Ciņ
che rimane |
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L'immagine
di questi ragazzi che giocano sulle rive del lago Tanganika è
stata catturata da un Cartier-Bresson ventiduenne, nel 1930. Nelle figure
di spalle dei tre ragazzi che giocano e nell'apparizione della mano
di un quarto si raccoglie tutto quanto lo splendore di un attimo, quello
in cui l'onda abbraccia, nel suo movimento, lo spazio configurato dal
gioco dei ragazzi. In quel recinto che due braccia e un'anca disegnano con grazia superlativa, consiste il centro di questa fotografia. Da lì si diparte il respiro dell'immagine, la sua silenziosa vitalità. È come se, ciò che potremmo definire "il soggetto" della foto, giochi a rimpiattino tra i ragazzi e il lago definendo, nel corso di quel gioco, questa piccola, effimera, imprecisa mandorla d'acqua e di spuma che sparirà, lo sappiamo, tra un attimo. Il fatto stesso che esista, anzi, è un miracolo e, se ci pensiamo bene, essa non esiste veramente e non è mai esistita se non nello sguardo del fotografo. E nel nostro. Ma questa trasparenza, questo quasi nulla così mutevole ed effimero, tuttavia, rimane. È sotto i nostri occhi per sempre. In questa foto, pressoché perfetta, nulla è in posa, né i ragazzi né il lago, ma in primo luogo non è in posa il fotografo. Ciò che, come ho detto, rimane è solo ciò che, se si dovesse definire, potrebbe benissimo essere definito trascurabile, quello che sfugge alla posa non perché non si "mette" in posa (giacché il non "mettersi" in posa, come testimoniano migliaia di foto in migliaia di riviste raffinate, patinate, moderne, firmate è un altro modo di "mettersi" e dunque di mettersi in posa) ma perché esiste appena, sta per sparire e se non sparisce è solo per combinazione. Il "rimanente" per cui, alla fine, vale la pena di rimanere a vedere, a leggere, ad ascoltare. Ad esistere. L'immagine che l'affianca è uno scorcio del portico esterno della chiesa di San Dimitris Loumbardiaris, nel parco dell'acropoli di Atene, progettato da Dimitris Pikionis nel 1954. Vi si vede, in fondo, l'ingresso al recinto che ne configura lo spazio antistante. Sembra tenersi in piedi, questo padiglioncino, come per miracolo. Forse il tempo, e l'incuria, gli hanno giocato un brutto tiro... ma anche tutto il resto (la copertura del portico, la panca, i travetti, i pilastri...) che in qualche modo tiene e ancora non rovina, sembra comunque in fase di smobilitazione: effimero, di passaggio. Un'architettura affetta da flanerie cronica; c'è e non c'è, ma in un senso completamente differente da quello a cui ci hanno abituato i minimalismi correnti. Qui non siamo al minimo, siamo piuttosto all'ineffabile e, mentre in un portoghese o in Tadao Ando, il meno è, sempre, il più (e ce lo canta chiaro) in Pikionis resta il meno e, per quanto già sia meno, tende ad esserlo ancora di più, fino a sparire. In effetti, l'architetto se n'è già andato e ciò che rimane è magnificamente orfano. Non c'è autore. Pikionis è solo un nome: qui l'architetto ha raggiunto il suo punto di fusione e, poi, è evaporato. Così seppero volatilizzarsi i grandi pittori di icone, fondendosi nella loro opera. Quest'architettura non conosce la posa. L'atteggiarsi le è estraneo. Rimane, tuttavia, e sembra rimanere per noi soltanto. Ciascuno può immaginarsi, per un attimo, seduto su quella panca. Non è necessario esserci stati, essere stati proprio lì: quella panca l'abbiamo vista mille volte, in un fresco mattino di maggio o in un terso pomeriggio di dicembre, e mille volte abbiamo visto quei travetti e quell'incannucciato, mille volte abbiamo accarezzato con le mani quei pilastrini di legno, pensando ad altro, e mille volte abbiamo poggiato i nostri piedi sopra quel tappeto liso. Mille volte ho visto questi rami di palma e d'ulivo, quel brandello di cielo, queste tavole vecchie, quelle pietre sconnesse. Sono nato in quel portico. Eppure non ci sono stato mai. Provate, vi prego, ad immaginare l'architettura di un qualche reverendo dell'iperattuale in queste condizioni, provate ad immaginarla dopo cinquant'anni d'uso, d'incuria, d'indifferenza, provatevi ad immaginarla vecchia, provate ad immaginarla trascurata come questa chiesetta alla base dell'acropoli. Vedrete quanto contano i muscoli di cui fa sfoggio. In questi sacrari dell'iperattuale non ci sarete stati mai, per quanto li visitiate mille e mille volte. Di essi non rimane nulla, per quanto urlino la loro presenza. È da una foto che ho capito che da questo posto si vede l'acropoli. Ma credo di conoscere l'odore che c'è, il mattino presto, sotto quel porticato. Nonostante i turisti esso rimane, persistente. Anche per me, che, questo luogo, l'ho visto solo in cartolina. Inafferrabile e, tuttavia, mio, così mio che posso sentirne nostalgia senza conoscerlo. Sarà capitato a molti. Sei in viaggio, per strada oppure su un treno, torni a casa oppure te ne allontani. Pensi uno di quegli stupidi, minuscoli pensieri che, per la quasi totalità, esauriscono il nostro pensare e, per un attimo, i tuoi occhi si posano su qualcosa di lontano, là fuori, inquadrato dalla piccola ma, adesso, vastissima cornice del finestrino. Non ci fai caso. Continui a pensare quel tuo piccolo, testardo, pensiero quotidiano e ad un tratto senti come una mancanza che, appena l'hai sentita, si trasforma in una presenza: nitida e luminosa. Una specie di vuoto, ma sottile, e profumato. Vai a cercare con gli occhi la cosa da cui (ne sei certo in un attimo) quella piccola assenza ha origine e la trovi: custodita da un cipresso e da un leccio in cima a una collina. Una piccola casa celeste dalle cui finestre già intravedi la prima luce della sera. Vi è nell'architettura di Pikionis (...ho vergogna a scrivere "di" Pikionis perché mi rendo conto, dicendo così, di non rendere giustizia alle cose e all'architetto, di peccare indirettamente d'impudicizia) qualcosa di quella luce serale, ancora acerba: antichissima. Qualcosa che pur non avendo alcuna consistenza né alcuna possibilità di essere affermata, tuttavia rimane, nella sua fragilità, indelebile. Ecco. Questo breve pezzo, scritto mentre arriva (speriamo) l'autunno, è dedicato a ciò che rimane. Cartier-Bresson se n'è andato quest'estate lasciandoci alcune immagini memorabili che serberanno il ricordo, per quei pochi che ancora vorranno ricordare, del suo e del nostro secolo. Avevano inventato (lui, Robert Capa e qualcun altro) un mestiere nuovo, che sembrava pieno di promesse e che è morto anch'esso, in giovanissima età, per elefantiasi: il mestiere di reporter. È difficile riuscire ad immaginare, oggi, che quella legione di imbecilli in giro per il mondo con le telecamere a tracolla, la prosopopea del "professionista", l'arroganza idiota dell'homme d'expérience che ti passa la mancia e la faccia di chi vuole fare il furbo a tutti i costi, eserciti, sulla carta, quel mestiere inventato da Henry Cartier-Bresson, eppure è così. Sono, probabilmente, le distorsioni dello spazio-tempo che si verificano quando ci si approssima alla velocità della luce. Ad esse dovremo abituarci, sembra... quelle distorsioni che fanno sì che si continui a definire l'edificante iperattuale con la stessa parola con la quale amava, di tanto in tanto, definirsi Dimitris Pikionis: architetto. Ugo Rosa u.rosa@awn.it |
[07sep2004] | |||
La
fotografia del portico esterno della chiesa di San Dimitris Loumbardiaris
è di Daniele De Lonti ed è tratta dalla monogafia Dimitris
Pikionis 1887-1968, edita da Electa, 1999.
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