni Gentile (della cui traduzione mi avvalgo) traduce Gemeinschaft con un pessimo "reciprocità". Io mi atterrò, con maggiore conformismo, proprio alle indicazioni di Kant dalle quali non vedo ragione per discostarmi. Dunque: relazione, comunione, comunanza ma, infine, anche intimità. La luce farebbe sì, allora, che tra noi e il mondo si stabilisca una comunanza e che si possa, perciò, entrare in intimità con esso. È come se, attraverso la carezza della luce, noi stessi accarezzassimo le cose e le cose, da parte loro, rispondessero a questa carezza. Se la luce, dunque, non ha consistenza di materia è però, in qualche misteriosa maniera, la generatrice di tutti i materiali perché è solo grazie ad essa che noi entriamo in intimità con questi e, dunque, con il mondo. Può sembrare strano che la luce, solitamente associata allo svelamento, introduca ad una misteriosa intimità con le cose. Certo le sonanti parole di chi inquisisce e ce le canta chiare sembrano testimoniare l'opposto. Egli fa luce e porta alla luce affinché tutti vedano e ne traggano edificazione. Però certi amabili praticanti della mezzatinta, qualche tenace assertore dell'abat-jour, giustamente sostengono che non c'è intimità senza una certa illuminazione. Così, certamente, doveva pensarla Georges de La Tour, squisito cantore di quest'intimità che la luce stabilisce tra noi e le cose. Pare che durante l'ultima guerra, nei campi di prigionia tedeschi, tra i soldati francesi passasse di mano in mano, custodito come una preziosa reliquia, un misterioso volumetto. Non era, come si sarebbe portati a pensare, un libro pornografico né una raccolta di preghiere (ambedue generi di gran conforto, s'intende, che non desidero qui sottovalutare). Si trattava invece di un'agile monografia tascabile pubblicata poco tempo prima, con le riproduzioni (en blanc et noire naturalmente) dei principali dipinti del pittore francese e con i testi, a commento, di Paul Jamot. Sempre in quegli anni, il poeta René Char teneva nel suo zaino di partigiano una piccola riproduzione del Giobbe di La Tour. A uomini proiettati dagli eventi assai lontano (non solo fisicamente) dalle loro case e da tutti i loro affetti, a uomini sradicati a forza dal destino, queste immagini furono, dunque, care. Io credo di intuire che esse lo furono perché, in mezzo alla lordura e all'impudicizia, laddove l'ammassamento più umiliante rende impraticabile ogni intimità e in ciascuno porta in trionfo, ululante, l'estraneo, le luci di La Tour splendevano come piccole lampade lontane e, a quegli uomini, parlavano di casa. Dimorare è trovarsi in intimo colloquio con le cose. Non è escluso, così credo io, che proprio nella luce di La Tour, infine, abiti il motivo (lo strano e abissale motivo) per cui quello stesso Renè Char, il poeta partigiano, il leggendario capitano Alexandre, fu poi profondamente amico di Martin Heidegger, il pensatore che non solo non si oppose e non emigrò, ma avallò il crimine e si schierò ciecamente al fianco degli assassini. Ma per ambedue quella luce risplendeva allo stesso modo. Così, il 26 maggio del 1976, mercoledì, Char poté scrivere: "Martin Heidegger est mort ce matin. Le soleil qui l'a couché lui a laissé ses outils et n'a retenu que l'ouvrage. Ce seuil est constant. La nuit qui s'est ouverte aime de préférence." In queste parole brilla una costellazione di nomi: matin, soleil, outils, ouvrage, seuil, nuit. Mattino, sole, utensile, opera, soglia, notte. Vi è tutto. Utensili ed opera sono nel cuore della frase, custoditi tra il sole e la soglia, dal mattino alla notte. Per un artigiano (della parola, del legno, della pietra o del pensiero) non può esservi stato altro modo di abitare, altro modo di vivere. Né un addio più degno. Dimorare è trovarsi in intimo colloquio con le cose e solo la luce rende possibile quest'intimità: la luce del mattino che promana dal sole, la luce della lampada, di notte, attraverso la soglia. O quella delle stelle. Siamo perché abitiamo e costruiamo, ma siamo perché la luce è. Char, Heidegger, La Tour. Il nostro B li cita tutti e tre, forse. O, se non li cita, li ricorda. Dedica invece, piuttosto platealmente, il suo sonetto a Roberto Grossatesta (quel Robert Greathead autore del De luce seu incohatione formarum il cui incipit è rimasto giustamente celebre: "Ritengo che la prima forma corporea, che alcuni chiamano corporeità, sia la luce..."). La dedica però, a pensarci, appare quasi ovvia: è solo perché la luce, in accordo con Grossatesta, è la prima forma corporea, che ad essa spetta di diritto il compito di aprire l'elenco dei materiali dell'architettura. L'inizio di questo primo sonetto alchemico descrive l'epifania mattutina del reale e subito, nella quartina successiva, il disporsi degli oggetti secondo la trama tessuta dalla luce. È la luce a muovere le cose sulla scacchiera del mondo ed a renderne percepibili le relazioni. Così il mondo appare: intrecciato da quei tenui filamenti luminosi. Normalmente non vediamo la luce, ne beneficiamo ottusamente. Talvolta tuttavia (una certa mattina d'autunno calibrata dal grigio sul passo delle nuvole o un imbrunire che, più lento del solito, indugia tra l'oro e l'azzurro in una sera d'estate) ci sorprende un riflesso. L'asfalto bagnato o una vetrina ne sono il pretesto, oppure l'antenna sul tetto, magari una ringhiera. Non importa. È l'eco della luce che ci chiama per nome e per cognome: vedi? Ci sei perché ci sono, ci sono perché ci sei. "Speranza adamantina nelle cose..." come scrive in chiusura B "...e, insieme, nostalgia del nostro nulla". Vorrei però invitarvi a leggere con particolarissima attenzione questa chiusa. Che la luce sia così definita non è irrilevante per l'architetto. L'autore sta infatti additando qualcosa di molto preciso: egli indica la hybris di chi pretende di "usare" la luce. È vero, qualche architetto barocco o rococò, in passato, fu effettivamente persuaso che lo si potesse fare impunemente, ma il suo errore non fu potenziato da moltiplicatori tecnologici. Oggi invece, che ad esserne follemente convinti sono legioni, a venir loro in aiuto è, con tutta la sua potenza di fuoco, l'illuminotecnica. Costoro, certamente, sono bravissimi ad usare la luce: praticano pertugi fosforescenti ad hoc, ipotizzano sorprese luministiche e giochi di prestigio nascondono fonti d'illuminazione radente; bagliori e luminescenze appaiono al battito di mani dell'abitatore, attonito e già rimbambito in precedenza da led luminosi, fibra ottiche e bip audiovisivi ad intermittenza. La luce, addomesticata a dovere, dà spettacolo di sé e dell'architettura come il malcapitato sul set dei dilettanti allo sbaraglio, mentre il conduttore (l'architetto-fotografato-fotografante) se la ride e passa all'incasso. Io però nutro il sospetto che se Goethe fosse morto in una camera da letto arredata da uno di codesti strimpellatori luciferini i suoi biografi non avrebbero mai potuto trascrivere le sue ultime parole: "Mehr Licht!", giacché egli non le avrebbe pronunciate. Forse, anzi, il vate germanico non si sarebbe spento mai più. Ma da questo, temo, nessuno avrebbe tratto vantaggio, neppure lui. Evocare "la nostalgia del nostro nulla" in un trattato d'architettura e in particolare in un brano dedicato alla luce, prima forma corporea, si rivela dunque come la dichiarazione di una poetica dello spegnimento che, lungi dal sottovalutare il ruolo della luce stessa ne individua piuttosto il gioco sottile e l'indomabile potenza creativa. Soprattutto suggerisce di smorzare, o spegnere addirittura (sarebbe meglio) l'occhio di bue che oramai rischia di fare arrosto l'architettura e di provocare l'esplosione dell'architetto, povero pollo abbandonato dall'utente dentro il forno a microonde. Ugo Rosa u.rosa@awn.it |
[17jun2004] |
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